Rùssia
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Nome con cui è nota una regione del mondo antico che nel corso della storia, in conseguenza della progressiva espansione dello Stato formato dai Russi di Mosca nel sec. XV, già erede della Russia di Kijev, si estese gradualmente a comprendere buona parte della sezione europea di quella che poi sarebbe stata l'Unione Sovietica e, in Asia, tutta la Siberia. Nell'accezione più antica il termine Russia corrispondeva all'Impero russo; oggi si identifica con questo termine la Federazione Russa. Qui comunque si preferisce dare a questo termine il suo proprio valore storico. In russo, Rossija.
Federazione Russa. Veduta della Piazza Rossa a Mosca.
De Agostini Picture Library / V. Rudko
Preistoria
I tempi preistorici, fin dalle epoche più remote, hanno lasciato sul territorio russo profonde e numerose testimonianze. I resti degli insediamenti più antichi, riferibili al Paleolitico, sono per lo più distribuiti attorno al Mar Nero e lungo il corso inferiore del Don, del Dnestr, del Dnepr e del Volga: tra essi occupano un posto preminente le stazioni preistoriche di Kostenki, Borščevo, Satani Dar, Tescik Tasc, Kiik Koba; in quest'ultima località, nel terreno di riempimento di una caverna, si sono raccolti anche resti ossei umani di individui neandertaliani associati a resti di fauna pleistocenica di clima freddo. Non mancano però giacimenti paleolitici anche nell'interno, fra cui quello di Sungir a nord di Mosca, da cui proviene una sepoltura intenzionale di elevato interesse scientifico. Tra i siti del Paleolitico superiore taluni presentano importanti manifestazioni d'arte preistorica, come quelli di Malta in Siberia, Gagarin sull'alto corso del Don e Mezin sul corso della Desna, in cui si sono rinvenute statuette muliebri in avorio di significato rituale; sulle pareti della caverna di Kapova negli Urali sono presenti espressioni d'arte rupestre con profili colorati di fauna selvatica. Se poco copiosi possono dirsi i resti mesolitici, ben più abbondanti sono quelli dei tempi neolitici; è stato possibile anche delineare le aree di diffusione delle prime facies del V millennio a. C., in Moldavia e in Ucraina. A partire dal IV millennio a. C. (Calcolitico antico), la situazione si differenzia e si complica, con la comparsa di nuove facies regionali nel nord-ovest e la diffusione di elementi della facies di Cucuteni dalla Romania. In quest'epoca, oltre a comparire la metallurgia viene introdotta la domesticazione del cavallo. Al III millennio a. C. si può invece datare l'introduzione del complesso dei kurgany, detto anche delle tombe ocrate: originaria della regione a nord del Mar Caspio e delle steppe asiatiche tale cultura si propagò verso gran parte dell'Europa centrale e balcanica, dando vita a varie facies locali. Nel Calcolitico russo oltre ai numerosi insediamenti delle zone meridionali, quali Mariupol sul Mar d'Azov, Majkop nel Caucaso, Fatjanovo nella valle del Volga, si annoverano centri anche molto all'interno, come quelli di Tripolje presso Kijev e di Kitoj e Glazkovo in Siberia. Un ruolo determinante ebbero talune popolazioni russe nella diffusione della metallurgia, dapprima del rame e poi del bronzo, i cui centri di origine possono individuarsi presso gli abili artigiani caucasici, nonché presso le genti della cultura di Andronovo insediate ai piedi della catena degli Urali e nella valle del Volga. Fra le località più note che videro fiorire culture dell'Età del Bronzo sono quelle di Afanasevo in Siberia, Borodino in Ucraina, Kajakent sul Mar Caspio, in cui la lavorazione sia dei prodotti fittili sia di quelli metallici raggiunse un alto grado di perfezione tecnica e artistica.
Storia: le origini
La storia della Russia, come tentativo d'unificazione di stirpi slave sotto la guida di una forte monarchia, ha inizio verso la metà del sec. IX, quando alcune popolazioni slave della Russia settentrionale, insieme con gruppi di coloni svedesi stanziati nella stessa regione, si rivolsero ai Normanni della Scandinavia perché intervenissero a proteggerli contro i nomadi Chazary avanzanti da est. L'invito fu accolto dal danese Rjurik che s'installò a Novgorod (856) e di lì inviò una spedizione a conquistare Kijev e, più tardi, a minacciare la stessa Costantinopoli con l'aiuto di altri svedesi che avevano costituito uno Stato di guerrieri e di mercanti intorno al Mar d'Azov. Furono dunque i Normanni, detti in Russia Vareghi o Variaghi, a far nascere nelle tribù slave una certa spinta unitaria e ad avviarle verso la formazione di una vasta compagine statale tra il Mar Baltico e il Mar Nero. I successori di Rjurik – Oleg (m. ca. 911), Igor (m. 945) con la moglie Olga (m. 969), Svjatoslav (m. 972), Jaropolk I (m. 977), Vladimiro I (m. 1015), Svjatopolk I (m. 1019), Jaroslav I (m. 1054) – tutti, salvo il primo, discendenti da lui, fecero di Kijev la capitale e il centro del loro principato, che comprendeva un gran numero di tribù slave dal golfo di Finlandia e dai laghi Onega e Ladoga al Mar d'Azov e al Caucaso, dalle paludi del Pripjat al Volga. Guerrieri di razza, si spinsero fino a Costantinopoli con Oleg (907), assalirono ancora l'impero bizantino con Igor (941 e 944), sconfissero Bulgari e Chazary con Svjatoslav (967-68). Intanto il cristianesimo avanzava dall'Occidente e già si diffondeva tra gli Slavi. Vladimiro scelse la via della conversione (988) e introdusse ufficialmente il cristianesimo di Bisanzio; i suoi discendenti nel 1054 seguirono i Bizantini anche nell'irrigidimento contro le pretese della Chiesa romana e nello scisma che ne seguì. Questa decisione fu la barriera che per lunghi secoli separò la Russia dalle nazioni dell'Occidente. Kijev rimase tuttavia indipendente da Bisanzio, di cui accettò la dottrina, non la giurisdizione, e fu capitale religiosa prima di cedere a Mosca questo privilegio (sec. XIV). Alla morte di Vladimiro, i figli lottarono sanguinosamente per l'eredità: Jaroslav riuscì a riunire nelle sue mani l'intero principato e a dargli nuovo splendore, dotandolo – fra l'altro – d'un Codice (la Russkaja pravda) assai notevole per i suoi tempi; ma alla sua morte ripresero le lotte tra i figli e i nipoti così che i Polovcy (o Cumani), pastori-predoni di stirpe turca, devastarono per molti anni le steppe ucraine. Kijev s'impoverì e decadde rapidamente, né valse a frenarne la caduta l'energia di Vladimiro II Monomaco (m. 1125), che batté i Polovcy e sembrò in grado di restaurare lo Stato. Nel 1169 un suo nipote, Andrea Bogoljubskij, duca di Vladimir, prese la città e la mise a sacco. Ma tanto Andrea quanto i principi suoi alleati nella lotta contro Kijev, continuando a suddividere i loro territori fra i numerosi figli, s'indebolivano progressivamente. Le forze vive della Russia erano allora tre: la ricca città mercantile di Novgorod, retta democraticamente da un'assemblea di cittadini (veče); la Moscovia, che dal sec. XII andò ingrandendosi rapidamente a spese dei ducati vicini; e la Chiesa che, nell'anarchia dei principi, acquistò influenza sempre maggiore sul popolo e ampliò i suoi possessi fondiari. Scomparsa, o quasi, la capitale, altre città (Vladimir, Suzdal, Tula, Pskov, Rjazan, Tver, Smolensk, Nižnij Novgorod ecc.) crebbero in ambizione e ricchezza. Ma l'invasione dei Mongoli (1237-41) travolse parecchie di queste città, come distrusse la semi-risorta Kijev. Sopravvissero solo Novgorod e Pskov; si rialzò presto Mosca, che si valse in seguito del favore dei Mongoli per costruire la sua grandezza. Batu, nipote di Gengis Khān e conquistatore della Russia, pose la sua sede a Sarai sul basso Volga e ne fece la capitale del khānato dei Qipciāq (o regno dell'Orda d'Oro) dipendente, almeno all'inizio, dal gran khān dei Mongoli. In questo regno, durato oltre due secoli, i Mongoli (o Tatari) si limitarono a raccogliere tributi senza curarsi dei bisogni della popolazione e rispettando solo la Chiesa e il clero ortodosso; ma l'impronta asiatica si manifestò in certe istituzioni destinate a radicarsi nella terra russa, come il dispotismo e la schiavitù, e contribuì a estraniare per molto tempo la civiltà dei Russi dal cammino dell'Occidente. La dominazione mongola non fu neppure un coefficiente d'unità fra le genti russe. Svilupparono una loro vita autonoma, fuori dell'area tartara, la Russia Bianca (Belorussia), con centro a Smolensk, sottomessa poi dai Lituani (prima metà sec. XIV) e la Piccola Russia (Ucraina), sempre minacciata e più volte invasa da forze polacche. Tributaria dei Mongoli, ma sostanzialmente indipendente rimase Novgorod, difesa dal suo principe Alessandro Nevskij (m. 1263) che, battendo Lituani, Cavalieri Teutonici e svedesi, apparve il campione della fede ortodossa contro le “crociate” papali. Con Danilo (m. 1303), figlio cadetto d'Alessandro, s'iniziò invece l'ascesa di Mosca, favorita dalla posizione geografica che le permetteva di collegarsi, per via fluviale, con il Mar Baltico, con il golfo di Finlandia, con il bacino del Volga e il Mar Caspio e con il Mar Nero. Nel sec. XIV i principi di Mosca fungevano da esattori dei tributi in nome del khān: questo ufficio consentiva loro di valersi di truppe mongole contro i principati rivali o ribelli e soprattutto di arricchirsi a tal punto da esercitare una forte influenza sul khān, sempre assillato dalla mancanza di denaro contante. Tutto questo fece la fortuna di Ivan I Danilovič Kalita (m. 1341), principe di Mosca; costui, repressa duramente la rivolta antimongola di Tver e d'altre città della Russia centrale, ampliò enormemente il suo territorio, attirandovi coloni da regioni vicine e lontane; non meno importante fu la consacrazione religiosa della sua egemonia, ottenuta quando il metropolita della Chiesa russa, già residente a Kijev e poi a Vladimir, si trasferì definitivamente a Mosca. Solo nella seconda metà del sec. XIV iniziò in Russia una vera offensiva militare contro i Mongoli, ormai indeboliti da lotte intestine. Nel 1380 il principe di Mosca Dmitrij Donskoj batté i Tartari a Kulikovo in una cruenta battaglia alla quale parteciparono contingenti di quasi tutta la Russia settentrionale e centrale. È vero che due anni dopo i Turco-Mongoli guidati da un generale di Tamerlano assalirono Mosca, Vladimir e altre città, devastandole, ma pochi anni più tardi lo stesso Tamerlano, sconfiggendo in battaglia un esercito dell'Orda d'Oro che gli si era ribellata e colpendo il vecchio khānato mongolo, preparò involontariamente la riscossa russa. All'inizio del sec. XV Mosca era ancora insidiata da est (Mongoli) e da ovest (Lituani): questi ultimi arrivarono sino a Smolensk. Ma, con il passar degli anni, i nemici della Russia allentarono l'assedio: spettava ora a un principe risoluto e ben armato il compito di condurre avanti quel processo d'unificazione che il tempo e gli eventi avevano ormai maturato.
Storia: da Ivan III all'ascesa dei Romanov
Con Ivan III (1462-1505) il granducato di Mosca iniziò una politica d'espansione che si concluse con la formazione di un grande impero. Ivan era circondato da nemici: la potente Novgorod a N, i Tatari a SE e a S, il granducato di Lituania, ormai unito al regno polacco, a W e SW. Ivan possedeva una superiorità militare che gli permise di assoggettare Jaroslavl (1463), Perm (1472), Rostov (1474), Tver (1485). Intanto la lotta con la tenace Novgorod era terminata con la vittoria di Ivan (1471), ribadita più tardi (1478) con la soppressione dell'indipendenza di quella città, ormai avviata a rapida decadenza. Lottare contro Mongoli e Lituani era meno semplice: una coalizione contro la Moscovia era sempre possibile. Ivan non batté i Mongoli, che evitarono la battaglia campale, ma cessò dall'esserne tributario, tanto più che l'Orda d'Oro si era ormai ridotta a un modesto khānato attorno ad Astrahan. Neppure con i Lituani Ivan fu vincitore, ma ormai le sue frontiere giungevano a breve distanza da Kijev e da Smolensk. L'autorità di Ivan sugli Slavi orientali ebbe un netto incremento quando lo zar sposò (1472) Zoe (poi Sofia) Paleologo, nipote dell'ultimo imperatore bizantino. Con questo atto Ivan accettò l'eredità dell'impero di Bisanzio sul piano religioso e fece di Mosca la “terza Roma”, destinata alla missione di cristianizzare l'Oriente europeo. Quando Ivan morì, lasciò uno Stato enormemente ingrandito a N per l'annessione dei molti paesi dipendenti da Novgorod che si estendevano ampiamente verso il Mar di Barents e persino al di là degli Urali. Ai successori di Ivan III toccò risolvere due grossi problemi: quello dell'inserimento di un regno slavo compatto tra i Tartaro-Turchi incalzanti da SE, i Lituano-Polacchi minaccianti da SW e da W, e l'Ordine Teutonico che, dominando in Livonia, si frapponeva come un grosso ostacolo tra la Russia e il Baltico; e quello di dare alla Moscovia un assetto sociale che consentisse la raccolta degli uomini necessari per la difesa del Paese e la disponibilità di braccia sufficienti per l'agricoltura e l'artigianato. Fu questo il compito che si assunse Ivan IV il Terribile (1547-84). Di costui la storia ricorda specialmente la passionalità sfrenata, la crudeltà spesso efferata, l'uccisione del figlio, il terrore eretto a sistema di governo. Ma si deve anche ricordare che Ivan, uomo di idee chiare e talora geniali, trasformò la Russia in una grande monarchia, aperta alle influenze dell'Occidente e già avviata, anche economicamente, verso un avvenire imperiale. Con Ivan IV la Moscovia arrivò a Kazan (1547-52) e ad Astrahan (1557), infliggendo un grave scacco ai Mongoli e spalancando ai suoi sudditi le vie del commercio orientale. A Occidente lo zar pretese d'attaccare l'Ordine Teutonico in Livonia, ma non mieté che sconfitte e umiliazioni. Se però sul fronte occidentale la Moscovia sembrava bloccata, i suoi progressi, sotto l'aspetto dell'ordinamento interno, erano importanti. Alla vecchia aristocrazia dei boiari veniva infatti affiancata una “nobiltà di servizio” (i cosiddetti pomeščiki), destinata a soppiantarla; la macchinosa divisione del territorio dello Stato in due parti non era che un mezzo per esautorare i boiari e toglier loro i maggiori possedimenti che, in genere, andavano ad arricchire i pomeščiki. Ancor più significativa, se non proprio positiva, fu la spinta data da Ivan alla stabilizzazione del contadino nella sua condizione di servo (anche se la piena attuazione della servitù della gleba si ebbe solo intorno al 1650). Sotto Ivan nasceva, tra i contadini non strettamente necessari al lavoro agricolo, anche un artigianato rurale non del tutto primitivo. Né si può dimenticare che, durante questo regno, incominciava una coraggiosa migrazione verso gli Urali e la Siberia (1582): impresa che doveva, nei secoli successivi, trasformarsi in una colonizzazione tra le più grandiose della storia. L'autocrazia moscovita sembrava ormai saldamente fondata, anche per la presenza di una nobiltà condizionata al servizio del monarca e priva di atteggiamenti ribelli; ma la morte di Ivan IV rivelò quanto ancora di infondato e di provvisorio rimanesse nelle strutture del nuovo Stato. Uno zar inerte, Teodoro I (1584-98), e un energico reggente di ascendenza mongola, Boris Godunov, eletto poi zar (1598-1605), risvegliarono l'opposizione magnatizia; e questa, già favorita dall'imperversare delle carestie (1601-03), trovò appoggio nelle ambizioni polacche. Sorse un pretendente, forse polacco, che si presentò come Demetrio, un figlio di Ivan IV morto assassinato anni prima (la riapparizione dei defunti in veste di pretendenti è una costante della storia russa); costui con un piccolo esercito di volontari polacchi, con una moglie polacca di stirpe illustre, con l'aiuto della Chiesa romana e dei gesuiti, riuscì a farsi proclamare zar (1605) al posto di Boris, morto misteriosamente. Una rivolta di boiari lo rovesciò e lo soppresse (1606), ponendo sul trono un boiaro, Vasilij Šuiskij, costretto a difendersi contro un secondo falso Demetrio e contro forze polacche che re Sigismondo III lanciò con successo alla conquista di Mosca, non senza l'aiuto di una parte dei boiari e dei nobili. Il tempo lavorò però a favore di una riscossa nazionale russa. Nel disordine generale scomparvero dalla scena il secondo Demetrio, lo zar Basilio e infine anche i Polacchi, che avevano tenuto il Cremlino per oltre due anni (1610-12). Riprese quota lo Zemskij Sobor, l'assemblea di proprietari terrieri che già aveva eletto Boris Godunov e che ora sosteneva la candidatura “nazionale” di Michele Romanov, un sedicenne imparentato con Ivan IV. Riprese quota la nobiltà dei dvorjani (cortigiani), che vide restaurati i suoi diritti, e insieme il sano patriottismo delle città russe (da Nižnij Novgorod partì la “crociata” nazionale). Ciononostante la Russia di Mosca era in condizioni pietose: gran parte dei contadini, abbandonate le campagne, avevano migrato verso il Sud, rafforzandovi quella popolazione cosacca che, organizzata militarmente ma indipendente sino all'anarchia, aveva tanto contribuito a rendere confusa e tragica la situazione politica durante la cosiddetta smuta (disordine, età dei torbidi).
Storia: dall'ascesa dei Romanov all'età delle imperatrici
Il periodo dei primi Romanov (Michele III, 1613-45, e Alessio, 1645-76) vide la lenta ricostruzione di uno Stato devastato. La servitù della gleba divenne la norma assoluta per tutte le campagne russe; l'oppressione del contadino e del cittadino umile da parte dello Stato e dei proprietari terrieri si ampliò dando origine a violente rivolte sociali, come quella di Stjenka Razin che, partendo dalle regioni sudorientali, minacciò seriamente (1667-71) l'integrità dello Stato. Non mancarono però in questo periodo gli elementi positivi: la mitezza dei due zar ridiede ai popoli la speranza di una protezione; si allacciarono rapporti con le nazioni dell'Occidente; si svilupparono i commerci, specie attraverso il porto di Arcangelo; Mosca s'ingrandì e accolse molti stranieri, soprattutto mercanti; i Cosacchi, dopo aver lottato a lungo contro i sovrani polacchi, giurarono fedeltà al governo dello zar (1654). L'istruzione delle classi superiori fece qualche passo in avanti e la Chiesa russa, sotto l'influenza del clero ucraino, accolse le energiche riforme del patriarca Nikon, pur in mezzo a contrasti che sono rimasti vivi sino ai nostri tempi. Era già una Russia in via di lento rinnovamento quella che Pietro I (detto poi “il Grande”; 1689-1725) si trovò dinanzi quando, alla morte della madre, nominata reggente dopo la lunga e burrascosa reggenza della figliastra Sofia (1682-89), assunse finalmente il potere (1694). La personalità di Pietro incise però sin da principio nella storia russa con una forza e una continuità sconosciute ai primi Romanov. La strana educazione ricevuta fuori dall'ambiente di corte aveva fatto di lui un uomo avvezzo a sperimentare di persona uomini e cose, incline alle scienze applicate, alla tecnica, al linguaggio delle cifre, alla ricerca del risultato pratico. Il potere gli servì per attuare i suoi programmi e i suoi calcoli; le sue cognizioni furono utilizzate per allargare l'area del suo potere. Il culto dell'Occidente, che appare il motore di tutta la sua vita di sovrano, non fu altro che l'idoleggiamento di un'“efficienza” che doveva appoggiare le sue mire politiche. Queste non erano poi molto diverse da quelle dei suoi predecessori: ingrandimento dello Stato sino al Baltico e al Mar Nero, conseguimento di una superiorità militare sugli Stati vicini (Svezia, Polonia, Turchia), inserimento nella grande politica europea. Tutto questo esigeva che il Paese fosse pacificato all'interno e che la maggior parte degli abitanti fosse persuasa di dover lavorare, anzi sacrificarsi, per la grandezza della Russia (che ormai cessava di chiamarsi Moscovia). Le riforme di Pietro, inasprite anche dal suo carattere impaziente e intollerante d'opposizioni, diventano tutte chiare in questa prospettiva: il moltiplicarsi delle imposte e delle tasse, i censimenti a scopo fiscale, la mano d'opera per le fabbriche raccolta attraverso un reclutamento forzato; l'obbligo per i nobili di servire nell'esercito, nella marina o nella burocrazia; l'inalienabilità della proprietà ereditaria; l'aggravarsi dei pesi e dei doveri sui servi della gleba (l'80% della popolazione); l'istruzione estesa a varie classi sociali, ma tutta basata sulle discipline utili alla guerra (matematica, balistica, scienza nautica, ecc.); l'incoraggiamento a mercanti e tecnici occidentali perché si stabilissero nel Paese; l'istituzione del Santo Sinodo, un organo statale (se pur composto da ecclesiastici) che sostituì il patriarcato e finì per assoggettare la Chiesa agli interessi dello Stato; e infine lo sterminio degli strelizzi, prepotente casta militare decisa a lottare per la sua sopravvivenza contro la stessa autocrazia. La politica estera di Pietro non si risolse sempre in successi: Turchi e Svedesi inflissero alle forze dello zar gravi sconfitte. Ma lo sforzo immane della Russia (per molti anni i 4/5 del reddito nazionale furono assorbiti da spese militari) raccolse infine i suoi frutti. Sconfitta la Svezia, contenuta la decadente Polonia, Pietro ottenne (Pace di Nystad, 1721) la Livonia, l'Estonia, l'Ingria, parte della Carelia, con qualche ottimo porto sul Baltico, e affermò con la fondazione di San Pietroburgo (1703) la vocazione occidentalistica dell'impero russo. Ma benché il commercio della Russia fosse ormai prevalentemente indirizzato verso l'Occidente, non mancò l'interessamento agli scambi con la Cina da un lato, alla penetrazione nell'Asia centrale e in Persia dall'altro: imprese, queste ultime, dai risultati effimeri. Pietro morì nel 1725 con la coscienza d'aver risvegliato la Russia a nuova vita e in questa convinzione c'era anche molto di vero; d'altra parte, non molti tra i Russi potevano dirsi contenti dell'opera dello zar. Forze armate, agricoltura, industria, commercio, navigazione, miniere, istruzione, tutto appariva in progresso; ma forse solo la classe dei dvorjani se ne era avvantaggiata. Il popolo russo rimaneva passivo e indifferente dinanzi a tante riforme che non gli arrecavano né benessere né dignità né speranza e le due Russie, non collegate da una classe media, corsero su binari differenti, estranee e quasi ignare l'una dell'altra, sino alla Rivoluzione del 1917. La morte di Pietro segnò l'inizio di un nuovo periodo: l'autorità della monarchia decrebbe rapidamente, si moltiplicarono gli intrighi di corte e le prepotenze dei favoriti, i nobili risfoderarono le loro pretese e ottennero di mantenere i privilegi, non gli obblighi di servizio. Nessun progresso, invece, per le classi umili e per i contadini, costretti a servizi gravosi. Progredì, piuttosto, l'occidentalizzazione delle alte classi; qualche progresso segnò anche la cultura e, nonostante il non governo di cui soffrì il Paese, la Russia riuscì ad affermarsi ancor meglio di prima nella complessa politica d'equilibrio delle nazioni europee. Dei 75 anni che corrono dalla morte di Pietro I alla fine del secolo, 68 videro donne sul trono: Caterina I (1725-27), vedova di Pietro, Anna Ivanovna (1730-40), nipote del grande zar, Anna Leopoldovna (1740-41), pronipote del medesimo, Elisabetta (1741-62), figlia di Pietro e di Caterina e, finalmente, la “grande” Caterina II (1762-96). Le due prime, ignoranti e dissolute, lasciarono il governo dello Stato ai loro favoriti: fu questa l'epoca infelice dei vremenščiki, ossia dei “sovrani effimeri”. Già Menšikov, favorito di Caterina I, era apparso il vero capo dello Stato; con Anna Ivanovna il suo posto fu preso da Biron, coadiuvato da altri ministri tedeschi come lui, quali Ostermann e Münnich. Meno infelice apparve la regalità femminile con Elisabetta, anch'essa incolta, frivola e capricciosa, ma cara ai nobili che si sentivano protetti da lei e al popolo che vedeva in lei una vera russa. Migliore sembrò il governo di Caterina II, una principessa tedesca che, sposata giovanissima all'erede al trono Pietro III, riuscì poi a sbarazzarsi del marito inetto e a governare per lunghi anni secondo i dettami dell'assolutismo illuminato. Dissoluta quanto le sovrane che l'avevano preceduta, non si lasciò condizionare dalle sue passioni, ma si dedicò agli affari di Stato con solerzia e con notevole acume. Corrispondente di Voltaire, d'Alembert, Diderot, aveva accolto le idee dell'Encyclopédie ma, da zarina, applicava solo quei principi che servivano a consolidare il suo potere. Entrò alla corte, con la lingua francese, la cultura occidentale più di quanto non si fosse veduto sino allora, ma al popolo l'autocrazia mostrava ancora il suo volto più arcigno e crudele. Mentre San Pietroburgo si abbelliva di stupendi edifici, dovuti soprattutto ad architetti italiani, scoppiò la rivolta di E. Pugačëv (1773-75) che, raccolto un grosso esercito di contadini fuggiaschi, Cosacchi, operai e barcaioli del Volga, imperversò a lungo nei territori del Volga e dell'Ural, conquistando parecchie città e mettendo a serio repentaglio la sicurezza dello Stato. Inutile aggiungere che la repressione della rivolta causò un netto peggioramento nelle condizioni della plebe rurale. Più importanti furono i risultati conseguiti dal governo di Caterina nella politica estera. Le tre spartizioni della Polonia (1772, 1793, 1795) offrirono alla Russia non solo un acquisto di territori a W, ma anche un reale progresso nel ruolo di potenza mondiale. Una pace generale nell'area europea era ormai inconcepibile senza la Russia. Da un punto di vista economico fu preziosa l'avanzata della Russia verso il Mar Nero, a spese dei Turchi. Con la Pace di Küciük Qainargè (1774) le navi russe furono autorizzate a navigare liberamente su quel mare e a servirsi degli Stretti per il commercio con i Paesi europei. La Russia possedeva ormai le terre produttrici di grano e si era accaparrata i porti per una fruttuosa esportazione.
Storia: dal sec. XIX al tramonto dell'impero russo
Paolo I (1796-1801), succeduto alla madre, evidentemente squilibrato, rappresentò una triste parentesi; ad Alessandro I (1801-25), forse in parte responsabile della misteriosa soppressione del padre, toccò ormai il compito di dirigere la Russia, prima e dopo la vittoria su Napoleone, sulla via di un rinnovamento morale e sociale. Tutto sembrava preannunciarlo: l'educazione liberale ricevuta dallo zar, l'apertura del Paese a libri e idee europei, la nuova coscienza delle giovani generazioni, l'influenza occidentale subita da nobili e militari attraverso le guerre con i Francesi, l'unione spirituale di tutti i Russi di fronte all'invasione straniera. Eppure Alessandro riuscì a vanificare queste promesse, passando in pochi anni da un liberalismo velleitario e dai vasti programmi di riforme costituzionali preparati da Speranskij (1809-12) a un misticismo altrettanto dilettantesco (la Santa Alleanza del 1815) e, più tardi, sotto l'influsso dell'onnipotente ministro Arakčeev e di Metternich, a una posizione nettamente reazionaria sia di fronte ai suoi sudditi sia dinanzi alle nazioni che invocavano libertà (1820-25). Nei primi anni del regno di Alessandro il commercio e l'istruzione avevano chiaramente progredito grazie all'atmosfera di libertà che incoraggiava le iniziative, ma dopo le guerre del 1812-15 scomparve ogni prospettiva di rinascita e le classi lavoratrici ripiombarono nella loro schiavitù economica e giuridica. Anche la creazione del nuovo regno di Polonia, assegnato allo zar, non recò alcun vantaggio né ai Russi né ai Polacchi per l'impossibilità in cui si trovava il governo di San Pietroburgo di risolvere i problemi d'altri popoli, non sapendo risolvere i propri. Era logico che, dopo il 1816, sorgessero in Russia società segrete, nate dal malcontento delle classi alte, che la reazione sembrava privilegiare ma i cui membri più illuminati (per lo più ufficiali dell'esercito) si agitavano impazienti di fronte a un assolutismo non più giustificabile. Si giunse a programmare la deposizione di Alessandro o addirittura lo zaricidio; ci fu (dicembre 1825) il tentativo di colpo di stato dei decabristi, fallito per errori d'organizzazione, ma rivelatore di una crisi profonda. L'aver inaugurato il regno con questo drammatico evento indusse Nicola I (1825-55), fratello di Alessandro, a imboccare sin dall'inizio la via di una reazione organizzata in ogni particolare. Nicola volle essere il “gendarme d'Europa”; la sua coerenza morale e la sua buona fede, tanto maggiori di quelle del fratello, gli consentirono d'immobilizzare la storia russa nel rifiuto d'ogni novità e nella lotta contro ogni idea che minacciasse il sacro trinomio: ortodossia, autocrazia, nazionalismo. Per Nicola la salvezza della Russia stava nel resistere al contagio delle idee d'Occidente, il che spingeva fatalmente all'opposizione tutta l'. Il controllo del pensiero e dell'attività dei nemici, veri e presunti, del regime di Nicola, esercitato da una polizia oculatissima, bloccò ogni tentativo di protesta o di rivolta. Le armi russe furono, è vero, vittoriose in più di un'occasione: soffocarono l'insurrezione polacca (1830-31), avanzarono in Caucasia, in Persia e nell'Asia centrale, sconfissero (1849) gli Ungheresi ribellatisi contro Vienna. Ma la guerra di Crimea (1853-56) rappresentò un grave scacco, non solo perché scatenò in difesa della Turchia le maggiori forze militari dell'Occidente o perché fece perdere alla Russia il predominio sul Mar Nero, ma soprattutto perché rivelò la disorganizzazione dell'esercito, l'incapacità dei capi, la corruzione esistente in alto e in basso. Alessandro II (1855-81), salito al trono in un momento assai critico, animato da intenzioni liberali, iniziò il suo regno con il preciso disegno di una riforma dello Stato in senso moderno e soprattutto di una soluzione della questione agraria. La Russia sembrò trovare una nuova vitalità in un regime che incoraggiava l'istruzione, la stampa, le iniziative economiche. L'emancipazione dei servi della gleba (1861) fu una grande svolta nella storia russa più per il suo significato politico-morale che per le conseguenze immediate; in realtà ne uscirono svantaggiati tanto i proprietari quanto i contadini. Intanto vivaci correnti di pensiero si affrontavano nel Paese; già nei decenni precedenti gli occidentalisti e gli slavofili, uniti nell'auspicare la trasformazione sociale e politica della Russia, si separarono al momento di scegliere per modello l'Occidente innovatore o le vecchie tradizioni del popolo russo. Sotto Alessandro II molti intellettuali si orientarono verso il populismo, cercando di ridestare nei contadini la speranza di poter essere un giorno gli arbitri del loro destino. Dalla matrice populista sorsero gruppi di combattimento, alcuni dei quali scelsero il terrorismo come unica arma idonea a combattere lo spirito di reazione che tornò ad animare le sfere governative. Alessandro II, che pure aveva ottenuto qualche successo politico-militare nei Balcani (1877-78), che aveva dato impulso all'industria, al commercio, alle ferrovie e che aveva sinceramente auspicato uno sviluppo della Russia in senso europeo, finì con il raccogliere diffidenza e odio da destra e da sinistra e morì assassinato da un terrorista (1881), assai meno rimpianto di quanto non meritasse. Ma l'avvento al trono del figlio Alessandro III (1881-94) peggiorò la situazione: sotto l'influsso nefasto di Pobedonoscev, si tornò a governare nel culto dei tre “miti” del tempo di Nicola. Ma l'autocrazia, più che un fatto, venne considerata un dogma; l'ortodossia diventò persecuzione dei sudditi cattolici, ebrei, protestanti, o comunque dissidenti; il nazionalismo fu compressione delle nazionalità non russe, sostituzione forzata della lingua russa agli altri idiomi nazionali. Sembrava che lo zarismo, ormai moribondo, volesse accentuare tutte le ingiustizie e gli errori del passato. Gli ebrei furono i più bistrattati, colpiti come furono da misure legali e frequenti . L'autogoverno locale, promosso da Alessandro II con la creazione degli zemstvo, aveva impegnato nobili, borghesi e contadini in un fecondo lavoro comune; ma Alessandro III distrusse tutto questo, ridando alla classe nobile le responsabilità amministrative e svuotando di significato tutte le riforme del suo predecessore. Nonostante questa cecità del governo, che per evitare la rivoluzione moltiplicava i presupposti della medesima, la Russia verso la fine del secolo aveva compiuto passi da gigante nella produzione industriale, ma i grandi profitti non avevano contribuito al benessere della popolazione essendo finiti nelle casse dello Stato o nelle mani di pochi capitalisti, quasi sempre stranieri. In politica estera la Russia, venuta in urto con l'alleata Germania sia per ragioni economiche sia per le delusioni patite nei Balcani di fronte alla politica di Vienna appoggiata da Berlino, si orientò verso un'alleanza con la Francia (1891). Con Nicola II (1894-1917) il progresso economico fu ancora più sensibile, grazie all'azione energica di S. Ju. Vitte, ministro delle Finanze, il maggior uomo di Stato russo del suo tempo (1892-1903). Con l'industria crebbe di numero e di forza il proletariato urbano, pronto ad accogliere non più il verbo dei terroristi, ma l'insegnamento marxista, con altre ideologie rivoluzionarie che il governo perseguiva senza poterle sopprimere.
Storia: il secolo XX
Nei primi anni del sec. XX la situazione interna attraversò una grave crisi: scioperi operai a catena, rivolte contadine, insurrezione ideologica contro l'autocrazia da parte della borghesia liberale. I due partiti rivoluzionari, il socialdemocratico, ormai suddiviso in “bolscevichi” e “menscevichi”, operante soprattutto fuori dei confini, e il socialrivoluzionario, che univa dottrine marxiste con idee populiste e agiva specialmente nelle campagne, diffondevano il loro messaggio con crescente efficacia. La guerra russo-giapponese (1904-05), propugnata dal ministro Pleve (1902-04; già tristemente famoso per l'organizzazione di pogrom) come un diversivo che avrebbe allontanato l'incubo della rivoluzione, mostrò quale fosse la disorganizzazione delle forze armate russe e con quanta leggerezza il Paese venisse chiamato a gravi sacrifici per difendere gli interessi di una cricca di speculatori. Invece di distrarre il popolo dai problemi più urgenti, la guerra in Estremo Oriente acuì inquietudini e malcontenti; svanì la già scarsa fiducia nel governo e nell'esercito; apparvero ingiustificate le rinunce a cui era soggetta la popolazione. Il 22 gennaio 1905 una pacifica dimostrazione dinanzi al Palazzo d'Inverno veniva dispersa con migliaia di morti e feriti (“domenica di sangue”); seguirono sommosse popolari, l'ammutinamento della corazzata Potëmkin nel Mar Nero, pronunciamenti di truppe, decise prese di posizione da parte dei liberali. Lo zar Nicola promise allora di convocare un'assemblea rappresentativa (Duma) e nell'ottobre 1905 emanava un manifesto con varie promesse in senso costituzionale. La speranza che nel regime russo qualcosa veramente cambiasse andò presto in fumo: la Duma, postasi all'opposizione contro un governo che era responsabile solo dinanzi allo zar, fu disciolta dopo poche settimane (1906). La seconda Duma ebbe eguale fortuna; la terza (1907) poté sopravvivere perché il sistema elettorale era stato modificato a favore delle classi alte. Questo tentativo di dotare la Russia di istituzioni moderne servì solo a mettere in luce la dura opposizione antigovernativa della classe borghese, concentrata nel partito dei “cadetti”. Intanto era riuscito al governo di consolidare la posizione internazionale della Russia rafforzando l'alleanza con la Francia del 1891 (il cui valore, data l'incompatibilità ideologica dei due Paesi, si riduceva al campo finanziario e militare) con un'altra intesa, non meno sorprendente, con l'Inghilterra (1907). Si trattava di reprimere le supposte intenzioni tedesche di guerra e di sviluppare una politica antiaustriaca nei Balcani. Tra il 1906 e il 1911 il sagace ministro Stolypin tentò un'ultima mossa per salvare la vecchia Russia: la soppressione delle “comuni” agrarie e la creazione di un ceto di contadini-proprietari atto ad assumere un ruolo conservatore. L'operazione sembrò avere successo, ma, favorendo un'élite, peggiorava le condizioni della massa, aggiungendo nuovi incentivi alle istanze rivoluzionarie. Nella guerra mondiale, la Russia intervenne allineandosi con la Francia e la Serbia, che già da qualche anno si muoveva nell'orbita politica di San Pietroburgo, e scatenò subito un'offensiva contro la Prussia Orientale che servì a frenare la marcia dei Tedeschi su Parigi, ma che terminò con una dura sconfitta (Tannenberg, 1914). Nel 1915 si ebbero altre sconfitte con enormi perdite (Laghi Masuri, Galizia) e anche quando le truppe russe avanzavano (Bucovina, 1916), ciò avveniva con incredibile spreco di uomini e di materiali. La disorganizzazione, già grave all'inizio del conflitto, superò ogni limite nel 1916: tutti i trasporti erano in crisi, l'esercito mancava di munizioni e il popolo di pane; speculatori e fornitori disonesti accumulavano fortune ingenti. Nella famiglia imperiale divenne sempre più forte l'influenza della superstiziosa zarina sullo zar e dello pseudo-monaco Rasputin sulla zarina. L'insurrezione contro quella tragica combinazione di tirannia e d'impotenza venne dalla popolazione di Pietrogrado prima ancora che dai partiti rivoluzionari (gennaio-marzo 1917). Fu un improvviso scatenarsi di scioperi, saccheggi di negozi, ammutinamenti di truppe, invasioni d'uffici pubblici, assalti a tribunali e prigioni. Così, con manifestazioni spontanee e tumultuose, sotto gli occhi di un governo paralizzato e quasi rassegnato, incominciava il lungo cammino della Rivoluzione russa. Dalla Rivoluzione in poi gli eventi storici e politici della Russia appartengono alla storia dell'URSS. Per gli avvenimenti successivi alla dissoluzione dell'Unione Sovietica (1991), vedi la voce Federazione Russa.
Letteratura: la tradizione orale e le prime raccolte scritte
Il cristianesimo giunto da Bisanzio non riuscì a stabilire una mediazione con la cultura occidentale, ma diede anzi l'avvio a quell'isolamento del Paese che l'invasione tatara accentuò e che fece della Russia un Paese sempre un po' diffidente verso l'Occidente europeo. Non fu quindi soltanto la ritardata fioritura artistica e letteraria del Paese a tenere nell'ombra la civiltà dell'Est europeo, ma un vuoto di rapporti che giunse fino a Pietro il Grande. Solo con questo sovrano cominciarono infatti a filtrare nell'Occidente europeo le prime notizie su un patrimonio letterario che aveva una vasta tradizione orale nei canti epici, nelle byliny, così radicati nella storia russa che il popolo le cantò per secoli, portandole fino alle soglie del nostro tempo con il nome di stariny (storie antiche). Erano canzoni di gesta che intorno ai sec. X e XI specie di trovatori venuti da Bisanzio o da altri Paesi del Sud cantavano alla corte dei principi. Benché avversati dalla Chiesa, impegnata a coagulare ogni forma d'arte intorno al proprio patrimonio spirituale, i cantori andavano di terra in terra a narrare, dapprima senza accompagnamento musicale, le gesta dei loro eroi: la bylina raggiunse così l'estremo nord insediandovisi per sempre, dando vita assai tardi alle prime raccolte scritte apparse nel 1804 a cura di Kirša Danilov, nel 1868 di Bjbnikov e nel 1872 di Hilferding. Se la bylina si concretizza nella forma scritta tanto tardi, i primi documenti scritti della letteratura russa sono opere di chierici, testi a carattere religioso o moralistico o cronache, e risalgono al sec. XI, come il Vangelo di Ostromir (1060). I primi nomi di uomini di lettere che si ricordano sono quelli del metropolita Ilarione (sec. XI), Kliment Smoljatič (sec. XII), Kirill Turovskij (1130-1182). Al Vangelo citato, presto si aggiunsero il Viaggio dell'igumeno Daniil in Terra Santa, l'Ammaestramento dei figli del principe Vladimiro II Monomaco (1053-1125) e la contemporanea e anonima Cronaca dei tempi passati. L'interesse letterario permane però scarso e solamente con Il canto di Igor (sec. XII) apparve il primo vero testo letterario. Si tratta di un poema eroico intorno alla sfortunata campagna del principe Igor e del cugino Vsevolod contro i Polovcy. L'opera è importante anche perché vi è espressa per la prima volta l'aspirazione, più che l'idea, all'unità nazionale. La guerra è descritta non come l'esaltazione della forza a danno del barbaro, ma come la esigenza di trovare il fulcro della solidarietà nazionale per poterla bandire. Purtroppo l'autenticità di quest'opera, scritta in una prosa poetica spesso seducente, a volte noiosa e poco comprensibile, è contestata. L'invasione tatara spense poi ogni fermento letterario. Per due secoli la Russia visse una servitù totale e rozza, persino boiari e preti erano quasi tutti analfabeti, tanto che questi ultimi officiavano a memoria. Infine, l'indebolimento dei Tatari consentì a Ivan III di risollevare la testa e di fare di Mosca la capitale della cristianità. Ne conseguì un fermento culturale, che si accentuò con Ivan IV il Terribile, egli stesso scrittore vigoroso, ironico, beffardo nelle sue lettere a principi e clero che sono la straordinaria rivelazione di una psicologia tormentata e profonda, specchio di un Paese turbato, preda dell'intolleranza manifesta soprattutto nell'atteggiamento della Chiesa da cui si staccarono presto i dissidenti o scismatici (raskolniki). Tra questi vi fu l'autore di un'autobiografia considerata la prima opera letteraria di più alto valore umano dell'antica letteratura russa, l'annuncio di una lingua popolare autentica, schietta, colorita: il protopope Avvakum. L'opera è la storia del disperato viaggio dell'autore verso la Siberia, con moglie e figli, perseguitato dai preti seguaci del riformatore Nikon, così implacabili da farlo torturare e bruciare vivo nel 1682.
Letteratura: l'apertura all'Occidente
Il ritardo di due secoli sull'Occidente cominciò a colmarsi con l'arrivo a Mosca dei primi romanzi manoscritti dall'Occidente, perché se è vero che già nel 1553 funzionava a Mosca la prima stamperia russa è anche vero che essa si occupava solo di testi sacri. Le stamperie laiche vennero fondate solo sotto Pietro il Grande, a cavallo tra i sec. XVII e XVIII, poco dopo la nascita del primo teatro (1672) ovattato nelle rappresentazioni religiose in cui eccelleva Simeon Polockij (1629-1680), un fedelissimo del patriarca Nikon. Ma grazie all'apertura dello zar verso l'Occidente riuscì a imporsi anche la letteratura profana, che si manifestò con i racconti storici e satirici. Il teatro cominciò i primi timidi passi staccandosi dai temi religiosi senza però osare troppo, accontentandosi di affrontare temi didattico-morali. Feofan Prokopovič (1681-1736), metropolita di Novgorod, è l'autore che meglio impersonò l'ideale del tempo di Pietro il Grande. Teologo, poeta, drammaturgo, scrisse Vladimir offrendo alle scene un'opera ancora di ispirazione religiosa; si effuse in vigorosi sermoni e pubblicò il Regolamento ecclesiastico (1719-20) che non è opera puramente di diritto canonico, ma documento letterario, in cui con garbo e sapore vengono descritti i costumi del tempo. Prokopovič era un uomo aperto, ossequiente allo zar ed ebbe il merito di avvicinarsi alla cultura occidentale, tanto da assorbire un certo spirito protestante. Egli sembrò annunciare quel vero spirito rinascimentale che con Elisabetta, figlia di Pietro il Grande, ebbe un primo grande impulso. Gli ideali non apparvero più volti solamente alla vita spirituale, ma alla concezione pagana dell'esistenza volta al bello anche dove non sempre utile. Si diffusero tendenze, se non di fusione con la cultura europea, certo di emulazione nella speranza di produrre una cultura superiore. La letteratura trovò i suoi primi grandi riformatori con V. K. Trediakovskij (1703-1769), che sposò e cercò di diffondere i principi del classicismo francese con un primo Nuovo, rapido metodo di versificazione russa (1735) seguito dal Metodo di versificazione russa (1752) che teneva conto anche delle teorie di M. V. Lomonosov (1711-1765), certamente il maggior rappresentante del rinascimento russo, il genio proteiforme della scienza e dell'arte. Chimico, fisico, astronomo, geologo, Lomonosov eccelse con studi, scoperte, proposte innovatrici e pubblicò nel 1755 la prima grammatica russa in senso assoluto e un trattato, Dell'utilità dei libri ecclesiastici, in cui espose le sue teorie linguistiche e in cui elencò i tre stili della lingua letteraria: stile alto o slavo, al posto d'onore, stile nobile, assai vicino alla lingua parlata, stile basso e popolare. Poeta e drammaturgo ufficiale di Elisabetta, Lomonosov, il “Pindaro russo” espresse il meglio di sé nell'ode, in cui al sentimento del poeta unisce spesso l'osservazione dello scienziato. Più mondana e più vivace apparve la poesia di A. P. Sumarokov (1718-1777), che si cimentò felicemente anche nella tragedia. Ammirato da Elisabetta, che fece costruire un teatro a San Pietroburgo (1756) affidandogliene la direzione, Sumarokov si ispirò al classicismo francese, a Racine, a Corneille, allo stesso Molière, non sottilizzando sui corposi prestiti liberamente tratti da quei grandi, e fece conoscere ai Russi anche Shakespeare. Con la letteratura occidentale giunse in Russia anche lo spirito filosofico che illuminava le menti, specie in Francia. Caterina II, entusiastica sostenitrice delle nuove idee, leggeva Montesquieu e credeva al potere illuminato, in senso assolutistico però, con il sovrano impegnato a migliorare il suo popolo con superiori intendimenti. Ella stessa scrisse commedie, racconti, fondò riviste come la Vsiakaja Vsiatčina (1769; Di tutto un po'). Il diffondersi della stampa significò un invito al dialogo che N. I. Novikov (1744-1818) accolse subito fondando Il calabrone, tribuna critica che fece dell'ironia sul funzionamento dell'amministrazione pubblica. La sua voce impertinente venne presto fatta tacere e nel giro di pochi anni Novikov passò a dedicarsi soltanto a libretti istruttivi. Ma ormai lo spirito critico aveva fatto presa. Nonostante il dispotismo, anche se illuminato, scrittori e drammaturghi entrarono nel reale con pitture di costume: D. I. Fonvizin (1745-1792) si impose come l'autore del primo capolavoro russo. Si annunciò con un'opera interessante (Il brigadiere, 1766-69) e scrisse il dramma immortale Il minorenne (1783) in cui all'analisi del costume dell'ambiente nobile provinciale si aggiunse lo studio psicologico. Sul suo esempio si mossero autori minori, mentre gli fu contemporaneo un poeta degno di figurare tra i più alti cantori europei: G. R. Deržavin (1743-1816). Funzionario di provincia, uomo dal carattere duro, insofferente a ogni disciplina e a qualsiasi compromesso, trovò infine protezione in Caterina e la celebrò in una splendida ode che ebbe il merito di non mitizzare la sovrana, ma di renderle onore come donna illuminata e intelligente biasimando tuttavia la sua corte formata da gente molle e incapace. In questo stesso periodo la poesia ricevette nuova linfa dalla pubblicazione della prima raccolta delle byliny, che giovò a favorire un clima preromantico.
Letteratura: influssi europei e slavismo
Le prime note avvertibili nelle pagine di A. N. Radiščev (1749-1802) trovarono eco e vigore in N. M. Karamzin (1766-1826), il quale riassunse in sé la lezione di Rousseau, di Young, di Sterne. La Russia apparve completamente aperta all'influsso francese e inglese. Karamzin, assetato di cultura occidentale, compì quello che lord Byron chiamava le grand tour e si avvicinò a tutti i grandi spiriti dell'epoca. Conobbe Kant, Wieland, Herder. Si riscaldò al pensiero tedesco, ma fu conquistato dalla sensibilità dei poeti inglesi. Ottenne uno straordinario successo con Povera Lisa (1792), romanzo in cui la schiettezza di una fanciulla semplice, venuta dal popolo, si scontra con la malizia cittadina, e si confermò più valido come prosatore che come poeta, acquisendo il merito di adottare una lingua nuova, ricca di prestiti occidentali. Con la sua ultima fatica, rimasta interrotta, regalò al patrimonio culturale del suo Paese la Storia dello Stato russo, iniziata nel 1816. Molti furono poi i tentativi di rinnegare le nuove matrici linguistiche europee, tutti destinati però a fallire fino all'opera geniale di Puškin. Lo slavismo riguardò da quel momento in avanti una maniera di sentire, di pensare, di conservare i valori di una civiltà ostile alle contaminazioni, ma non più la forma di espressione che consentì alla letteratura russa specie dell'Ottocento di affermarsi come una delle più feconde correnti letterarie di tutto il mondo. Il dispotismo illuminato vietando la politica non fece che stimolare ogni impegno dialettico a sfociare nella letteratura. Circoli letterari, salotti, riviste, fiorirono dagli inizi del secolo in tutta la Russia. Si sparse una sete di sapere che sembrò ripetere a distanza di secoli il fenomeno della cultura rinascimentale italiana e dell'Illuminismo francese. La Russia catalizzò, all'alba del secolo nuovo, aspirazioni latenti da secoli; V. A. Žukovskij (1783-1852) fu, se non l'iniziatore, indubbiamente il primo rappresentante di questa nuova generazione. Apparve alla ribalta con la celebrazione delle vittorie russe del 1812 su Napoleone e si affermò con la poesia dei sentimenti. Facile versificatore, adottò ogni genere di strofe e di verso. Gli fu pari soltanto K. N. Batjuškov (1787-1855), che i contemporanei imitarono rivivendo nella sua esperienza gli influssi della scuola francese. Il primo a cercare accenti più reali fu però un uomo di teatro, A. S. Griboedov (1795-1829), autore di una commedia modernissima, tuttora viva sulle scene: Che disgrazia, l'ingegno! (1824), opera improntata a una satira feroce, in versi liberi, che mise sotto accusa tutta l'ipocrita alta società moscovita, ritratto incisivo di un mondo assurdo che Griboedov rinnegò e che abbandonò, andando a una morte prevista, si direbbe addirittura profetizzata, in Persia, ove il suo incarico e la sua sfiducia nella sterile ribellione dei decabristi lo costrinsero. La Russia era ormai pronta a dare il maggior autore e chiuse il suo ciclo francesizzante con I. A. Krylov (1768-1844), favolista straordinario che certamente trasse da La Fontaine la sua ispirazione, staccandosi da lui nell'adattamento della storia per attingere a una realtà sociale e popolare che ha fatto del suo genere un tema irripetibile e insuperabile. A. S. Puškin (1799-1837) appare in questo momento nel panorama della letteratura russa come “il genio nazionale”. In lui si unirono tutti gli aspetti della letteratura e della poesia in un sapiente e armonico equilibrio che fece della sua opera il manifesto della corrente romantica e l'ispiratore del realismo. Anch'egli contrastato dal potere per i suoi versi anticonformisti, per la simpatia verso i decabristi, maturò nel forzato ritiro nella tenuta familiare un'arte limpida e finissima che si era annunciata con il poemetto Ruslan e Ljudmila (1820) e i poemetti meridionali scritti tra il 1821 e il 1824. Nel 1831 pubblicò la tragedia Boris Godunov, superamento del Romanticismo e inaugurazione del realismo in poesia. Nello stesso anno terminava l'Eugenio Oneghin, romanzo in versi che il grande critico Belinskij definiva “un'enciclopedia della vita russa”. La grande anima russa sembrava trovare nei personaggi nati nella fantasia di Puškin illuminanti ritratti storici, mentre la sua prosa evocava l'idea di una società con una nettezza insuperabile per realismo psicologico e quadro d'ambiente. Poeta e scrittore eccelso, Puškin nel 1831 compose le “piccole tragedie”: Mozart e Salieri, Il cavaliere avaro, Il convitato di pietra, Il festino durante la peste e i Racconti di Belkin, cui seguirono la Storia della rivolta di Pugačëv, La figlia del capitano e La dama di picche, altrettante pietre miliari della narrativa russa, che ebbe il suo grand siècle in quello che storicamente può invece essere definito il secolo crudele, per le orribili condizioni sociali del Paese che proprio nella letteratura scoprì l'idea del riscatto. Intorno a Puškin, morto troppo presto a causa di un inutile duello, si formò un gruppo di autori impegnati, romantici, A. A. Delvig (1798-1831), E. A. Baratynskij (1800-1844), N. M. Jazikov (1803-1846), A. I. Poležaev (1804-1838), A. Kolkov (1809-1842) i cui nomi sarebbero oggi certamente più celebrati se non fossero vissuti nell'ombra di quel grande. Su tutti, romantico per eccellenza, s'impose M. Ju. Lermontov (1814-1841), romantico anche nella sua morte, simile a quella di Puškin, simile a quella del protagonista del suo capolavoro Un eroe del nostro tempo, profetizzata come quella di Griboedov. Del suo amato Puškin egli accolse solo l'amore per la natura, i grandi temi dei contrasti, il disperato anelito alla conquista di tutto, la sete dell'anima alla libertà assoluta, celando in tutta la sua opera, dai poemetti Il demone e Il novizio, al dramma Un ballo in maschera, un latente bisogno di autodistruzione, un ardore di immedesimazione nel gran tutto come in un fuoco purificatore.
Letteratura: Gogol e il realismo
L'amarezza e l'esaltazione di questo mondo eccitato dalla fantasia si andarono placando in N. V. Gogol (1809-1852), il maestro assoluto del realismo. Egli si affacciò alla narrativa con dei racconti pieni di vita, in cui si respirava la natura (Veglie alla fattoria presso Dicanca, 1830-32), poi accarezzò la sensibilità popolare con il sanguigno e corposo (1835). Fin qui Gogol fu caro a tutti, ma improvvisamente, nello stesso anno, diede il via ai Racconti di Pietroburgo, che concluse nel 1842 con il capolavoro Il cappotto, e rappresentò quell'Ispettore generale (1836) che lasciò esterrefatta tutta l'alta borghesia russa, sommergendola nel “ridicolo”. Capolavoro in senso assoluto, l'Ispettore generale scatenò contro di lui una reazione gretta e infame. Gogol lasciò la Russia e scrisse a Roma quasi tutte Le anime morte (pubblicate nel 1842). La Russia venne anatomizzata in tutti i suoi mali secolari alla maniera di Flaubert. Ma se Flaubert sembrava guardare dal di fuori la sua eroina, Gogol appariva come protagonista e vittima in quella straordinaria galleria di ritratti che rivelava al mondo la miseria di un Paese dove il popolo languiva senza speranza. Puškin dopo aver letto la prima parte dell'opera esclamò “Com'è triste la nostra Russia!”. Gogol stesso era angosciato e soffriva ormai di mania di persecuzione tanto che dopo aver scritto una seconda parte di Le anime morte la bruciò in una notte di delirio, per morire subito dopo. Se la Russia con Gogol aveva fatto il suo esame di coscienza, con A. I. Herzen (1812-1870) scoprì i suoi ideali. Con il suo libro Passato e pensieri (1861-67), testimonianza unica, scritta “con il sangue e con le lacrime” in cui palpita tutto l'umano dolore causato dall'ingiustizia, Herzen seppe dare l'indicazione per un più alto senso di dignità umana. Il grande filone del realismo intanto si arricchiva di nomi prestigiosi: I. S. Turgenev (1818-1883), F. M. Dostoevskij (1821-1881), I. A. Gončarov (1812-1891), M. E. Saltykov-Ščedrin (1826-1889), L. N. Tolstoj (1828-1910) e la poesia si affidava ad A. A. Fet Šenšin (1820-1892), F. I. Tjutčev (1803-1873), N. A. Nekrasov (1821-1877); la critica, scomparso Belinskij, operava con N. A. Dobroljubov (1836-1861) e N. G. Černyševskij (1828-1889), anch'egli peraltro eccellente romanziere. Improvvisamente tutta l'amarezza che si era andata accumulando in questo popolo, che sopportava da sempre la pena di vivere, fluì in narrazioni che aggredivano il cuore e serravano la gola in una realtà incancellabile. Gončarov pubblicò il suo Oblomov nel 1859. La Russia vi si scopre inerte, passiva, incapace di vivere e di rinunciare a vivere. Turgenev dal 1847 al 1875 pubblicò le Memorie di un cacciatore, raccolta di storie la cui unità era data dal narratore che raffigurava un'umanità e un mondo dolente in cui persino i sentimenti più delicati finivano contaminati o in tragedia, suscitando polemiche infinite con Padri e figli, romanzo in cui lo scontro delle generazioni divenne il simbolo di una Russia superata, destinata ad aprirsi per forza all'uomo nuovo. Ai nichilisti, agli idealisti toccava rifare la Russia, quella Russia che A. N. Ostrovskij (1823-1886) nei suoi drammi, il più alto dei quali resta La foresta (1871), vede rispecchiata nel crollo della nobiltà e nella vitalità del popolo creatore di forze nuove. Gli fece coro il “poeta della vendetta e del dolore”, N. A. Nekrasov che con il poema Chi vive bene in Russia? (1865-76) giunse a conclusioni sconsolate sulla disperazione del popolo, ribadita in Gelo, naso rosso (1863). Militante del riscatto popolare, Nekrasov fu anche l'editore del Sovremennik (Il contemporaneo) e degli Otečestvennye Zapiski (Annali patri), periodici che propugnavano il progresso e la libertà. Attraverso Černyševskij e il suo romanzo manifesto Che fare? e M. E. Saltykov-Ščedrin con il suo I Pompadour e le Pompadour (1873), quadro della disgregazione del sistema sociale, e soprattutto con La famiglia Golovlëv (1873-74) si è nel fulcro di un'attività letteraria che ha avuto la sua più alta espressione nei due massimi narratori del secolo: Dostoevskij e Tolstoj.
Letteratura: Dostoevskij e Tolstoj
L'uno è il grande interprete delle inquietudini dell'animo, dei conflitti di coscienza, delle lacerazioni dello spirito, l'altro è il grande cantore della vita, l'analizzatore dei valori dell'esistenza, il pittore di una realtà che si espande in una pacificazione immanentistica dell'essere come forma operante nel grembo della natura. Partito dalla tematica sociale, Dostoevskij, dopo una profonda crisi religiosa e sotto l'impulso di una forte tendenza all'introspezione, passò essenzialmente all'analisi etico-psicologica della personalità più profonda dei personaggi, pur non cessando di interessarsi ai problemi sociali, giungendo a esiti che sembrano quasi in contraddizione con la sua matrice realistica e dando inizio al moderno romanzo europeo. Scrittore fecondissimo, spinto da una vita di debiti a scrivere ogni notte pagine e pagine per gli editori esigenti, dal 1846 al 1880 pubblicò quasi senza interruzione Il sosia, Memorie della casa dei morti, Diario di uno scrittore, Delitto e castigo, Memorie dal sottosuolo, L'idiota, I demoni, I fratelli Karamazov. C'è in tutti l'elemento del romanzo d'appendice. C'è in tutti il crimine, ma c'è soprattutto in tutti il rapporto del criminale con il suo atto, pensato e voluto. L'irrefutabilità del ragionamento criminoso si scontra sempre con la legge del cuore. Slavofilo convinto, Dostoevskij sostenne che l'ortodossia era la religione della libertà contro il cattolicesimo, religione del dogma. Egli vede l'amore di Dio come l'unica fonte di salvezza e la rigenerazione dell'uomo attraverso la sofferenza accettata come un carattere sacro. Come Dostoevskij, anche Tolstoj si volse alla ricerca della verità redentrice. Considerato il massimo narratore russo, Tolstoj concluse con la sua opera il ciclo del grande realismo ottocentesco. Nel 1851 cominciò a scrivere le sue prime opere importanti, nel 1868 pubblicò I racconti di Sebastopoli in cui evocava gli undici mesi della difesa della città del Mar Nero. L'opera è un preludio alla moderna narrativa di guerra ed è già in un certo senso l'anticipazione della tematica che riappare in Guerra e pace (1878), il capolavoro dello scrittore. Nel contesto dei grandi avvenimenti storici della campagna francese di Russia del 1812 s'intrecciano le sorti di due famiglie, ma ciò che scaturisce dall'opera straordinaria è l'amore alla vita, l'esaltazione della grande anima russa, la codificazione del principio che la gioia è nell'essere, nel lasciarsi vivere con animo schietto e generoso: romanzo epico, su cui sovrasta come un cielo immenso la fiducia nella grandezza del cuore umano, che per aver diritto alla felicità deve però conservarsi puro. Ciò spiega la tragedia di Anna Karenina (1875-77), che risponde al concetto tolstoiano di lasciarsi vivere ma che va inesorabilmente alla tragedia perché ha preteso di edificare la sua gioia sul dolore altrui, su quello del marito tradito e del figlio trascurato. Sono concezioni etiche e sociali che Tolstoj chiarì in Confessione (1879-82), che affrontò nel dramma La potenza delle tenebre (1886) e che riprese da ultimo in Resurrezione (1899), rivelando che anche la bestialità dell'uomo trova possibilità di redenzione nella confessione e nell'espiazione. Mistico della non violenza, della non resistenza al male, predicò il ritorno alla semplicità contadina, condannò l'industria causa “della schiavitù del nostro tempo”, la proprietà oltre al bisogno, invocò l'amore fraterno e attuò la semplicità di vita, in contrasto con la famiglia che lo assillava e contrastava. La sua predicazione non cadde nel vuoto. V. G. Korolenko (1853-1921) credeva in Tolstoj e nonostante le durissime prove che gli vennero imposte conservò la sua fede nell'umanità. Il sogno di Makar (1885) è un grido straziante. Anche Dio perdona il contadino che ha molto peccato e molto sofferto. Ma dopo questi profeti d'amore la Russia cadde nel pessimismo. Ne sono un esempio V. M. Garšin (1855-1888) con Il fiore rosso (1883), specchio dello sconforto della sua generazione, e F. Sologub (1863-1927) i cui personaggi odiano addirittura la vita.
Letteratura: la cultura pre- e postrivoluzionaria
Con A. P. Čechov (1860-1904) apparve una voce del tutto nuova. Si configurò il quadro di una generazione che viveva nell'ombra, timida di mostrarsi, priva di ideali, quasi amasse, come il protagonista di una sua famosissima novella, celarsi in un astuccio. Umorista finissimo Čechov fu il maestro del racconto piccolo, breve. Ma all'umorismo si sovrappose e vinse quasi sempre la vita non voluta, la vita accettata in attesa di non vivere e solo nel teatro Čechov sembrò scuotersi e aprirsi alla speranza, finalmente consapevole che una realtà nuova doveva pur apparire all'orizzonte. Rassegnato ancora una volta in Zio Vanja e ne Le tre sorelle, dopo aver sognato ne Il gabbiano, ne Il giardino dei ciliegi annunciò, con i colpi di ascia che abbattono gli alberi, il tamburo di una nuova vita intenta a farsi luce attraverso l'intrico delle vecchie cose ormai finite. Il teatro si mosse nella sua nuova concezione scenica e interpretativa con K. S. Stanislavskij, V. I. Nemirovič-Dančenko, V. E. Mejerchold e E. B. Vachtangov. Anche la poesia visse un momento di particolare intensità e ricchezza con il simbolismo che ebbe in A. A. Blok (1880-1921) forse il lirico più importante del Novecento. Con lui emersero V. Ja. Brjusov (1873-1924), K. D. Balmont (1867-1942), Z. N. Gippius (1869-1945), V. I. Ivanov (1866-1949), mentre tra i prosatori, contestati gli uni come gli altri dal grosso pubblico, andavano affermandosi D. S. Merežkovskij (1865-1941), L. N. Andreev (1871-1919), A. Belyj (1880-1934), tutti preludendo a una riproposta del realismo che si avverò con I. A. Bunin (1870-1953), A. I. Kuprin (1870-1938), A. S. Serafimovič (1863-1949), per sfociare nella letteratura proletaria. Improvvisamente realismo tradizionale e simbolismo si esaurirono alla vigilia della prima guerra mondiale. La Russia si aprì a tutte le avanguardie, specie con l'acmeismo di N. S. Gumilëv (1886-1921) e di A. A. Achmatova (1889-1966), il futurismo di V. Chlebnikov (1885-1922) e si aprì agli studi critici ispirati all'ideologia marxista. G. V. Plechanov (1856-1918), A. V. Lunačarskij (1875-1933) e V. V. Vorovskij (1871-1923) furono gli anelli di congiunzione tra la cultura prerivoluzionaria e quella postrivoluzionaria. E mentre Majakovskij si affacciava alla letteratura prerivoluzionaria, per realizzarsi nella Russia postrivoluzionaria, M. Gorkij (1868-1936) si poneva perfettamente a cavallo tra le due età pre- e postrivoluzionaria. Espressione genuina della grande anima popolare con Makar Čudra (1892), Foma Gordeev (1899), Piccoli borghesi (1902), Bassifondi (1902), La madre (1907-08), Gorkij passò dall'anarchismo al marxismo, dal Romanticismo al realismo, esaltando nel popolo, negli operai, i protagonisti di quella rivoluzione di cui difese poi i valori intellettuali accogliendo sotto la sua ala di primo presidente dell'Associazione scrittori i più alti ingegni del suo tempo. Per gli sviluppi successivi della letteratura russa, vedi Unione Sovietica.
Archeologia
Gli alti tumuli sepolcrali delle diverse popolazioni scitiche, diffusi dal sec. VII al III a. C. soprattutto nelle regioni del Dnepr, nel Caucaso e in Crimea hanno dato corredi funebri con bronzi, oreficerie e legni lavorati ornati da figurazioni zoomorfe singolarmente stilizzate. Numerosi tumuli sarmatici sono stati scavati nella regione del Volga, del Caucaso settentrionale, del Don e del Dnepr; lo stile animalistico dei corredi tombali, vicino a quello scitico (ma senza influenze greche) nei tumuli più antichi della regione del Volga, appare sostituito in seguito da motivi spesso astratti (vedi Sarmati). Oltre ai materiali scitici e sarmatici i reperti archeologici più notevoli sono quelli delle colonie greche delle coste del Mar Nero. Si ricordano Olbia, Panticapeo (oggi Kerč) e Chersoneso (Eraclea) in Crimea, e inoltre Fanagoria, Kepoi, Tanais (oggi Azov) sorta in età ellenistica alla foce del Don; particolarmente ricchi i ritrovamenti di età ellenistica (vasi plastici policromi detti di Kerč, statuine fittili, oreficerie). Sulle rive del Caucaso sono le rovine della città fortificata romana di Pizio, oggi Pizunda, mentre altri centri ellenistici e romani sono nella Georgia orientale (Metechi). Nell'Armenia sono importanti gli scavi della città urartea di Karmir Blur, di Armavir (acropoli e santuario di divinità armene) e della fortezza di Garni, residenza estiva dei re armeni. Notevoli anche i resti di Nisa, antica città fortificata dei Parti, ricca di templi monumentali. Nella Russia asiatica, i ritrovamenti archeologici più importanti sono quelli dei grandi tumuli dell'Altaj, in cui il ghiaccio perenne ha talora conservato anche oggetti di legno, pelle, feltro, stoffa, o addirittura i corpi tatuati dei defunti, appartenenti a popolazioni nomadi o seminomadi di varie razze. Gli eccezionali oggetti ritrovati, ornati in stile animalistico e databili soprattutto ai sec. IV-III a. C., rientrano nell'arte detta scitico-siberiana. I materiali sono all'Ermitage, dove è anche il cosiddetto Tesoro di Pietro il Grande, proveniente probabilmente anch'esso da tumuli siberiani, con piastre d'oro fuse, per lo più a coppie, ornate da animali in lotta e anche da figure umane. Il bacino di Minusinsk nella Siberia meridionale ha dato resti di abitati e tumuli sepolcrali con moltissimi bronzi della metà del I millennio a. C. circa; le figurazioni di animali sono particolarmente realistiche ma più povere di quelle dell'Altaj.
Arte: secoli X-XVII
Gli storici dell'arte considerano come propriamente russe le manifestazioni artistiche cronologicamente comprese tra il sec. X, epoca dell'adozione del cristianesimo in Russia, e il XVII che, con la riforma di Pietro il Grande, vide l'arte russa contaminata dagli stili occidentali. Con la conversione dei principi di Kijev al cristianesimo (988) infatti i rapporti culturali con l'impero di Bisanzio si fecero intensi e, tramite l'Ucraina, l'arte bizantina raggiunse il territorio russo dove costituì il sostrato delle successive manifestazioni artistiche, ben individuate e originali, tipicamente russe. Le prime città (Novgorod, Pskov, Vladimir) furono interamente costruite in legno, alla pari delle fortezze (cremlini) intorno a cui si sviluppò l'abitato. Anche la prima cattedrale di cui si ha notizia, S. Sofia di Novgorod (989), era originariamente in legno; ricostruita nel 1045-50, essa è il più antico edificio in pietra conservatosi fino a oggi: a cinque navate, con tre absidi e cinque cupole, mostra evidente l'influsso dell'architettura bizantina. L'interno è affrescato e le pitture, opera quasi certamente di maestranze bizantine, mostrano uno stile mistico e severo. Sembra che nel corso del sec. XI tutte le maggiori realizzazioni artistiche fossero dovute a maestranze bizantine e che i primi artisti russi (almeno nel campo dell'architettura in pietra e della sua decorazione) abbiano iniziato a operare soltanto nel secolo successivo, quando le cronache ricordano un Pietro di Novgorod architetto. Numerosi sono gli edifici innalzati nel corso del sec. XII. Le chiese sono in genere a tre navate; sulle facciate si trovano motivi decorativi e lesene, mentre le pareti laterali presentano una decorazione ad arcatelle, elementi entrambi derivati dall'architettura romanica. Nella zona di Vladimir le chiese sono caratterizzate dalla struttura cubica, con copertura a cupola e decorazioni ad arcate cieche. A Novgorod, che resta uno dei centri di maggiore importanza artistica, appartengono al sec. XII la cattedrale di S. Nicola Taumaturgo (1113), le chiese dei monasteri Antoniev e Jurev (1117-19), dei SS. Pietro e Paolo (1185-92) e del Salvatore (1198). Le più antiche hanno tre o cinque cupole e una torre sulla facciata; più semplici e raccolte le altre. Esse sono affrescate da maestranze locali che, nella maggior rozzezza e semplicità delle figure, indicano il nascere di una scuola che fin dalle origini rivela quell'intonazione popolare che caratterizzò gran parte della pittura russa antica. Analoghe nella struttura e nella decorazione le chiese di Pskov: quella del monastero Ivanovskij (prima del 1243) e del monastero Morožskij (prima del 1156). A Smolensk notevoli le chiese dei SS. Pietro e Paolo (1146) e di Michele Arcangelo (1191-94), dalla complessa struttura con tre portici e tre absidi. Importanti anche i monumenti architettonici di Vladimir, fra i quali particolare rilievo hanno la cattedrale della Dormizione (1158-89) e la chiesa di S. Demetrio (1193-97), entrambe decorate con notevoli rilievi scultorei e con affreschi di scuola russa. Rilievi decorativi e affreschi analoghi si ritrovano anche nella zona circostante Vladimir, nelle cattedrali di S. Giorgio a Jurev Polskij (1230-34) e di Suzdal (1222-25). A Bogoljubovo si conservano inoltre i resti di un castello del sec. XII, residenza del principe Andrej Bogolijüboskij, principale artefice della fioritura architettonica nella regione. Mentre in tutto questo periodo la scultura resta limitata alla decorazione parietale, la pittura si estende anche alla realizzazione di icone, di gusto quasi popolaresco, sia a Novgorod sia a Vladimir, e alla miniatura (vangeli di Mstislav, 1103-17, e di Jurev, 1120-28). Notevole l'artigianato in legno e in metallo. Se nel corso del sec. XII, attraverso l'elaborazione delle diverse scuole regionali, l'architettura religiosa russa raggiunse una propria autonoma tipizzazione nella struttura a pianta centrale (croce greca) con copertura a cupole bulbiformi su alti tamburi, il sec. XIII, contrassegnato dall'invasione tatara, fu assai povero di realizzazioni artistiche e sembra segnare una sospensione della vita culturale nella nazione. Venne improvvisamente a spezzarsi il collegamento con i Balcani, con Bisanzio e con l'Europa occidentale. Di qualche importanza sono la chiesa di S. Nicola a Lipno (Novgorod, 1292), di dimensioni ridotte ma caratterizzata da una notevole decorazione sulla facciata, secondo un gusto che si diffuse nei secoli successivi. Le difficoltà generali da un lato provocarono la scomparsa della grande pittura monumentale e dall'altro favorirono l'aumento delle iconostasi e delle tavole, che indicano un progressivo discostarsi dai prototipi bizantini. Diversamente da Kijev, da Vladimir e da Mosca, Novgorod non subì le devastazioni dei Tatari ed ebbe un importante periodo di fioritura artistica e culturale. Sorsero chiese riccamente decorate: S. Teodoro Stratilate (1360-61), il Salvatore (1374). La decorazione ad affresco delle chiese di questo periodo dimostra una maggiore attenzione a motivi realistici e un progressivo distacco dall'originale, severo ascetismo della pittura monumentale (fanno eccezione solo i superbi, drammatici affreschi del S. Salvatore e della Trasfigurazione, opere di Teofane il Greco, 1378). Teofane fu il primo grande artista che influenzò profondamente l'arte russa. Vigoroso nella concezione e nella realizzazione, erede della scuola di Costantinopoli, ancora legato a una concezione ascetica dell'arte, fu esperto nella pittura tonale e i suoi ritratti a pennellate impetuose hanno una forma moderna che si stacca nel tempo fino a farli credere dipinti di recente. Notevoli anche le icone e i prodotti della lavorazione artigianale dei metalli. Nel campo dell'architettura civile, mentre le abitazioni restarono in legno, si innalzarono le prime grandi fortificazioni in pietra, come quella di Porhov (1387-1430). A Pskov le chiese (cattedrale della Trinità, 1365-67) si distinguono per la struttura semplice, sia dal punto di vista architettonico sia da quello decorativo, sebbene siano integrate da cappelle, campanili e loggiati antistanti gli ingressi. Unico importante complesso di affreschi quello del monastero Snetogorskij (ca. 1310), caratterizzato, come la pittura di icone, da una sobria impostazione cromatica. Alla fine del secolo iniziò l'ascesa di Mosca, le cui più antiche costruzioni mostrano evidenti derivazioni dall'arte di Vladimir (cattedrale del cremlino di Zvenigorod, 1399).
Arte: lo sviluppo artistico di Mosca
Nel corso del sec. XV il ruolo di Mosca si fece, anche artisticamente, predominante. Limitate sono infatti le realizzazioni nei centri baltici: a Novgorod il palazzo vescovile di Eutimio (1433), di influsso gotico, e le fortificazioni del Cremlino (1484-90); a Pskov la chiesa dei SS. Cosma e Damiano (1462), con tetto a otto spioventi. Anche la pittura non diede grandi realizzazioni. A Mosca nel 1405 Teofane il Greco (autore degli affreschi del Salvatore di Novgorod) realizzò insieme a Prochor di Gorodec e a Rublëv una serie di icone per l'iconostasi della cattedrale dell'Annunciazione, la prima con personaggi a figura intera e di impostazione monumentale; essa costituisce l'esempio cui si ispirarono le successive iconostasi russe. Dal gusto drammatico dell'artista si differenziò il suo collaboratore A. Rublëv (ca. 1360-1430), che negli affreschi della cattedrale della Dormizione di Vladimir (1408) e nelle numerose icone mostra uno stile elegante e raffinato, seguito dalla scuola di pittura moscovita. Rublëv, monaco nel monastero di Sergiev Posad e poi di Andronikovo (Mosca), fu l'interprete schietto dello spirito che abitava nelle comunità religiose moscovite, dove, contrariamente ai monasteri greci, ferveva non solo la vita contemplativa, ma un'operosità straordinaria sorretta da un alto spirito religioso. La pittura di Rublëv divenne il punto centrale cui si ispirò tutta la religiosità dell'animo russo e il sec. XV assurse a momento aureo della pittura russa. Affreschi e icone raggiunsero uno splendore che restò unico e accanto a esse il ricamo si inserì con valori cromatici splendidi. Se le icone venivano eseguite principalmente per le case aristocratiche, il ricamo andò a ispirare anche un'arte popolare che si affermò accanto alla pittura, proliferando dalle scuole di Novgorod, di Pskov, di Mosca, in quelle di Tver, Rjazan, Vologda e Suzdal. L'architettura, dal canto suo, nella prima parte del secolo (1422-23) produsse la splendida cattedrale della Trinità a Sergiev Posad e nella seconda metà del secolo si vitalizzò in una serie di creazioni rese possibili dalle nuove circostanze politiche e dall'afflusso a Mosca di talenti stranieri, specie italiani. Con la costituzione di uno Stato unitario da parte di Ivan III, l'influsso mongolo fu allentato e andò scomparendo. Mosca si rafforzò quale centro politico e culturale. L'arte divenne, come nel resto dell'Europa, cornice del potere. Ciò che un monarca più di ogni altra cosa desiderava, una volta affermata la sua autorità, era di dare fasto alla propria capitale. Ivan III, attratto dallo splendore dell'arte italiana, invitò l'ambasciatore a trovargli un architetto degno di abbellire Mosca. La scelta cadde sul bolognese Aristotele Fioravanti, che ebbe il grande merito di non trasferire in Russia lo stile italiano, ma che andò a studiare la cattedrale di Vladimir prima di innalzare la cattedrale della Dormizione al Cremlino trasformato in un imponente complesso di edifici nei quali l'uso del mattone soppiantò quello della pietra. M. Ruffo e P. A. Solari edificarono torri e fortificazioni di chiara derivazione italiana, mentre la cattedrale dell'Arcangelo Michele (1505-09, di Aloisio Nuovo) appare più vicina alla tradizione russa. In pittura si era intanto fatto luce il pittore moscovita Dionisij (ca. 1440-1506), continuatore dell'opera di Rublëv su un piano meno religioso, o meglio meno ispirato. Le sue pitture sono solenni, vi si respira un'aria di pomposità pagana, non priva però di un sincero senso di commozione. Suoi affreschi si trovano nella cattedrale della Dormizione, ma l'opera sua monumentale e più significativa è quella della cattedrale di Ferapontov. Intensa fu anche l'attività architettonica in centri minori, mentre a Mosca fu incrementata l'edilizia civile nella quale continuò a predominare l'uso del legno. L'influsso dell'architettura in legno è evidente anche nelle costruzioni in pietra e mattoni, come la cattedrale dell'Intercessione a Mosca (S. Basilio sulla Piazza Rossa, 1555-60), di Barma e Postnik, esempio tipico del riaffiorare di una tradizione tipicamente nazionale sia per la sua complessa struttura sia per la decorazione policroma di interni ed esterni (facciate, cupole a bulbo, torri). Nel sec. XVI si attuò inoltre la sistemazione di fortificazioni e cremlini nelle principali città russe. Durante il sec. XVII si verificò la diffusione, nelle principali città, delle costruzioni civili in pietra, anche se strutturate su tipologie tradizionali e con facciate decorate. Fra i palazzi più notevoli, alcuni dei quali decorati con maioliche policrome, Palazzo Teremskoj nel Cremlino, di B. Ogurcov (1635-36) e Palazzo Lefortovskij, di D. Aksamitov (1697-98). Nelle costruzioni religiose, al mantenimento di forme tradizionali (cupole a bulbo, decorazioni ad arcate cieche) si affiancò l'adozione di piante più ampie e aperte di derivazione occidentale (chiese della Trinità e della Natività della Vergine, prima metà sec. XVII). Continuò tuttavia, nella provincia, la costruzione di chiese ispirate alle forme tradizionali (chiese del profeta Elia, di S. Giovanni Crisostomo, di S. Giovanni Battista a Jaroslavl) o all'architettura in legno, ottagonali con torre centrale (sobborghi di Mosca). Altri edifici religiosi furono ancora costruiti in legno, soprattutto nelle regioni più settentrionali. Mentre la scultura mantenne funzioni prevalentemente decorative (Mosca, Palazzo Teremskoj, 1635-36), la pittura si venne svincolando dalla tradizione. Gli affreschi nella cattedrale dell'Arcangelo a Mosca (1652-66) sono ormai realistici, pur conservando qualche tratto tradizionale. Il maggior pittore dell'epoca può considerarsi l'eclettico S. F. Ušakov (1626-1686), attivo nel Palazzo delle Armi, a Mosca, dove sovraintese a tutte le opere per la corona, fortemente influenzato dai modelli occidentali.
Arte: Pietro il Grande e gli influssi europei
L'azione riformatrice di Pietro il Grande esercitò potentemente il suo influsso anche nel campo dell'arte, e in particolare sui criteri edilizi e urbanistici che informarono la costruzione della nuova capitale di San Pietroburgo, progettata secondo criteri razionali. Numerosi artisti italiani, francesi e tedeschi importarono in Russia più aggiornati motivi stilistici sradicando quel tradizionale sostrato popolare che permeava tutta l'arte russa. A San Pietroburgo alcuni edifici, come il Collegio dei Dodici, di D. Trezzini (1722-32), sono in parte ispirati a motivi tradizionali, ma la maggior parte di essi (Palazzo d'Estate, 1710-14, Kunstkamera, di G. J. Mattarnovi, G. Chiaveri e M. G. Zencov, 1718-34; Palazzo Menšikov, di G. M. Fontana e G. Schädel) sono di gusto occidentale, al pari della cattedrale dei SS. Pietro e Paolo (di D. Trezzini, 1712-33). In una fase successiva l'architettura si fece più fastosa e decorata, riprendendo motivi barocchi e rococò (cattedrale del monastero Smolnyj, 1748- 64, Palazzo d'Inverno, 1754-62, palazzi di Carskoe Selo, 1752-64, tutti di B. F. Rastrelli) e inserendosi in splendidi giardini alla francese. A Mosca, che aveva perso il rango di capitale, resistette più tenacemente la tradizione russa, soprattutto nelle costruzioni religiose (Torre Menšikov, di I. P. Zarudnyj, 1710-14). Ancor più tradizionale la provincia, dove persistette l'uso del legno anche nelle maggiori costruzioni. Forte fu l'influsso dell'arte occidentale anche nel campo della scultura e della pittura: massimo scultore dell'epoca fu infatti l'italiano B. C. Rastrelli, e italiani (P. Rotari, D. e G. Valeriani, S. Barozzi), francesi (L. Tocqué), tedeschi (Tannahuer, Grooth) furono i più notevoli pittori della corte imperiale. Tuttavia anche gli artisti russi furono sensibili alle suggestioni occidentali e mentre decadeva la tradizionale pittura religiosa si affermava la ritrattistica con I. M. Nikitin (ca. 1690-1741), A. M. Matveev (1701-1739), A. P. Antropov (1716-1795) e I. P. Argunov (1729-1802), con un piglio più realistico di quella affidata al virtuosismo degli stranieri. Fu il primo annuncio che l'arte russa si stava affrancando dalla paternità europea. Si incominciarono a sentire anche i benefici effetti della fondazione dell'Accademia di Belle Arti di San Pietroburgo (1757) che si volse a un'arte nazionale. E se in pittura si cercò un linguaggio chiaro, semplice, capace di toccare immediatamente le corde della sensibilità, in architettura rispose a queste esigenze il neoclassicismo. Va qui ricordato il grosso influsso che l'Accademia di San Pietroburgo ebbe sugli artisti di tutti gli Stati russi che unitisi alla Russia a cominciare dal sec. XVII fino all'inizio del XIX, dall'Ucraina alla Belorussia, agli Stati baltici, alla Georgia, all'Armenia, alle regioni dell'Asia centrale, poterono godere di questo centro di cultura, mediando un linguaggio che portò nuove espressioni d'arte in regioni in cui accanto agli influssi bizantini, islamici, italiani, un'arte nazionale russa si era andata affermando, specie nella pittura di icone (imperante l'insegnamento della scuola religiosa di Novgorod) nei dipinti monumentali del monastero di Gustynskij a Priluki, nelle fortezze e nei palazzi di Baturin, di Odessa, di Tartu, di Saku, di Riga, di Vilna. Più lenta fu invece l'evoluzione delle regioni asiatiche dall'influsso islamico, che le arricchì di moschee e palazzi, come a Samarcanda, tanto che mutamenti radicali avvennero solo dopo la Rivoluzione d'Ottobre. È opportuno tuttavia ricordare alcuni tra i maggiori artisti di queste terre: il pittore ucraino, poeta e incisore T. G. Ševčenko (1814-1861); i pittori belorussi S. K. Zarjanko, V. K. Bjalynickij-Birul; lo scultore e l'architetto lettoni E. Roos e A. Alos; lo scultore lituano V. Gryhas, autore di opere monumentali. Nelle terre asiatiche le testimonianze d'arte restano anonimamente affidate alle fortificazioni, alle madāris, alle cupole, ai complessi funerari dell'età timuride, agli splendidi mosaici, alle grandi pitture murali, alle moschee, alle miniature e all'alto artigianato (lavorazione del metallo, tappeti e ceramiche). Andavano intanto accentuandosi dappertutto le tendenze classicistiche e se V. I. Baženov (1737-1799; Mosca, casa Paškov, 1784-86; San Pietroburgo, castello Michailovskij, 1792-1796) restava ancora legato a motivi barocchi e tentava il recupero di forme tradizionali, nettamente innovatori furono I. E. Starov (1745-1808; San Pietroburgo, Palazzo Tauride, 1783-89), M. F. Kazakov (1738-1812; Mosca, chiesa del Metropolita Filippo, 1777-78, e Senato, 1776-87), al pari dell'italiano G. Quarenghi (1744-1817) e dell'inglese C. Cameron (ca. 1740-1812) attivi in Russia. In pittura le maggiori personalità furono i ritrattisti D. G. Levickij (1735-1822), F. Rokotov (1735-ca. 1808) e V. L. Borovikovskij (1757-1825). M. Sibanov (m. 1789) e I. A. Ermenev (1736-1792) sono i rappresentanti di una pittura di genere realistico, proseguita poi da A. G. Venecianov (1780-1847), mentre A. I. Ivanov (1770/80-1848) continua la tradizione storica e religiosa. La scultura continuò a svilupparsi prevalentemente nella sua accezione decorativa, come complemento di edifici e di parchi, ma, accanto agli stranieri, incominciarono a operare artisti russi come F. I. Šubin, F. G. Gordeev, I. P. Prokofev e M. I. Kozlovskij.
Arte: realismo e avanguardie
I primi anni del sec. XIX videro l'architettura russa attardarsi nell'ambito della tradizione neoclassica, accompagnata da una grande attenzione all'inserimento urbanistico degli edifici pubblici nel contesto della città. Maggiore realizzazione del periodo fu la cattedrale della Vergine di Kazan a San Pietroburgo, di A. N. Voronihin, 1801-11. In questa prospettiva si inserisce anche la vasta attività di C. Rossi (1775-1849), con vari edifici nella capitale: palazzo del granduca Michele (1819-23), Teatro Aleksandrinskij (1827-32), Stato Maggiore (1819-25). A Mosca, dopo l'incendio del 1812, si sviluppò un'intensa attività edilizia. Vasta anche l'attività in provincia, soprattutto di A. D. Zaharov, progettista di oltre 150 edifici pubblici per altrettanti centri. Successivamente il gusto classico si fece meno severo e più tendente allo sfarzo (cattedrale di S. Isacco, a San Pietroburgo, di A. R. De Montferrand, 1818-58), mentre non mancarono tentativi di revival romantico (come quelli di K. A. Thon, ideatore di uno stile “russo-bizantino”). Nella scultura, alle opere storiche e patriottiche di I. P. Martos (1754-1835) e F. P. Tolstoj si affiancano quelle, più realistiche, di B. I. Orlovskij e P. K. Klodt. In pittura, al gusto naturalistico del paesaggio di S. F. Ščedrin fece seguito il predominare dell'arte ufficiale di F. A. Bruni. Ma con K. P. Brjullov (1799-1852) e P. A. Fedotov (1815-1852) elementi romantici e veristici vennero a inserirsi con un nuovo vigore nel panorama dell'arte ufficiale, che divenne spesso la più vigorosa forma di protesta contro il despotismo degli zar. Dall'Accademia delle Arti si staccò un gruppo di giovani che operò con gli stessi intenti nella “Compagnia delle esposizioni artistiche”. Sono i cosiddetti Ambulanti (Peredvižniki) che si prefissero di propagandare l'arte fra il popolo. Tra i suoi organizzatori V. G. Perov (1833-1882) dipinse con caldo realismo la miseria della campagna e la grettezza del clero. Accanto a lui, particolarmente sensibili alla condizione contadina furono I. N. Kramoskejv (l'ideologo del movimento e fondatore della Galleria P. M. Tretjakov), I. E. Repin, V. I. Surikov, K. A. Savickij, V. E. Makovskij, G. C. Mjasoedov. In un empito di realtà, tutto assurse a denuncia. La pittura fu strettamente legata alle letterature nel rivelare al popolo russo ogni infamia del despotismo. V. V. Vereščagin dipinse l'agghiacciante Apoteosi della guerra (1871-72), simboleggiando le carneficine del Turkestan e dei Balcani con una piramide di teschi dedicata “A tutti i conquistatori, passati, presenti e futuri”. La grande stagione realistica ricorda ancora le tele di I. E. Repin (1844-1930) e di V. I. Surikov (1848-1916) in cui il popolo diventa il protagonista di una condizione assurda dove persino la grandezza della natura sembra pesare su un popolo avvilito tra l'oppressione dell'uomo e quella della macchina, che apparve all'alba del sec. XX come il nuovo inaccessibile Moloch. Alla civiltà della macchina l'architettura prestò invece la sua arte, il suo geometrismo, le sue forme razionali. Con la seconda metà dell'Ottocento l'introduzione della struttura metallica determinò l'adozione di nuove linee. Poco contano i tentativi di I. P. Ropet (1845-1908), V. A. Gartman (1834-1873) di “riscaldare” il nuovo geometrismo funzionale con motivi di gusto popolare. Avanzò il modern style o . La cultura russa apparve dominata dal movimento Mondo dell'arte (fine Ottocento-primi Novecento). Fu un fenomeno affine a quello dei nabis francesi, parallelo all'Art Nouveau e al simbolismo. Esplose la fantasia decorativa di Aleksandr Berna, di N. K. Roerich, di Victor Borissov-Mussotov, di M. A. Vrubel, cui seguì la generazione dei simbolisti della Rosa Azzurra fondata a Mosca nel 1907. La città divenne uno dei massimi centri dell'avanguardia europea che si raccolse intorno al gruppo del Fante di Quadri, fondato nel 1910 da I. I. Maškov, R. R. Falk, P. P. Končalovskij (1876-1956), A. V. Lentulov, e all'ala dissidente “La coda d'asino e il bersaglio”, di M. F. Larionov, N. S. Gončarova, K. S. Malevič, V. E. Tatlin e M. Z. Šagal, più noto come Marc Chagall. Furono questi i centri generatori di numerose nuove scuole, dal raggismo propugnato da Larionov, al suprematismo di Malevič, al costruttivismo di Tatlin. E fu proprio quest'ultimo a postulare l'importanza dell'azione politica che, abolendo la gerarchia fra le arti, conseguenza della gerarchia sociale, portò architettura, scultura e pittura alla piena funzionalizzazione della visione, essendo tutte e tre costruzione e non rappresentazione. L'astrattismo passò dalla creazione pura dello spirito alla realizzazione funzionale. Esso andò a improntare oggetti industriali nati dalla nuova organizzazione del lavoro. È uno sbocco naturale in cui confluirono tutti i movimenti d'avanguardia russi che si concretizzarono nell'attività artistica del periodo della Rivoluzione (vedi Unione Sovietica).
Musica: le origini, forme popolari e musica sacra
Le prime manifestazioni musicali delle antiche popolazioni slave orientali, prevalentemente dedite all'agricoltura, sono costituite da semplici canti di estensione melodica limitata, ispirati alla vita sociale e all'avvicendarsi delle stagioni. A cominciare dal sec. X, documenti di valore storico comprovano la nascita dell'epos delle byliny, che si protrasse sino alla metà del sec. XVI, avendo per centro prima Kijev (sec. XI-XII), poi Novgorod (sec. XII-XIV). Canto di matrice popolare, a carattere epico-narrativo, monodico o polifonico, la bylina scomparve gradualmente, anche per l'opposizione della Chiesa, in concomitanza con la formazione dello Stato russo (sec. XIV-XV), lasciando il posto a veri e propri canti popolari, più radicati nelle vicende politiche e nelle aspirazioni sociali, il cui sviluppo autonomo sarebbe continuato nei secoli seguenti sino a oggi. La musica strumentale popolare, strettamente legata al canto, usava vari strumenti: la gusla, il gudok, la domra e poi la balalaika (a corde); pifferi, trombe, flauti, la žalejka e la volinka (a fiato); i ložki e altri strumenti a percussione. Insieme con le forme popolari, la musica sacra (la cui presenza è storicamente databile dal 988, anno della conversione russa al cristianesimo) contribuì grandemente al formarsi di un patrimonio musicale nazionale. Dopo un periodo parallelo all'epos delle byliny, con canti (znamennyj) monofonici senza accompagnamento, melodicamente limitati e a carattere solenne, basati sulla teoria bizantina dell'oktoechos, nel sec. XVII, in cui si ebbe l'introduzione della notazione europea su pentagramma, si realizzò una grande opera di revisione e classificazione di tutta la musica liturgica: ciò portò, tra l'altro, alla compilazione dello Stoglavyj sobor, codice comprendente una selezione delle melodie in uso sotto il regno di Ivan il Terribile (1533-84), e all'introduzione del canto stročnoe, a due o tre voci. Nel Seicento, nonostante l'opposizione ufficiale, per diretto influsso dei cantori ucraini e del loro compositore N. Dileckij (1630-1681), la musica sacra si arricchì di forme legate alla tradizione occidentale, fenomeno che portò, nella seconda metà del secolo, al kant (che richiama il gymel inglese), comune anche al genere profano, a tre voci, di sapore tonale maggiore o minore, mentre già si era diffuso il “concerto spirituale”, polifonicamente complesso (fino a ventiquattro voci), che ebbe compositori di rilievo in V. Titov e, nel Settecento, in M. S. Berezovskij (1745-1777) e D. S. Bortnjanskij (1751-1825). Nel sec. XVIII, cresciuto l'interesse per la cultura, i nobili, seguendo l'esempio di Pietro il Grande e di Caterina II, sentirono il bisogno di circondarsi di uomini insigni nel campo dell'arte e della scienza, attingendo largamente alla civiltà occidentale. Nella seconda metà del secolo, musicisti di grande fama, soprattutto italiani, con i loro soggiorni nei principali centri russi contribuirono alla nascita di una musica colta nazionale: tra essi gli operisti F. Araja, B. Galuppi, T. Traetta, G. Paisiello, G. Sarti (direttore della cappella imperiale), D. Cimarosa (direttore dell'Opera italiana a San Pietroburgo), C. Cavos (direttore del Teatro imperiale e autore delle prime opere d'argomento russo in lingua russa). Sotto il loro influsso alla fine del secolo si erano già affermati compositori russi: nel teatro, E. I. Fomin (1761-1800), M. Matinskij (1750-ca. 1820), V. A. Paškevič (ca. 1742-ca. 1800); nel genere vocale, Ju. Kozlovskij; in quello strumentale, I. Chandoškin. Nel secolo successivo l'assimilazione della musica occidentale si estese e si affermò la romanza vocale con S. N. Titov (1770-1825), N. A. Titov (1800-1875), A. E. Varlamov (1801-1848), A. F. Lvov (1799- 1870), autore dell'inno nazionale Dio salvi lo zar (1833).
Musica: dall'Ottocento a Stravinskij
Ma l'Ottocento fu soprattutto il secolo in cui la musica colta russa assunse una fisionomia propria (pur in un tributo più o meno profondo alle correnti occidentali). Iniziatori della scuola nazionale furono A. S. Dargomyžskij (1813-1869), con gli originali e arditi “drammi musicali” e , e M. I. Glinka (1804-1857), creatore dell'opera nazionale con e , nelle quali recuperò originalmente il folclore russo. La loro eredità fu raccolta dal Gruppo dei Cinque, costituito da M. A. Balakirev (1837-1910), C. A. Kjui (1835-1918), A. P. Borodin (1833-1887), N. A. Rimskij-Korsakov (1844-1908) e M. P. Musorgskij (1839-1881), che si ispirò largamente, soprattutto nell'opera, al patrimonio popolare. Balakirev, fervente ammiratore di Glinka, riuscì a creare uno stile personalissimo, che tenne presenti anche le contemporanee esperienze occidentali, caratterizzato da una straordinaria varietà ed efficacia timbrica. Kjui, lucido assertore degli ideali della scuola nazionale negli scritti teorici, nelle composizioni mediò tali istanze con l'influsso del romanticismo tedesco. Borodin fu originalissimo, sia nella concezione formale sia in quella armonica e timbrica, e autore dalla vena melodica particolarmente felice, ispirata ora all'orientalismo dei canti popolari russi, ora a Schumann e Liszt ( e lo schizzo sinfonico Nelle steppe dell'Asia centrale). Abilissimo strumentatore fu Rimskij-Korsakov, particolarmente sensibile agli impasti orchestrali e alla valorizzazione del ritmo (, La leggenda della città invisibile di Kitež, Il gallo d'oro, l'ouverture La grande Pasqua russa, Capriccio spagnolo). Il significato dell'opera di Musorgskij (, , , ) va ben oltre quello degli altri membri del gruppo per la ricerca di una nuova vocalità modellata sulle inflessioni del linguaggio parlato, per le selvagge armonie e gli insoliti, originalissimi ritmi. Altri compositori, come A. G. Rubinstein (1829-1894), si rifecero invece chiaramente al Romanticismo tedesco o cercarono nell'eclettismo valide forme di espressione: tra questi, P. I. Čajkovskij (1840-1893), A. S. Arenskij (1861-1906), A. K. Glazunov (1865-1936), A. N. Skrjabin (1872-1915), S. V. Rachmaninov (1873-1943), il cui linguaggio poggia sulle estetiche occidentali, dal Romanticismo all'impressionismo francese, al tardoromanticismo tedesco. In una tradizione di gusto chiaramente occidentale, nonostante l'apprendistato presso Rimskij-Korsakov e i prestiti folcloristici (largamente sopravvalutati dalla critica) che caratterizzano il primo periodo della sua attività, si colloca il maggiore compositore russo del Novecento, I. F. Stravinskij (1882-1971), la cui vicenda biografica si svolse completamente, a partire dal 1915, tra l'Europa e gli Stati Uniti, dopo che già aveva raggiunto notorietà internazionale con la fantasia per orchestra Fuochi d'artificio (1907-1908) e la musica per il balletto (1910) e ribadito il successo con e il capolavoro (1913). Per gli sviluppi successivi della musica russa, vedi Unione Sovietica.
Teatro
In Russia il teatro, quale lo si intende oggi, nacque con molto ritardo: esattamente il 17 ottobre 1672, per una decisione dello zar Alessio che solo un quarto di secolo prima aveva emanato un decreto per proibire non soltanto gli spettacoli ma persino le musiche profane, ordinando tra l'altro la distruzione di tutti gli strumenti musicali. Prima di allora c'erano soltanto gli skomorochi (comici vaganti), un po' mimi e un po' saltimbanchi, che intervenivano alle fiere, ai matrimoni e alle feste in genere, a volte tollerati dalle autorità e persino invitati a corte, più spesso perseguitati o addirittura espulsi dal Paese. La loro rimase tuttavia un'attività marginale che poco influì sui futuri sviluppi del teatro russo. Meno ancora influirono le poche cerimonie religiose con elementi drammatici, anche per l'atteggiamento implacabilmente ostile della Chiesa ortodossa verso ogni forma di spettacolo. Per questo in Russia il teatro fu e rimane fenomeno interamente laico e la citata decisione dello zar Alessio si spiega anche nell'ambito della contesa tra potere temporale e potere spirituale. L'occasione di questo inizio di liberalizzazione fu la nascita di un figlio di Alessio, il futuro Pietro il Grande, e la compagnia che rappresentò il primo spettacolo (L'azione di Artaserse), falliti i tentativi di scritturare attori all'estero, fu composta da membri della colonia tedesca di Mosca, diretti dal pastore luterano Johann Gottfried Gregori, cui venne poi affidata la direzione di una scuola per attori, di breve durata. Il passo successivo fu la fondazione (1703), per iniziativa di Pietro il Grande, di un teatro pubblico nella Piazza Rossa, dove recitava una compagnia chiamata da Danzica e diretta da Johann Kunst. L'iniziativa non ebbe successo e pochi anni dopo il teatro fu chiuso. Rimase soltanto la corte, dove nacque anche un repertorio occasionalmente ripreso nelle recite scolastiche (specie nei collegi dei gesuiti) e in quelle degli skomorochi. Più spesso però si ospitarono compagnie straniere, prima prevalentemente tedesche, poi soprattutto francesi, con frequenti tournées di comici dell'Arte italiani e di una compagnia italiana di opera e di balletto. Verso un teatro nazionale si cominciò a lavorare, a livello ancora amatoriale, nell'ambito del Corpo dei nobili, il collegio dei cadetti dell'aristocrazia fondato nel 1732, e in compagnie filodrammatiche della capitale e delle province. La più importante fu quella di Jaroslavl diretta da F. G. Volkov: nel 1752 l'imperatrice Elisabetta chiamò questi attori a San Pietroburgo e, dopo averli mandati a scuola perché affinassero le loro maniere, affidò loro, quattro anni dopo, la gestione di una sala pubblica, il Teatro Russo, aiutandoli anche con una piccola sovvenzione. Il panorama teatrale era tuttavia ancora dominato dalle formazioni francesi e su di loro e sul loro repertorio si modellarono i primi attori russi di rilievo, da Ivan Dmitrevskij alla Semënova. A Mosca invece il primo teatro pubblico fu aperto soltanto nel 1806 ed ebbe origini completamente diverse: fu infatti il frutto di un rilevante fenomeno culturale, il cosiddetto “teatro dei servi” (almeno 173 compagnie tra il 1770 e il 1840), nato per gli svaghi dei grandi proprietari terrieri e costituito in massima parte di servi della gleba addestrati a recitare, cantare e danzare. Furono appunto attori-servi emancipati, arrivati dalla provincia, a costituire il nucleo del primo teatro pubblico moscovita, dal quale nacque nel 1824 il Malyj, la più importante scena di prosa russa del sec. XIX insieme con il contemporaneo Aleksandrinskij di San Pietroburgo. L'anno dopo si aprì il Bolšoj Teatr, che divenne la più prestigiosa sede dell'opera e del balletto. Nella capitale dominò la personalità di V. A. Karatygin, attore neoclassico; a Mosca, accanto al grande interprete romantico P. S. Močalov, si impose la figura di M. S. Ščepkin, iniziatore di una tradizione realistico-psicologica che finì poi per identificarsi con il Malyj, con le fortunatissime rappresentazioni dei drammi e delle commedie di Ostrovskij e con l'affermarsi di una nuova generazione di eccellenti interpreti. Nelle province intanto i grandi latifondisti impoveriti portavano le loro compagnie nelle città vicine, aprendo teatri pubblici a pagamento, e si moltiplicavano ovunque le formazioni a carattere amatoriale, sostenute da una nascente borghesia mercantile, attestante una passione teatrale diffusa in tutti gli strati della società. In una di queste compagnie, la Società d'arte e letteratura, fece il suo apprendistato K. S. Stanislavskij, prima di fondare, nel 1898, con V. I. Nemirovič-Dančenko, il MCHAT (Teatro d'Arte di Mosca), la cui importanza non è solo nell'aver rivelato due dei massimi drammaturghi dell'epoca, Čechov e Gorkij, e nell'aver imposto un modello aggiornato del realismo psicologico di Ščepkin, che influì sui teatranti di tutto il mondo, ma nell'aver dato per la prima volta basi scientifiche al lavoro dell'attore e al suo addestramento. Anche il Teatro d'Arte, come tutte le sale russe, dovette però sovente fare i conti con una censura che alternava momenti di relativa liberalizzazione a lunghi periodi di repressione severa, escludendo per decenni dalle scene opere di autori come Tolstoj, Gogol, Turgenev ecc. Un altro merito non trascurabile del Teatro d'Arte è quello di aver formato, offrendo loro le prime occasioni di esprimersi autonomamente, i due maggiori esponenti della rivolta antirealistica e della riteatralizzazione del teatro: V. E. Mejerchold ed E. B. Vachtangov. Giocarono in questa direzione le influenze della letteratura simbolista e di altri movimenti d'avanguardia e costante fu il riferimento a forme teatrali dichiaratamente convenzionali, dal teatro orientale alla Commedia dell'Arte. Fu un periodo di grande vitalità culturale che si espresse teatralmente in miriadi di iniziative e di ardite teorizzazioni. Lo spettacolo culmine dell'epoca, Il ballo in maschera di Lermontov diretto da Mejerchold, macabro e insieme fastoso, andò in scena all'Aleksandrinskij il giorno stesso in cui scoppiò la rivoluzione di febbraio. Per gli sviluppi successivi del teatro russo, vedi Unione Sovietica.
Danza
Pietro il Grande, lo zar riformatore e amico dell'arte occidentale, introdusse in Russia il balletto alla fine del sec. XVII. Dapprima furono invitate intere compagnie straniere e, a partire dal 1738, fu costituita a San Pietroburgo la prima scuola di ballo professionistica a cura del francese J.-B. Landé che già precedentemente aveva organizzato dei corsi. Il contributo decisivo all'affermazione del balletto russo come arte autonoma fu principalmente dovuto a coreografi stranieri (Rinaldi, Fossano, Locatelli, Angiolini, Canziani, Le Picq) e solo tra la fine del sec. XVIII e i primi del XIX con Ivan Valberg si ebbe il primo coreografo russo di valore. Tuttavia la grande stagione del balletto in Russia fu l'Ottocento; dapprima nel periodo romantico quando i massimi coreografi europei trovarono nel corpo di ballo russo interpreti di notevoli capacità espressive (Taglioni e Perrot portarono a San Pietroburgo i loro capolavori), e accanto a stelle come la Taglioni, la Grahm, la Essler, la Grisi e la Cerrito si affermarono le interpreti russe. Verso la metà del sec. XIX, con l'arrivo di M. Petipa e soprattutto dal 1862 con la sua nomina a maître de ballet, a San Pietroburgo ebbe inizio una nuova fioritura del balletto russo e, grazie all'incontro tra Petipa e Čajkovskij, un nuovo modo di intendere il rapporto tra musica e danza: la prima non era più solo un accompagnamento ma elemento integrante della coreografia, fusa con questa per raggiungere maggiori possibilità espressive. È questo il periodo che vide nascere capolavori come La bella addormentata (1890), Lo schiaccianoci (1892) e Il lago dei cigni (1895, prima edizione 1877). Accanto alle grandi ospiti italiane (la Dell'Era, la Zucchi, la Brianza, la Legnani) cominciarono a formarsi anche le prime leve di dive russe che, conquistata la tecnica delle scuole italiana e francese, seppero unirla alle proprie capacità di morbidezza e di grazia arrivando a esprimere compiutamente la poesia della danza. Dalla scuola del Teatro Mariinskij uscirono allievi come Nijinskij o la Pavlova. A cavallo del secolo iniziarono anche nuovi fermenti che portarono in seguito alla favolosa rivoluzione dei Ballets Russes di Djagilev, con ballerini e coreografi di valore come Fokin, Nijinskij, Massine e Balanchine e musicisti come Glazunov e Stravinskij; i Ballets Russes tuttavia, pur se formati da elementi essenzialmente russi, finirono per diventare dopo la prima guerra mondiale una formazione di gusto cosmopolita. A partire dalla Rivoluzione d'Ottobre il vasto repertorio del balletto russo confluì nel più ampio panorama dell'evoluzione coreografica nelle diverse repubbliche dell'Unione Sovietica, dalle quali è tornato a separarsi con la dissoluzione dell'URSS (1991).
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