Euròpa
IndiceGeneralità
L'Europa è più piccola parte del mondo (Australia esclusa) in cui tradizionalmente è divisa la Terra; estesa infatti per ca. 10,5 milioni di km², essa forma la grande appendice occidentale atlantica dell'Eurasia. Il Mar Mediterraneo la separa dall'Africa sul lato meridionale, mentre su quello settentrionale è bagnata dal Mar Glaciale Artico e su quello occidentale dall'oceano Atlantico. I suoi limiti orientali sono invece convenzionali e, in funzione morfologica e strutturale, sono indicati nella linea che segue i monti Urali, il lembo settentrionale del Mar Caspio, il Kuma, il fiume Ural, la depressione del Manyč-basso Kuma, la costa del Mar Nero fino agli stretti – Bosforo e Dardanelli – che conducono all'Egeo. Tuttavia questo limite non è pienamente accettabile se si tiene conto dei fattori umani e soprattutto dell'organizzazione politica dello spazio. A E dell'istmo ponto-baltico si entra infatti nella Russia, la quale, se culturalmente ha attinto molti suoi valori dal mondo europeo (senza dimenticare le sue matrici indipendenti, come attesta il grande dibattito ottocentesco che ha visto schierati, su posizioni opposte, gli slavofili e gli occidentalisti), si estende sino agli spazi asiatici sui quali ha esteso il suo potere e con i quali, nonostante la disgregazione dell'Unione Sovietica, è legata in un unico sistema economico. D'altra parte la definizione territoriale dell'Europa verso oriente è stata incerta fin dall'epoca in cui questo termine, in età greca, apparve, con il significato molto relativo di una contrapposizione tra un mondo affacciato al Mediterraneo, preciso, definito e consapevole dei suoi valori culturali, e un mondo asiatico, vasto, irrisolto e semisconosciuto. Ancor oggi l'Europa acquisisce una sua precisa identificazione e un suo legame relativamente unitario se si guarda soprattutto alla cultura, che è percorsa da vene uniche; non altrettanto invece se si considera la sua configurazione fisica. Essa è una parte del mondo varia, formata da pianure, percorsa da alte catene montuose e tutta frammentata ai margini in terre peninsulari e insulari. Ciò può spiegare entro certi limiti lo stesso mosaico politico, la divisione in molteplici Stati la cui individualità ha nei fattori naturali la sua prima giustificazione. Ma a grandi linee, in rapporto alla presenza di decisivi elementi strutturali, l'Europa si può sommariamente ripartire in un'Europa mediterranea, un'Europa atlantica e un'Europa continentale. Nella prima si è venuta definendo l'Europa nei suoi fondamenti culturali, attinti in parte dal mondo orientale; poi la storia ha privilegiato le altre regioni europee diventate in epoca moderna, con l'industrializzazione, il cuore del continente, l'anima stessa dei suoi sviluppi, che sono ancor oggi l'elemento qualificante dell'Europa, delle sue situazioni politiche ed economiche. Questa situazione di ambiguità perdurante si riverbera attorno alla questione dell'allargamento a E dell'Unione Europea, la grande entità che, a partire dalla fine del XX secolo raccoglie in un unico contesto aspetti diversi della cultura, della politica e dell'economia europee.
Europa. Le balze terrazzate nella contea di Donegal, in Irlanda.
De Agostini Picture Library/G. Nimatallah
Europa. Veduta dell'Aiguille Rousse innevata, in Francia.
De Agostini Picture Library/C. Sappa
Europa. Veduta aerea del paesaggio bavarese (Germania) con le Alpi sullo sfondo.
De Agostini Picture Library/Pubbliaerfoto
Europa. Cabo de São Vicente in Portogallo.
De Agostini Picture Library/S. Vannini
Europa. Paesaggio gallese nei pressi di Brecon, in Gran Bretagna.
De Agostini Picture Library/G. Wright
Europa. Veduta del lago di Silvaplana nel cantone svizzero dei Grigioni.
De Agostini Picture Library/F. Giaccone
Europa. Paesaggio agricolo in Danimarca.
De Agostini Picture Library/S. Vannini
Europa. Un tratto del Rodano in territorio francese.
De Agostini Picture Library/ Henry
Europa. Una veduta della City londinese.
De Agostini Picture Library/A. Roggero
Europa. Il quartiere parigino de La Défense.
De Agostini Picture Library/C. Sappa
Europa. Veduta di San Pietroburgo.
De Agostini Picture Library/V. Rudko
Geomorfologia
La conformazione fisica dell'Europa è resa complessa dall'esistenza di rilievi che risalgono a diverse orogenesi. La sezione più antica del continente è quella nordorientale, che si stende dalle pianure sarmatiche alla Fennoscandia. In quest'ultima regione appaiono in superficie le formazioni archeozoiche (Scudo Baltico) che nelle pianure sarmatiche sono per lo più coperte da strati sedimentari paleozoici e più recenti. A W di questa porzione rigida e archeozoica, le cui appendici formano il substrato dello stesso bassopiano germanico, si sviluppano le fasce dei rilievi caledoniani ed ercinici. La prima corrisponde alle montagne della Norvegia, della Gran Bretagna settentrionale e dell'Irlanda : si dispongono da NE a SW e presentano forme mature, benché ringiovanite in epoche successive. La seconda comprende i rilievi armoricani (Gran Bretagna meridionale e Bretagna) e i rilievi varisci (massicci dell'Europa centrale compresi tra Repubblica Ceca, Slovacchia, Germania, Francia ). Anche questi presentano forme alquanto mature, però sono stati vigorosamente ringiovaniti nell'era cenozoica, durante l'orogenesi alpina, i cui contraccolpi hanno dato origine a rialzi, a Horst e depressioni, e hanno attivato il vulcanesimo (Massiccio Centrale Francese, ecc.). All'orogenesi alpina si deve la formazione del più imponente allineamento montuoso d'Europa, comprendente la Cordigliera Betica, i Pirenei, le Alpi e la loro prosecuzione, l'arco carpatico e il sistema dinarico che, attraverso la Penisola Balcanica e gli arcipelaghi egei, si allaccia ai rilievi dell'Asia Minore. L'orogenesi alpina rappresenta l'evoluzione della Tetide, la fossa che separava i massicci antichi dell'Europa dall'Africa. Le sue manifestazioni nella fascia mediterranea sembrano ancora attive, come dimostrano la sismicità e il vulcanesimo in Italia e nello spazio egeo. Gli allineamenti montuosi cenozoici, che si dispongono generalmente da E a W, dividono strutturalmente l'Europa in due parti: a N l'Europa dei massicci antichi, stabile, matura, priva di grandi ostacoli e centrata su ampie pianure che dalla Francia settentrionale, attraverso la Scandinaviameridionale, la Germania e la Polonia si estendono fino agli Urali; a S l'Europa mediterranea, montuosa, instabile, con le frammentazioni peninsulari delle regioni iberica, italiana e balcanica. La Penisola Iberica è un antico blocco sollevato e fratturato, solo marginalmente interessato dall'orogenesi cenozoica; la penisola italiana, alla quale si allaccia la Sicilia (non allo stesso modo la Sardegna e la Corsica, che sono in parte antiche terre della Tetide), è attraversata da una catena montuosa giovane, gli Appennini; la Penisola Balcanica è anch'essa montuosa (monti Dinaridi, monti Balcani) e a sua volta si frammenta verso l'estremità in un articolato contorno di isole e penisole. Tutta l'Europa è profondamente penetrata dai mari, in proporzioni che non trovano riscontro in nessun'altra parte del mondo (da un mare all'altro la distanza media non supera i 3000 km); è inoltre la parte del mondo che, in rapporto alla sua superficie, ha il maggior sviluppo costiero. Diversi mari (Egeo, Ionio, Adriatico, Tirreno, Ligure, ecc.) rompono lo spazio mediterraneo, comunicante con l'Oceano Atlantico attraverso lo stretto di Gibilterra, angusto varco tra il raccordo montuoso del Sistema Betico e dei rilievi atlantici dell'Africa settentrionale. Anche sul lato settentrionale, l'Europa presenta notevoli articolazioni. A motivi strutturali connessi con la formazione di marcate subsidenze si deve la grande penetrazione marina corrispondente al Mar Baltico e al Mare del Nord. Questi mari danno forma alla penisola scandinava, in epoche geologiche recenti pressoché saldata all'Europa centrale tramite il Jylland. Il Mare del Nord è delimitato a W dalle Isole Britanniche, anch'esse un tempo allacciate all'Europa continentale, dalla quale sono oggi divise dall'angusto canale della Manica, porta d'ingresso alle sponde d'Europa. Per contro l'isolata Islanda è solo per convenzione europea: si tratta di una terra vulcanica formatasi sulla grande dorsale mediana dell'oceano Atlantico. Dal punto di vista morfologico l'Europa presenta una notevole varietà di motivi legati sia alla vasta gamma delle forme strutturali sia alla diversità dell'azione erosiva in dipendenza dei molteplici fattori climatici. Sulle Alpi e nella sezione settentrionale dell'Europa un'azione decisiva ha assunto l'attività glaciale pleistocenica, cui si devono le forme smussate dei rilievi scandinavi, i profondi fiordi della costa norvegese (risultato ultimo di un'ingressione marina postglaciale), i vasti depositi morenici che invadono le pianure germaniche e sarmatiche. Nelle Alpi la morfogenesi glaciale è responsabile delle vette che dominano la catena, del profilo arrotondato delle lunghe vallate trasversali e longitudinali che l'attraversano e dei numerosi laghi di sbarramento morenico che si aprono nelle fasce prealpine. Nell'area dei massicci antichi le morfologie senili del rilievo danno luogo a molli ondulazioni e ad allineamenti collinari che si rompono soltanto in vicinanza dell'arco dei rilievi cenozoici. Le pianure alluvionali sono nel complesso poche e corrispondono a depressioni tettoniche : tra le più caratteristiche sono quelle formate dai fiumi mediterranei come il Po e l'Ebro. Una delle più estese pianure è quella pannonica; ma qui, come nel bassopiano sarmatico, hanno ormai risalto i suoli d'origine eolica, responsabili di quelle “terre nere” (cernozëm) che fanno la ricchezza cerealicola dell'Ucraina.
Idrografia
L'idrografia europea è molto articolata in rapporto alla conformazione fisica del continente; in questo senso le Alpi assumono una funzione determinante. Da esse nascono alcuni dei principali fiumi europei a cominciare dal Reno, il più importante da un mero punto di vista geografico, in quanto asse vitale di umanizzazione, legame naturale tra mondo alpino (e mediterraneo) e Mare del Nord, nel quale il fiume sfocia con un vasto apparato che a grandi linee corrisponde ai Paesi Bassi. Il Rodano è invece un fiume mediterraneo, il maggiore, anch'esso fondamentale via delle comunicazioni europee. Il Danubio, pur non originandosi direttamente dalle Alpi, è sostanzialmente alimentato da queste: esso poi attraversa la pianura pannonica e sfocia, a N dei Balcani, nel Mar Nero. Usciti dalla regione alpina, questi tre grandi fiumi svolgono i loro corsi in territori pianeggianti o di bassi rilievi; hanno quindi corsi maturi e sono navigabili. Da questo punto di vista la funzione prioritaria assunta dal Reno come via d'acqua è comprensibile, in quanto è il perno di una rete di fiumi e canali che si allarga a tutta l'Europa centrale. Divisi da basse soglie spartiacque, il Rodano e il Reno sono artificialmente collegati; così pure il Danubio e il Reno, attraverso il Meno. In quest'area di eccezionali vie navigabili rientrano pure l'Elba, l'Oder e la Vistola nella sezione orientale, la Senna e la Loira in quella occidentale. Grandi fiumi dai bacini estesi e dal profilo maturo si trovano anche nella regione russa, dove scorrono il Dnepr, il Don e il Volga. Quest'ultimo è il maggior fiume europeo, interamente navigabile e artificialmente raccordato con i fiumi che sfociano nel Baltico e nel Mar Glaciale Artico (area idrografica questa che, ai margini dello Scudo Baltico, ospita i vasti laghi Onega e Ladoga). Il frazionamento morfologico ha impedito invece nella regione mediterranea la formazione di una rete idrografica estesa, la quale comprende, piuttosto, fiumi giovanili, non stabilizzati. Anche per quanto riguarda il regime, i fiumi mediterranei, in rapporto alle condizioni climatiche e alle precipitazioni, sono assai diversi dagli altri fiumi europei: quelli mediterranei hanno cioè magre estive e piene invernali, mentre quelli centreuropei hanno una portata pressoché costante nell'arco annuale (altro fattore della loro navigabilità). Le condizioni estreme in tal senso possono essere rappresentate dalla fiumara calabrese, che si riempie solo durante le piogge invernali, e da un fiume come il Tamigi, sempre ricco d'acqua. Al di fuori dell'area oceanica, peraltro i grandi fiumi europei hanno piene primaverili ed estive: ciò vale per i fiumi del bassopiano sarmatico, così come per quelli alpini, alimentati dallo scioglimento delle nevi e dei ghiacci.
Clima
Dal punto di vista climatico l'Europa – benché sia quasi interamente compresa nella zona a clima temperato – si può dividere in tre grandi domini: quello del clima temperato oceanico o atlantico, quello dell'Europa mediterranea, subtropicale, e quello continentale dell'Europa orientale. Le linee di separazione tra queste tre aree non sono nette (pur se le Alpi hanno una funzione diaframmatica importante) e in esse si inseriscono diverse zone di transizione. Tuttavia è tra le masse d'aria proprie di questi tre domini che si svolge il meccanismo climatico dell'Europa Alle masse d'aria d'origine nord-atlantica si devono i grandi apporti umidi e le precipitazioni che investono l'Europa, particolarmente le regioni aperte all'Atlantico, a N e a NW delle Alpi. Le masse d'aria atlantiche sono sospinte dai moti ciclonici verso E (venti occidentali) e il loro influsso è interrotto nel corso dell'anno dalle masse d'aria fredde e secche d'origine continentale nelle pianure dell'Europa orientale. Queste si manifestano d'inverno come anticicloni che spazzano tutta l'Europa orientale, facendo sentire i loro effetti anche sull'Europa centrale e marginalmente a S delle Alpi; si hanno perciò inverni dai cieli limpidi ma freddi, che contrastano con quelli umidi e nebbiosi dell'Europa atlantica. La morsa dell'anticiclone continentale si allenta in primavera, con l'abbassarsi delle alte pressioni sulle grandi pianure sarmatiche: allora si ha la penetrazione d'aria atlantica e con ciò inizia la caratteristica stagione piovosa dell'Europa orientale. Nell'area mediterranea l'anticiclone tropicale mantiene le estati in condizioni di grande stabilità climatica: è la stagione arida e calda che s'interrompe con l'imporsi delle masse d'aria d'origine atlantica responsabili della stagione invernale piovosa, tipica di quest'area. Il clima mediterraneo si fa sentire nelle zone più vicine al mare delle tre grandi penisole dell'Europa meridionale; nella parte interna di esse si hanno aree di transizione, atlantica nella regione iberica, continentale nella regione balcanica e nell'Italia settentrionale (a tale proposito si parla di un sottotipo climatico padano-balcanico). I fattori altitudinali e latitudinali, indipendentemente dal gioco delle masse d'aria, hanno in Europa un notevole risalto. L'estremità settentrionale del continente fa parte della grande fascia subartica; quella meridionale è ormai alle latitudini subtropicali. I valori termici annui e stagionali sono pertanto molto diversi tra le due parti. A Stoccolma le medie oscillano tra gennaio e luglio rispettivamente tra -7 °C e +15 °C; quelle di Cadice tra 12 °C e 25 °C. La continentalità dell'Europa orientale accentua gli sbalzi stagionali (e giornalieri): a Mosca, situata ca. alla latitudine di Copenaghen, le medie di gennaio e luglio sono rispettivamente di -10 °C e di +17 °C, quelle della Danimarca sono di -2 °C e di +15 °C. Al contrario, l'influsso oceanico mitiga in misura eccezionale il clima delle Isole Britanniche anche a latitudini di poco inferiori a quelle di Mosca (a Londra le medie di gennaio e luglio oscillano tra 5 °C e 17 °C); la corrente del Golfo è in gran parte la causa di questo straordinario addolcimento, che si fa sentire fin sulle coste norvegesi. Gli influssi temperati dell'Atlantico, sia pure in modo meno profondo, sono avvertibili dal Mare del Nord sino alle Alpi e, verso E, oltre l'Elba. Il fattore altitudinale assume un'importanza notevole soprattutto sulle Alpi, una regione estesa e con zone molto elevate. Attualmente il limite delle nevi perenni, nel corso delle epoche storiche più volte sensibilmente mutato, si aggira sui 3000 m; da ciò la presenza di cospicue masse glaciali, anche se, a partire dagli anni Duemila, il progressivo riscaldamento globale della Terra ha contribuito a una notevole diminuzione di tali ghiacciai. Per quanto riguarda le precipitazioni , i contrasti sono rilevanti passando dall'Europa atlantica (valori annui tra 1000 e 2000 mm secondo le zone e l'altitudine) all'Europa orientale e all'Europa mediterranea. In quest'ultima si registrano valori medi mai superiori a 700 mm, con minimi che scendono (nella depressione dell'Ebro, Penisola Iberica) a 300-400 mm. Nell'Europa orientale le precipitazioni non superano mai i 1000 mm e diminuiscono in generale da W a E e da N a S; tuttavia esse cadono in primavera, cioè nel momento più favorevole per le colture. Nella zona padano-balcanica importante è l'apporto delle piogge estive da parte delle perturbazioni temporalesche localizzate, vantaggiose anch'esse per le colture. Di certo la parte soggetta al clima temperato, con precipitazioni che cadono durante tutto l'anno, è quella più favorita dal punto di vista agricolo; ma si può dire in generale che l'Europa è una delle parti del mondo più adatte, e non solo dal punto di vista delle precipitazioni, all'uomo e alle sue attività.
Flora
In rapporto alla varietà delle condizioni climatiche, la vegetazione presenta caratteri e insediamenti diversi. Si riconoscono aree floristiche ben precise, che in senso lato si possono anche definire biogeografiche, in quanto ospitano anche una corrispondente fauna. La grande articolazione morfologica dell'Europa è all'origine delle ulteriori aree nel cui ambito si trovano microregioni dai caratteri spesso unici. La parte più settentrionale della penisola scandinava è occupata dalle specie boreali; è il regno della tundra, che via via lascia il posto verso S all'area circumboreale, estesa nella Russia settentrionale e nella Scandinavia. È questo il dominio della taiga, il bosco di conifere (pini, abeti, larici) e betulle. Dove sopravviene l'influsso temperante dell'Atlantico appaiono le latifoglie. Queste danno vita alla bella foresta centreuropea, composta da piante varie (faggi, carpini, olmi, aceri, castagni, querce ecc.) e diffusa in buona parte dell'Europa, pur con le variazioni associative indotte dalle diverse condizioni locali; essa però è oggi ridotta a lembi, dato che si estende proprio nelle aree agricole più intensamente sfruttate e più popolate d'Europa. Foreste di latifoglie si trovano anche nella regione balcanica, nella quale predominano le querce e altre specie temperate d'origine pontica. Nell'ambiente delle pianure russe, alla foresta di conifere succede verso S la steppa eurasiatica che cresce sulle “terre nere”, attivate organicamente dal disgelo e dalle piogge primaverili. Nell'area mediterranea si hanno, come specie tipiche, piante termofile e sempreverdi che danno origine alla macchia, caratteristica associazione dei litorali; tra le specie proprie dell'area si annoverano sia piante arboree come il leccio, l'olivo, il cipresso ecc., sia piante erbacee d'ambiente arido tropicale. Ambiente particolare è infine quello delle zone montagnose, dove si trovano gli insediamenti altitudinali più vari; così, nel complesso, sulle Alpi i diversi piani vegetali assommano in sé molte peculiarità delle successive fasce latitudinali.
Fauna
Dal punto di vista zoogeografico, dati i continui scambi che sono avvenuti malgrado la presenza di catene montuose che dividono l'Europa meridionale da quella centro-settentrionale, le varie regioni non sono caratterizzate da specie tipiche. Nella parte settentrionale, in ristrette zone, vive ancora l'alce. Altri ruminanti presenti in Europa allo stato selvatico sono cervi, caprioli e daini, mentre il bisonte è limitato alla foresta di Białowieska (Polonia). Dei Suidi è presente solo il cinghiale; tra i Carnivori si trovano donnole, ermellini, tassi, martore, orsi bruni, lupi e volpi; inoltre topi, scoiattoli e marmotte,ricci e talpe. L'avifauna presenta quasi tutti i Passeriformi, quaglie, galli cedroni, fagiani di monte e rapaci. I Rettili sono presenti con bisce, vipere, lucertole e tartarughe; gli Anfibi con rane e tritoni; i Pesci con trote, carpe, persici, storioni e anguille. Particolare importanza riveste la fauna delle Alpi. Significativa è la bertuccia di Gibilterra (probabilmente importata e poi rinselvatichita).
Ambiente
La lunga storia antropica del continente ha lasciato un'inconfondibile impronta sugli equilibri ambientali europei. Anche se diversi sono i parchi naturali che, dall'inizio del XXI secolo, si prefiggono di conservare habitat naturali sempre più precari, soltanto alle estremità settentrionali (Penisola Scandinava) e orientali (la grande pianura russa) esistono ambienti totalmente incontaminati. La deforestazione ha minacciato l'Europa prima di qualsiasi altra zona del mondo, a causa della precoce industrializzazione e, a tutt'oggi, vi sono aree, come l'Irlanda, in cui la foresta originaria è pressoché scomparsa. Di contro, a partire dalla fine del Novecento, la crescente sensibilità politica e culturale alle tematiche ambientali ha prodotto un'inversione di tendenza; da qui una maggiore attenzione nella tutela di quanto è rimasto dopo secoli di intenso sfruttamento e i tentativi di proteggere e ripopolare con specie originarie alcune regioni del continente. Questa aumentata sensibilità ai temi ambientali è stata uno degli effetti secondari del processo di allargamento dell'UE, che opera anche al fine di “armonizzare” le politiche ambientali dei Paesi membri. Processo, a onor del vero, caratterizzato da battute d'arresto continue dovute soprattutto alla difficoltà di conciliare interessi particolari (quelli rilevabili su scala nazionale, relativi alle ricadute delle decisioni globali all'interno dei singoli Stati) con interessi collettivi (la dimensione europea dei provvedimenti) nonché quelli di breve e lungo periodo (investimenti in tecnologie che porteranno risultati solo sulla lunga distanza a fronte di costi e impegni da sostenere implementando politiche a forte impatto sul presente). Ne è un esempio il vertice di Copenghen (2009), in occasione del quale il mondo ha potuto osservare con quanta poca forza e coesione l'Unione riesca a far sentire la propria voce nei consessi internazionali e di quanto difficile sia individuare posizioni comuni da sostenere con convinzione. Nonostante questo la green economy si presenta come una vera e propria sfida per i modelli di sviluppo del Vecchio Continente, sia da un punto di vista meramente economico sia, soprattutto, dal lato ambientale. Nel dicembre del 2008 l'UE ha approvato la cosiddetta “Strategia 20-20-20”, ossia un pacchetto di politiche atte a ridurre, entro il 2020 appunto, del 20% le emissioni di gas serra e il consumo totale di energia, nonché, per la stessa data, produrre almeno il 20% dell'energia da fonti rinnovabili. A partire dagli anni Settanta del Novecento una particolare cura è stata posta nella tutela delle acque fluviali. Il caso esemplificativo è quello del Tamigi, fiume letteralmente “morto” già alla fine dell'Ottocento che grazie al processo di ripopolamento di cui è stato oggetto, ha visto il ritorno di specie precedentemente scomparse, come foche e delfini. Rinnovata attenzione hanno meritato anche i tanti chilometri di costa che orlano il continente e i prospicienti ambienti marini. Sono oltre 120 le aree protette, di cui 50 ca. sono completamente marine. Particolare rilevanza ha assunto, tra le varie iniziative, la costituzione di un “santuario” nel mare compreso tra Italia, Francia e Principato di Monaco, reso possibile grazie a un accordo tra i tre Stati. In questo ampio braccio di mare vigono dunque nuove e severe norme che proibiscono la caccia a cetacei quali il delfino comune (Delphinus delphis) o il capodoglio (Physeter catodon). Ciononostante, desta particolare allarme la pesca senza controllo cui sono sottoposte alcune specie, come per esempio il tonno rosso (Thunnus thynnus), in via di estinzione. Proprio su questa specie, da diversi anni, i governi dei Paesi mediterranei, pur chiamati ad assumere posizioni chiare, mantengono atteggiamenti ambigui che attirano loro aspre critiche degli ambientalisti. Nonostante le trasformazioni in atto nell'economia europea e il peso sempre inferiore assunto dai processi di lavorazione nei settori chimici e siderurgici, il continente continua a pagare l'elevato tasso di industrializzazione, non meno che il consumismo adottato come costume abituale ormai in quasi tutti i Paesi che lo compongono. Da qui, derivano due dei principali nodi irrisolti dell'agenda europea in tema di tutela ambientale: la qualità dell'aria (gravemente compromessa in alcune aree come, per esempio, la Pianura Padana in Italia) e lo smaltimento dei rifiuti, per il quale le risposte dei vari Stati denotano ancora l'assenza di una strategia comune improntata a un efficienza condivisa.
Geografia umana: popolamento
L'Europa è stata popolata dal genere Homo fin da tempi remoti, almeno nella sua parte meridionale e centrale, grazie alla facilità d'accesso da parte dell'uomo tramite i “ponti continentali” dello stretto di Gibilterra e dei Dardanelli. La sua posizione geografica e, in seguito, lo sviluppo economico delle società mediterranee hanno rappresentato sempre un richiamo per i popoli extraeuropei, richiamo che dura ancor oggi e che è alla base della grande varietà di tipi e sottotipi umani che attualmente la popolano. Reperti litici (choppers, chopping tools) attribuiti a Homo erectus sono stati rinvenuti in numerosi siti la cui datazione (ancora incerta) risale a 1,8-0,7 milioni di anni fa: i depositi più ricchi sono stati individuati in Francia (Saint-Vallier, Rochelampert, Chilhac, Vallonet, Soleihac), in Serbia (Sandalja) e in Italia (Montepoggiolo, Forlì; Isernia La Pineta). Pochi i resti fossili di ossa e denti sicuramente di Homo erectus finora portati alla luce; i più antichi risalgono a un periodo compreso fra 700.000 e 450.000 anni fa: Heidelberg, in Germania; Stranska-Skala, nella Repubblica Ceca; Petralona, in Grecia; Azych, nell'Azerbaigian; Tautavel-Arago, in Francia; Atapuerca, in Spagna; Fontana Ranuccio (Anagni), Visogliano (Trieste), in Italia; Vertesszöllös, in Ungheria; in quest'ultimo sito si riscontrano tracce evidenti di focolari, così come a Terra Amata e a Quinson, in Francia, e a Torrimpietra, vicino Roma. Le diversità morfologiche, seppur minime, starebbero a dimostrare un'evoluzione locale di forme regionali che si accentua negli Homo erectus più recenti (datati fra 400.000 e 130.000 anni fa) e che, secondo alcuni studiosi (M. A. de Lumley e altri), preludono ai Neandertaliani. I siti più importanti si trovano in Francia (Tautavel-Arago; Vergranne; Montmaurin; Orgnac; Lazaret; Fontechevade; La Chaise; Biache Saint-Vaast), in Italia (Visogliano, Trieste; Castel di Guido, Roma; grotta del Principe, Ventimiglia), in Spagna (Cova Negra, Bañolas), Germania (Steinheim) e Gran Bretagna (Swanscombe), indice della grande diffusione di questi uomini nel corso delle glaciazioni pleistoceniche. Proprio tale fattore geologico-ambientale potrebbe essere la causa diretta delle differenziazioni regionali e dell'evoluzione “autonoma” indirizzata verso forme (Presapiens), considerate dirette antenate dei Neandertaliani, che risalgono tutte all'interglaciale Riss-Würm e i cui reperti più significativi sono stati rinvenuti a Ehringsdorf, in Germania; Saccopastore, in Italia; Ganovce, in Slovacchia; Krapina, in Croazia. Risultato “finale” di questa evoluzione europea del genere Homo sono da considerarsi i Neandertaliani (Homo sapiens neanderthalensis) che si espansero, dalla fine dell'interglaciale Riss-Würm all'interstadio “caldo” Würm II-Würm III, fino all'Asia orientale e all'Africa settentrionale. Nel corso della glaciazione würmiana, almeno a partire da 40.000 anni fa, si diffusero in Europa, provenienti dall'Africa settentrionale e, secondo alcuni studiosi, anche dal Vicino Oriente, i Cromagnonoidi (Homo sapiens sapiens). Anche questi cacciatori nomadi si differenziarono in forme regionali e, probabilmente, si ibridarono con gli ultimi Neandertaliani, come sembrano dimostrare i reperti di Le Piage (Francia), Cueva del Pendo (Spagna), Brno, Pavlov, Dolní Věstonice, Přdmost, Mladec (Repubblica Ceca), Bacho Kiro (Bulgaria). Sul finire della glaciazione Würm l'Europa divenne oggetto di nuove migrazioni: per primi giunsero gruppi di cacciatori-raccoglitori provenienti dal Nordafrica (Protomediterranei, che secondo G. Sergi si spinsero fino al bacino Aralo-Caspico). Queste genti si fusero pacificamente con gli autoctoni discendenti dei Cromagnonoidi, dando origine a diversi popoli i cui discendenti più significativi sono probabilmente gli Iberi e i Liguri; secondo alcuni studiosi anche Germani, Celti e Slavi che, però, dal punto di vista antropologico presentano ibridazioni più o meno accentuate con genti iraniche. Nella stessa epoca, infatti, l'Europa orientale fu interessata da varie migrazioni di popoli cacciatori di origine asiatica (Ugrofinni), mentre iniziava la penetrazione di genti iraniche, nomadi cacciatori che nel Sud dell'odierna Russia diedero origine a popoli quali gli Sciti e i Sarmati. Tuttavia, fra l'VIII e il IV millennio a. C. l'Europa era ancora scarsamente popolata, tanto da consentire un buon livello di vita ai numerosi gruppi etnici di cacciatori e raccoglitori che furono interessati da una rapida crescita demografica. Ancora oggetto di indagine e discussione è la comparsa dell'agricoltura, che solo dopo il IV millennio a. C. si afferma nell'Europa continentale: secondo alcuni studiosi questo nuovo sistema economico fu diffuso da genti provenienti dal Medio Oriente lungo l'asse danubiano; secondo altri è dovuto a uno sviluppo autoctono, solo in parte influenzato dalle culture agricole del Mediterraneo. In ogni caso, già dal II millennio a. C. gli scambi commerciali con le grandi civiltà mediterranee erano assai frequenti. In tale periodo si verificarono le prime imponenti migrazioni interne, probabilmente dovute a un complesso di cause (crescita demografica, variazioni climatiche, pressione di nuove genti nomadi), che interessarono soprattutto l'Italia e la Penisola Balcanica (Latini, Illiri, Umbri, Veneti, Sanniti, Elleni, Etruschi ecc.). Poco più tardi si verificò la diffusione in Francia, Spagna e Italia dei Celti, forse sotto la spinta dei popoli slavi che raggiunsero il cuore dell'attuale Germania. All'inizio dell'era attuale si mossero dal Nord dell'Europa le genti note come “Germani”, che dilagarono verso sud; contemporaneamente si verificarono infiltrazioni di nomadi asiatici (Unni, Tatari ecc.) nell'Est europeo fino all'Italia e all'Europa centrale. Si venne così definendo quel quadro antropologico che portò alla formazione dei tipi umani annoverati nel cosiddetto “gruppo europoide”. Una ripresa delle migrazioni dall'esterno si ebbe dal sec. VIII con gli Arabi che si insediarono in Spagna e in Sicilia; dal sec. X genti asiatiche (Peceneghi, Cumani, Mongoli) si spinsero nell'Europa orientale fino ai Balcani; più tardi (sec. XIV) i Turchi giunsero a diffondersi nei Balcani e nella Russia meridionale. Da tale data il popolamento dell'Europa si è andato stabilizzando, anche se, per le vicende politico-militari, il quadro antropologico ha subito più volte modificazioni derivanti da ripetute ibridazioni fra i vari tipi umani, europoidi e in parte arabo-asiatici. Si possono, pertanto, distinguere alcune aree abbastanza omogenee: quella latino-celtica (Spagna, Francia, Italia) con influssi germanici e arabi; quella celto-germanica (Germania e Gran Bretagna), con influssi scandinavi; quella scandinava nell'estremo Nord; quella slava, nell'Europa centro-orientale e orientale, con inclusioni di genti asiatiche in Finlandia, Russia, Paesi Baltici, Ungheria e Bulgaria.
Geografia umana: distribuzione della popolazione
La geografia dell'Europa d'oggi, con le sue aree più o meno popolate, i suoi grandi nuclei urbani e la sua organizzazione territoriale, è il risultato delle vicende che hanno avuto quali protagonisti i Paesi atlantici. Esse hanno interessato in primo luogo la Gran Bretagna; poi si sono estese alla Francia settentrionale, alle Fiandre, alla Germania e all'Italia settentrionale. Sono proprio queste le aree caratterizzate da alta densità umana, da forte urbanizzazione, da giganteschi apparati produttivi e da condizioni di vita molto elevate. Anche nel corso del Novecento le regioni privilegiate dalla prima rivoluzione industriale (o perché dotate di risorse energetiche o perché aperte ai traffici atlantici) sono rimaste le più disponibili a ogni sollecitazione in senso economico e culturale nuovo. In esse si concentra la maggior parte della popolazione europea, con densità che arrivano a superare i 500 ab./km². Comprendono l'Inghilterra centrale (Midlands) e meridionale (che gravita su Londra ), la Francia del Nord e la regione che fa capo a Parigi, il Belgio e i Paesi Bassi, la regione renana (con massime concentrazioni nella Ruhr) e quella dell'Elba, la pianura padana (che fa capo a Milano). Altrove si hanno densità medie comprese tra 50 e 200 ab./km², con valori inferiori a 50 ab./km² nelle zone mediterranee più povere e nelle pianure russe, e inferiori a 10 ab./km² nelle terre nordiche. Per la presenza di cospicui movimenti migratori interni, l'elevata densità delle zone più industrializzate è in parte il risultato di un impoverimento demografico delle zone rurali . Nonostante questi squilibri nel popolamento, l'Europa, nei suoi confini attuali, è una delle parti del mondo più abitate, terza nella graduatoria mondiale dopo l'Asia e l'Africa: ospita, infatti, circa 720 milioni di ab. secondo una stima del 2009, con una densità media pari a 69 ab./km². L'Europa è l'unica area del mondo nella quale si sta verificando una diminuzione della popolazione, a causa dei bassissimi tassi di natalità che ormai si stanno registrando in tutto il continente.
Geografia umana: sviluppo demografico
Gli sviluppi demografici dell'Europa sono stati tumultuosi nel corso degli ultimi secoli e sono stati di certo un fattore importante nell'affermazione della rivoluzione industriale e dei fenomeni a essa legati, come l'espansione coloniale delle conquiste effettuate dalle potenze europee – ossia l'espansione coloniale – e la rapida evoluzione tecnologica. Per le sue favorevoli condizioni ambientali l'Europa è stata sempre, nel complesso, ben popolata. Già in età romana sembra che ospitasse 30 milioni di abitanti. Nel corso del Medioevo si verificò probabilmente una diminuzione; ma già nel sec. XVI iniziò il grande sviluppo che interessò molte zone del continente. Così, agli inizi del sec. XVIII essa contava ca. 110 milioni di ab., che crebbero a 200 un secolo dopo; nel 1930 erano già 500 milioni e nel 1950, 529 milioni. . Le migliorate condizioni di vita e la concezione cristiana della famiglia avevano contribuito, specie nel sec. XIX, a mantenere molto elevato il tasso di natalità, che era del 35‰ mentre quello di mortalità era del 30‰. Questi valori sono andati progressivamente diminuendo nel corso del sec. XX e all'inizio del Duemila la natalità in Europa si aggirava, in media, attorno al 10,5‰ (mortalità: 11,5‰), dati, questi, su cui, da anni, si attestano grandi Stati come la Germania e l'Italia ormai pervenuti alla “crescita zero” (tasso di natalità uguagliato o sopravanzato dalla mortalità), sui quali, però, stanno convergendo i modelli demografici di quasi tutti i Paesi del continente. Purtroppo infatti, la piramide delle età di quasi tutti i Paesi europei ha assunto la caratteristica forma “a fuso”, con una forte espansione del vertice (classi anziane) e un parallelo restringimento della base (classi giovani), denotando un sensibile invecchiamento e ponendo seri problemi in campo sociale e finanziario, legati alle crescenti necessità dell'assistenza e della previdenza solo in qualche misura attutiti dall'aumento dell'immigrazione. Sussistono, comunque, differenze fra gli andamenti demografici delle varie parti d'Europa, ma sempre meno nette e sempre più dipendenti, in pratica, dal livello di sviluppo raggiunto dai vari Paesi. Salvo l'unica eccezione della Bosnia-Erzegovina (che nella seconda metà del decennio 1990 ha segnato una crescita del 3% medio annuo), in nessuno Stato europeo negli ultimi anni del Novanta si è superato l'1% di aumento. Questa tendenza, secondo le ultime stime, è ulteriormente peggiorata nel corso del primo decennio del sec. XXI, oscillando ormai il tasso di crescita tra il misero 0,5% dell'Europa settentrionale e la crescita negativa (-0,3%) dell'Europa dell'Est. In termini di proiezioni, il mantenimento dell'attuale livello di popolamento dovrebbe essere garantito dal comportamento demograficamente più attivo della popolazione di origine extraeuropea, da tempo più o meno lungo insediatasi in Europa: gli effetti di questo fenomeno sono già alquanto sensibili in alcuni Paesi, come la Francia, la Gran Bretagna, la Germania, la Svizzera. I massicci aumenti della popolazione fra Otto e Novecento, si verificarono nonostante le grandi guerre e le gigantesche emigrazioni che portarono l'uomo europeo a popolare l'America e tante altre terre d'oltre oceano. Si calcola che solamente le due guerre del sec. XX abbiano registrato la prima ca. 7-8 milioni di perdite umane, la seconda ca. 20 milioni, per quanto concerne la popolazione europea. Incidenza maggiore ha però avuto l'emigrazione, che complessivamente ha sottratto all'Europa, tra il sec. XIX e la prima metà del XX, oltre 50 milioni di persone. L'emigrazione extraeuropea si verificò in successive ondate: la prima culminò verso il 1850, la seconda si realizzò verso il 1870, la terza alla fine del secolo, la quarta tra il 1905 e il 1913. Quest'ultima è stata la più imponente e interessò soprattutto i Paesi dell'area mediterranea, ultimi apparsi sulla scena migratoria che aveva visto per principali protagonisti, sino allora, i britannici. Dalla Gran Bretagna sono partiti complessivamente 17 milioni di individui; seconda viene l'Italia con 10 milioni. Con ca. 6 milioni hanno dato il loro contributo alle migrazioni gli iberici, gli irlandesi e i tedeschi, con ca. la metà i russi e gli scandinavi. Cospicui sono stati anche i movimenti all'interno dell'Europa. Francia e Belgio sono stati, agli inizi del sec. XX, i Paesi di maggior attrazione, cui si è aggiunta nel secondo dopoguerra la Germania Occidentale, oltre alla Svizzera. Gli italiani, e successivamente gli iberici e i greci, hanno alimentato le principali migrazioni interne di lavoro, cui sono da aggiungere i movimenti di popolazione provocati dalle vicende politiche: per esempio gli spostamenti dei tedeschi dalla Cecoslovacchia alla Germania, dei russi verso la Polonia orientale ecc. Nel complesso la seconda guerra mondiale determinò lo spostamento di ben 30 milioni di persone all'interno dell'Europa. Scomparsi quasi del tutto nel dopoguerra e nei decenni successivi, i movimenti migratori, all'interno dell'Europa, legati a motivi politici sono ripresi vigorosamente tra la fine degli anni Ottanta e gli inizi degli anni Novanta, a seguito delle vicende politiche che hanno coinvolto i Paesi dell'Est, raggiungendo cifre da vero e proprio esodo nel 1989, allorché decine di migliaia di tedeschi orientali e un numero minore di ungheresi e cecoslovacchi sono passati all'Ovest. Tali movimenti sono via via rallentati con i grandi processi di riforma costituzionale avviati in gran parte dell'Europa orientale, continuando a interessare solo la Transilvania (dove il governo rumeno preclude ogni autonomia alla minoranza ungherese), la Bulgaria (con l'esodo dei Turchi) e l'Albania. Le migrazioni dall'Europa (specie dai Paesi mediterranei) verso altri continenti sono ormai del tutto esaurite, fatta eccezione per normali flussi di manodopera specializzata e di studenti. Invece, una rilevanza particolare vanno assumendo, soprattutto nei Paesi dell'EU, le immigrazioni dai Paesi del Terzo Mondo, che pongono seri problemi, da una parte di accoglienza, dall'altra di integrazione.
Geografia umana: urbanesimo e insediamenti rurali
L'Europa è una delle parti del mondo più urbanizzate: la gran parte della popolazione vive nelle città. A prescindere dal movimento materiale di persone prodotto dalle immigrazioni (e da quello, drammatico, ma generalmente circoscritto nel tempo, provocato dai recenti eventi bellici), la stabilità della popolazione europea si è sostanzialmente rispecchiata in una stabilità del modello insediativo, a partire dagli anni Novanta non ha mostrato variazioni di rilievo. Il tasso di urbanizzazione si è assestato, mediamente, attoro al 75%, con valori più bassi della media nell'Europa orientale e in quella meridionale, e alquanto più elevati nell'Europa occidentale e in parte di quella settentrionale. L'urbanesimo vi ha origini antiche e ha trovato nella città medievale la sua più autentica e originale espressione, anche se esso era già notevole nell'epoca romana, che ha lasciato un'impronta indelebile in tutto il successivo urbanesimo. La città medievale più caratteristica è quella d'epoca comunale: è chiusa, raccolta intorno agli edifici municipali e alla chiesa. Socialmente si qualifica per le attività artigianali vivaci e per l'affermazione di una borghesia che la animerà economicamente in senso capitalistico e le darà quel lustro architettonico che ancora si rintraccia soprattutto nelle città dell'Europa centrale, nelle città fiamminghe dominate dal gotico slancio delle torri e dei campanili, e in quelle tedesche, inglesi e italiane. Queste città erano il perno di territori non molto estesi, ma avevano aperture commerciali ampie; esse sono rimaste alla base della successiva organizzazione territoriale che ha promosso il loro nuovo sviluppo intorno alle vecchie strade medievali. La rivoluzione industriale ha privilegiato, a partire dal sec. XX, altre città, sia per la loro funzione portuale sia per la loro felice ubicazione rispetto alle aree minerarie e alle vie d'acqua interne. La città industriale assume un ordine urbanistico nuovo e una nuova dimensione: nasce inospitale e fumosa (le metropoli inglesi ne mantengono ancora oggi alcune tracce). In molti casi essa diventa il nucleo di un'area che si struttura industrialmente in modo intensivo, specie nelle zone più favorite, germinando nuovi centri urbani a breve distanza: da qui il formarsi di città-regioni o di conurbazioni, che in Europa sono ormai numerose e imponenti. Emergono l'area londinese (7,7 milioni di ab. l'agglomerato urbano), le conurbazioni dei Midlands (la grande fascia centrale dell'Inghilterra, che comprende città come Birmingham o Leicester), l'area parigina (11,7 milioni di ab.), fulcro di tutta la Francia , la Ruhr, che riunisce un grappolo di grosse città industriali e che nel complesso accoglie anch'essa circa 11,8 milioni di ab.; altre zone industriali di elevata urbanizzazione sono la regione fiamminga, il triangolo industriale padano, il medio bacino dell'Elba. Vi sono poi le aree urbano-industriali dell'Europa orientale, come quella moscovita, il bacino carbonifero slesiano, il bacino del Don (Donbass). Ma l'urbanesimo è rappresentato anche da grosse città che formano fuochi territoriali più isolati, presenti sia nella regione scandinava (Copenaghen, Stoccolma) sia in quelle mediterranea (Roma, Napoli, Barcellona, Madrid) e danubiana (Vienna, Belgrado), sia nei territori dell'ex Unione Sovietica (Kijev, San Pietroburgo ecc.). Numerose sono in tutta l'Europa le città di dimensioni medie (intorno a 100-150.000 ab.), che hanno funzioni molteplici nei confronti di territori con economia diversificata. Nel tessuto urbano, ormai molto fitto, si inseriscono le aree a economia ancora prevalentemente agricola, in continua riduzione e con un numero di abitanti sempre più limitato. In esse si ritrova spesso il volto dell'Europa del passato, che nobilitava anche la campagna per gli intensi e diretti rapporti che essa aveva con il mondo urbano. Gli insediamenti presentano forme assai diverse; molti risalgono alle epoche più antiche, siano villaggi fittamente compatti, siano villaggi con case allineate lungo la strada principale. Questi ultimi predominano nel mondo slavo, i primi nell'Europa centrale e nell'Europa mediterranea, dove sussistono vere e proprie città rurali dalle case bianche ammassate. È presente in molte zone il piccolo nucleo d'origine patriarcale e diffusa è anche la casa sparsa, sia nell'Europa centrale sia nell'area mediterranea a coltura intensiva. La trasformazione dell'economia agricola ha però progressivamente mutato il tessuto antico del mondo rurale e ciò che oggi caratterizza ovunque l'insediamento rurale è la sua sempre più stretta relazione con i centri urbani e le aree industriali.
Economia: generalità
Anche ove non fossero intercorsi gli eventi straordinari che, a cavallo fra gli anni Ottanta e Novanta del sec. XX, hanno portato a rivoluzionarie modificazioni dei rapporti interni e, in seguito, all'implosione dell'Unione Sovietica (con formidabili ripercussioni sugli equilibri politici a scala planetaria), quest'ultimo grande e composito Stato non può rientrare in un discorso solo strettamente di tipo europeo. Infatti nel campo economico quanto e più degli altri, l'incerta definizione dei limiti orientali dell'Europa si evidenzia nella transizione verso gli spazi siberiano e centro-asiatico, le cui immense risorse – per larga parte, tuttora, potenziali – giocheranno un ruolo fondamentale, ma ancora da definire, nello sviluppo economico di un mondo aperto a maggiori interscambi e a una pluralità di orizzonti geografici, lungo le coordinate Nord-Sud e Ovest-Est. Stesso discorso vale, ovviamente, per il più importante dei Paesi che hanno ereditato il territorio sovietico, ossia quella Federazione Russa che ha sicuramente in Europa i propri centri decisionali e finanziari (Mosca e San Pietroburgo), ma che ha nell'asiatica Siberia il cuore della propria ricchezza. Fino agli anni Ottanta del Novecento, e in particolare nei primi decenni del secondo dopoguerra, l'economia europea appariva divisa in blocchi contrapposti, segnati dalle ideologie capitalista e marxista, e tuttavia solo in apparenza unitari al proprio interno: l'Europa occidentale soffriva, infatti, di gravi squilibri fra le regioni centro-settentrionali, al culmine del modello urbano-industriale, e le regioni meridionali, ancora in gran parte rurali e faticosamente assistite sulla via di un atteso “decollo”; mentre l'Europa orientale nascondeva, dietro l'impenetrabilità del dirigismo centralista, non solo i noti effetti di depressione dei consumi privati, ma una serie di inefficienze e debolezze strutturali che si andavano a sommare all'estrema frammentarietà del quadro etnico e all'artificiosità dei confini politici. La crisi economica dell'Europa, che si traduceva sempre più in una crisi di identità globale, affondava le sue origini, in ogni caso, nelle modificazioni del processo di divisione internazionale del lavoro: da centro egemone dello sviluppo industriale e, per conseguenza, del commercio mondiale, il continente retrocedeva man mano a un ruolo comprimario, trovandosi a dover mutuare tecnologie e forme di organizzazione dello spazio (specie nelle grandi agglomerazioni produttive e nelle aree metropolitane) elaborate altrove. In effetti, il ruolo svolto dall'Europa nei sec. XVIII e XIX si ricollegava alla sua posizione centrale, esaltata fin dall'epoca delle scoperte geografiche, alla fine del sec. XV, e raggiungeva il culmine con la “rivoluzione industriale”, che vi trovava gli impulsi originari e determinanti. All'affermazione dell'economia industriale concorsero molteplici fattori. Sicuramente favorevoli, infatti, furono la presenza in Europa di numerose risorse naturali (tra cui la ricchezza di ferro, di carbone e altri minerali), un'articolata rete di vie di comunicazione terrestri e l'esistenza di vie interne fluviali e di porti sicuri. Ma non meno importante fu lo spirito mercantile d'origine medievale, germinato nelle vecchie città anseatiche e nelle Repubbliche marinare italiane. Le nuove rotte atlantiche, il costituirsi di vasti imperi coloniali e in genere il moltiplicarsi degli scambi sollecitarono in modo diverso l'espansione capitalistica: da una parte vi fu il facile approvvigionamento di materie prime a basso costo reso possibile dalle politiche coloniali, dall'altra il dischiudersi di nuovi mercati per i prodotti manufatti. L'afflusso di ricchezze verso l'Europa occidentale (Gran Bretagna, Francia, Paesi Bassi, Germania soprattutto) andava via via consolidando il ruolo politico-economico del continente, anche se, a partire dalla fine del sec. XIX, cominciavano ad affermarsi sulla scena mondiale nuovi Paesi: Stati Uniti, Russia e Giappone. La prima guerra mondiale esplosa, tra gli altri motivi, proprio per le mire egemoniche delle potenze industriali europee in gara tra loro, segnò l'inizio della decadenza del primato politico-economico dell'Europa, cui la seconda guerra mondiale diede, per così dire, il colpo di grazia, segnando nettamente la fine della sua supremazia. L'affermarsi delle due superpotenze, USA e URSS, provocò la divisione dell'Europa in aree di influenza e, quindi, la sostanziale perdita di autonomia dei vecchi Stati. L'Europa, il cui apparato produttivo era in gran parte distrutto o non utilizzabile, privata delle colonie, esaurita finanziariamente, seppe tuttavia riemergere nel dopoguerra, anche se con prospettive diverse, grazie al suo potenziale tecnico e soprattutto umano. La rapida ricostruzione delle industrie di base, la creazione d'imponenti industrie leggere e di trasformazione furono ottenuti in Europa occidentale utilizzando gli aiuti degli Stati Uniti (piano Marshall), con i quali molti Paesi stringevano intese d'ordine politico oltre che economico. Nei Paesi dell'Est l'intervento dell'URSS facilitò lo sviluppo degli Stati già in precedenza industrializzati e portò a una massiccia trasformazione di quelli che prima avevano un'economia essenzialmente agricola. Fatto rilevante, rispetto al passato, era soprattutto il processo d'integrazione delle economie europee che portava all'istituzione del COMECON (1949) e della CEE (1957), mentre un ruolo di minor rilievo svolgevano altre organizzazioni europee, come l'EFTA e il Consiglio Nordico. Vi era anche il tentativo di allargare l'integrazione economica fuori dell'Europa per limitare gli effetti della competizione di mercato: con tale spirito, nel 1961, sorgeva l'OCSE, che include numerosi Paesi non europei, come gli Stati Uniti, il Canada, l'Australia ecc. Il periodo più difficile, per l'economia europea, doveva risultare viceversa quello compreso tra la fine degli anni Sessanta e l'inizio degli anni Ottanta. Mentre si era ormai esaurita la spinta della ricostruzione, iniziavano rapidi processi di obsolescenza dei complessi industriali più antichi, a cominciare da quello britannico; i movimenti migratori si facevano sensibilmente più rigidi, venendo progressivamente meno quella pur “ingiusta” forma di compensazione degli squilibri tra domanda e offerta di lavoro; un po' in tutti i Paesi dell'Europa occidentale si manifestavano profonde tensioni sociali, che portavano ai moti operai e studenteschi del 1968 e alla diffusione del terrorismo negli anni immediatamente successivi, con pesanti ripercussioni sul funzionamento delle attività economiche; nel 1973, infine, il primo shock petrolifero metteva a nudo la debolezza di apparati produttivi eccessivamente dipendenti dall'esterno per il fondamentale approvvigionamento energetico. I tassi di crescita del prodotto lordo, che fino ad allora si erano mantenuti mediamente su valori annui del 5-6%, mascherando l'assenza di una reale integrazione nell'ambito stesso della CEE (il cui primo allargamento avveniva, proprio nel 1973, in condizioni di grande incertezza) e la fragilità di altre condizioni strutturali (in agricoltura, nell'industria pesante, nel sistema monetario), subivano una vera caduta e lasciavano il passo a elevati tassi di inflazione, segnale eclatante di una crisi che coinvolgeva, innanzi tutto, i livelli di occupazione. I tentativi di fronteggiare tale emergenza con sempre più onerosi interventi pubblici nei settori produttivi e nei servizi sociali non facevano che aggravare la situazione dei conti economici nazionali, specie in Paesi come il Regno Unito e l'Italia; d'altro canto, le difficili congiunture della siderurgia, della petrolchimica e di industrie-chiave come l'automobilistica evidenziavano il ribaltamento della posizione di centralità dell'Europa: da fattore di potenza a determinante di un vero e proprio schiacciamento fra i due blocchi economici statunitense e sovietico, cui si aggiungeva l'invasione del mercato interno da parte del Giappone e dei Paesi di nuova industrializzazione, in particolare asiatici. Solo la Repubblica Federale di Germania appariva in grado di contrastare le spinte esterne – almeno quelle di carattere strettamente economico – e veniva assumendo una sorta di egemonia, che si traduceva, durante gli anni Ottanta, in un eccessivo apprezzamento del marco rispetto alle altre monete europee e in una sempre più marcata leadership della politica comunitaria. Frattanto l'Europa orientale, “protetta” dal sistema chiuso del COMECON, sembrava ricevere minori contraccolpi dalle crisi energetiche (grazie alle risorse di idrocarburi fornite dall'URSS) e manifestava, nel contempo, qualche nuova tendenza di sviluppo, nel senso di un'almeno apparente apertura verso i settori industriali “leggeri”. Anche qui non mancavano forti divari fra alcuni Paesi (come la Repubblica Democratica Tedesca e l'Ungheria) il cui tenore di vita poteva in qualche modo avvicinarsi ai livelli occidentali e altri (come la Bulgaria e l'Albania) fermi a condizioni di profondo sottosviluppo. E anche qui, dopo i fermenti della “primavera di Praga” (1968) e la successiva dura repressione, emergeva una significativa novità sul piano sociale: la creazione (1980), inizialmente assai contrastata, di un sindacato libero dei lavoratori polacchi, noto come Solidarność, che da allora diveniva il simbolo dei mutati rapporti fra oligarchie di governo e masse di popolazione. Nel corso degli anni Ottanta le economie dell'Europa occidentale facevano registrare pur lievi e incerti sintomi di ripresa, legati peraltro – ancora una volta – a un fattore esterno, ovvero la drastica riduzione dei prezzi petroliferi, sulla quale influiva solo marginalmente il ritrovamento di cospicui giacimenti, nel Mare del Nord, da parte del Regno Unito. Gli ulteriori ampliamenti della CEE (1981 e 1986) verso il Sud del continente parevano accentuare gli scompensi geografici e ponevano gli organi comunitari di fronte a una scelta ineludibile: l'effettiva realizzazione del mercato unico (1993), i cui riflessi sull'organizzazione delle imprese agricole, industriali e dei servizi impegnavano tutti i Paesi membri (dal 1995 anche Austria, Svezia e Finlandia) e, per riflesso, l'intero continente in una serrata competizione per l'efficienza e la produttività. Ma, certamente, le migliori prospettive di un processo di integrazione economica finalmente allargato all'Europa nella sua globalità, con effetti di moltiplicazione a scala mondiale, si sono aperte, all'inizio degli anni Novanta, con l'accelerata fase di liberalizzazione che ha interessato i Paesi dell'Est e con la riunificazione tedesca. L'avvio di tale fase si è rivelato subito denso di problemi, come del resto appariva inevitabile: l'abolizione o il ridimensionamento del dirigismo di Stato ha posto economie da decenni “ibernate” nell'equivoco del pieno impiego (tradotto, di fatto, in sottoccupazione) e prive di ogni riscontro esterno sul piano monetario di fronte all'esigenza di riconvertire – o, addirittura, ricostituire – il proprio apparato produttivo, esponendolo alle insidie del libero mercato, non solo internazionale, ma anche interno. Gli effetti si sono manifestati nelle gravi carenze dei generi di prima necessità, specie nelle aree urbane, oltre che nelle tendenze centrifughe di entità economico-territoriali in precedenza forzosamente inglobate in contesti loro estranei (per esempio, le repubbliche baltiche dell'ex URSS), come pure di gruppi etnici e comunità locali, anche di modesta consistenza, protesi verso l'autonomia. Negli anni Novanta si è evidenziata la drammatica situazione della ex Iugoslavia, dove gli indicatori economici hanno rilevato la distruzione del sistema apportata dalla guerra; anche altri Paesi ex comunisti, sia balcanici, come la Bulgaria e la Romania, sia centroeuropei, come la Repubblica Ceca e la Slovacchia e la stessa Ungheria, scontarono nello stesso periodo i pesanti effetti della transizione: il PIL, che già presentava un andamento decisamente negativo nel periodo 1985-92 (fra il -2% dell'Ungheria e il -6,5% della Slovacchia), accennava appena agli inizi del Duemila a riprendersi, tuttavia partendo da livelli pro capite depressi: basti pensare che, al cambio corrente, un abitante della Bulgaria disponeva, nel 1993, di appena 970 dollari (valore “terzomondista”, quasi dimezzato rispetto ai 1840 dollari dell'anno precedente!), mentre il tasso di inflazione, ovunque superiore al 20%, raggiungeva, ancora nel 1993, il 70% nella stessa Bulgaria e ben il 260% in Romania. Ancora peggiore, e di molto, il quadro delle repubbliche ex sovietiche: il crollo dell'apparato industriale (-22% in Ucraina; -35% in Lettonia; -46% in Lituania), che incide per oltre la metà sulla produzione totale, ha trascinato con sé i valori del PIL; l'inflazione è calcolata su tassi meramente teorici (3200% in Moldavia; 4600% in Ucraina!). Solo la piccola Albania fa registrare un “rimbalzo” (PIL: +11% nel 1993, peraltro con un tasso di inflazione al 91% e di disoccupazione al 32%), forse non meno traumatico e accompagnato dai fenomeni socio-geografici di cui si è detto sopra, in particolare per l'emigrazione. Inoltre, nel 1991 è divenuta operativa la Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo, cui partecipano anche Giappone e Stati Uniti, finalizzata a favorire il processo di liberalizzazione economica nei Paesi dell'Europa orientale. L'Europa inoltre si trova a giocare un ruolo decisivo sia di mediazione politica nei confronti delle aree critiche come la Penisola Balcanica e il Medio Oriente, sia di crescita sociale e innovazione tecnologica, sostenuto dal poderoso apparato terziario (servizi finanziari, alla produzione, turistici) e favorito dallo spostamento del baricentro in direzione mediterranea e orientale: ciò, a beneficio di rinnovati assetti geografico-economici nel cuore del Vecchio Mondo. Sul piano strettamente economico, questi nuovi equilibri si sono tradotti, da un lato, a seguito dell'ulteriore ampliamento dell'UE, nel ridimensionamento dell'Associazione europea di libero scambio (EFTA), cui ormai aderiscono solo Islanda, Norvegia, Svizzera e Liechtenstein (Danimarca, Regno Unito, Portogallo, Austria, Finlandia e Svezia ne sono usciti tra il 1972 e il 1995). Questi stessi Paesi, del resto, con eccezione della Svizzera, sono entrati a far parte fin dal 1994 dello Spazio Economico Europeo (SEE), che di fatto quasi equivale a un'estensione (solo sotto il profilo economico) dei meccanismi comunitari della UE. Oltre all'ampliamento dell'Unione verso est, con quasi tutti i Paesi dell'Europa orientale, anche diversi altri Paesi (non europei dal punto di vista geografico) hanno chiesto di accedere a rapporti più stretti: per esempio, dal 1995 la Tunisia ha siglato un accordo di libero scambio con l'UE, mentre il Marocco e altri Paesi hanno fatto passi concreti nello stesso senso. L'Unione si avvierebbe, dunque, a trasformarsi in una struttura forse politica, certamente economica, di livello continentale e anche sovracontinentale: d'altra parte, gli accordi intercorsi con molti Paesi africani e del Pacifico, quelli operanti con il MERCOSUR, quelli definiti e in via di definizione con vari Paesi asiatici, configurano già, di fatto, un complesso di interessi e di dinamiche che deve essere considerato a scala propriamente mondiale. Intanto, il “gruppo di testa” di questo processo, ha dato via (1999) all'unificazione monetaria, che prevedeva la progressiva sostituzione dell'euro alle valute nazionali. All'unificazione monetaria non hanno aderito Svezia e Gran Bretagna. A seguito dell'adozione dell'euro (2002) e, con essa, dell'unificazione della politica monetaria europea (quindi, necessariamente, di quelle finanziaria, creditizia, fiscale ecc.), si è venuto a costituire un terzo sistema monetario – tra quello del dollaro statunitense e quello dello yen giapponese – pienamente adottato nel sistema dei regolamenti internazionali, anche perché l'UE nel suo insieme è la prima potenza commerciale del mondo, mettendo in definitiva crisi il sistema di Bretton Woods e, con questo, la posizione di rendita che ne hanno derivato gli Stati Uniti. Nel suo insieme, l'Europa comunitaria appare a livello mondiale come l'area economica più stabile e più fermamente orientata alla crescita, sia del comparto finanziario sia (e anche più nettamente) dell'economia produttiva, nonostante, per esempio, tassi di disoccupazione più elevati di quelli statunitensi e giapponesi (se oltre coloro che negli Stati Uniti vengono censiti ufficialmente come “disoccupati” si considerano i “non impiegati”, risulta che nell'insieme la disoccupazione statunitense di fatto è pari o leggermente superiore a quella europea). Queste considerazioni non tolgono nulla, chiaramente, alla serietà di una situazione sociale, che, dopo la grande crisi iniziata nel 2008, vede nuovamente circa il 10% della popolazione senza un'occupazione stabile, ma appare, anche, sempre più evidente che la quota di impieghi, nei sistemi economici più avanzati, va verso un ridimensionamento strutturale, che può essere contrastato solo attraverso la rivalutazione delle politiche sociali e non facendo affidamento sulla crescita economica (che sempre meno produce occupazione). La circostanza appare evidente proprio nel caso dell'Europa comunitaria, che nel lungo periodo ha presentato incrementi di reddito e soprattutto di produttività più elevati degli Stati Uniti, ma non un pari incremento di occupati. A tutto quanto si è finora accennato, è il caso di aggiungere che le molte modificazioni politiche ed economiche dello spazio europeo nel suo insieme hanno prodotto effetti sensibilissimi sotto il profilo sociale e territoriale. Il dissolvimento del blocco orientale ha dato origine dapprima a movimenti migratori da est verso ovest, capaci di caratterizzare ampie regioni occidentali e interi settori produttivi, entrando in competizione con i più radicati flussi extraeuropei, quindi a una serie di investimenti produttivi privati e pubblici negli stessi Paesi dell'Europa orientale, dove gli imprenditori occidentali hanno trovato manodopera a basso costo, discretamente qualificata e un mercato in formazione (l'aumento degli investimenti ha per conseguenza frenato l'emigrazione); in secondo luogo, ha indotto i Paesi della UE (ma anche gli organismi finanziari internazionali, gli Stati Uniti, il Giappone, i Paesi arabi) a effettuare investimenti non direttamente produttivi (infrastrutture) e a fornire le risorse finanziarie per attuare processi di riconversione produttiva delle aziende industriali dell'Europa orientale. Particolarmente rilevante appare l'aspetto infrastrutturale: attraverso il potenziamento delle comunicazioni e dei sistemi di trasporto si è anticipato nei fatti quanto, sul piano strettamente politico, è accaduto negli anni Duemila, ossia l'integrazione funzionale tra Paesi occidentali e Paesi orientali, come evidenzia la struttura della UE, che nel 2010 comprendeva 27 Paesi. Nei Paesi ex socialisti gli effetti dirompenti, sul piano strettamente produttivo come su quello sociale, dell'improvvisa transizione da un sistema a economia pianificata a un sistema di mercato più o meno radicale, sono stati parzialmente riassorbiti, dopo i traumi degli anni Novanta, soltanto con la ripresa economica dei primi anni Duemila. Lo stato di crisi perdurante dal 2008 rischia, però, di compromettere quanto di positivo è stato compiuto sul piano di una reale integrazione dello spazio economico continentale. In una situazione europea ampliata a un territorio più esteso a Est e in forte connessione con alcuni Paesi dell'area mediterranea, generalmente caratterizzata da numerosi accordi di integrazione commerciale, dall'omogeneizzazione monetaria e da rafforzamenti nei sistemi di comunicazione e trasporto, ma anche da una diffusa disoccupazione (stabile al 10%), da forti movimenti migratori, da problemi di integrazione interculturale e dal rischio di forti riduzioni del costo del lavoro, i fattori di instabilità derivanti dalle ripercussioni della crisi dell'economia americana rischiano di avere pesanti impatti sull'intero sistema.Nel 2010, lo scenario europeo è caratterizzato da un andamento dei mercati finanziari ancora incerto: sono compiute compiute operazioni di trading e hedging ed vengono usati strumenti finanziari derivati (come i Credit Default Swap – CDS, che prevedono “scommesse” sul rischio di default dei debitori) che minavano la solidità degli istituti bancari. Per dare maggiore stabilità all'area, fin dai primi mesi dell'anno, l'Eurogruppo, in collaborazione con il FMI e la BCE, ha realizzato numerosi piani di sostegno, che hanno previsto l'immissione di ingenti quote di liquidità (fino a un valore totale di 1000 miliardi di euro). Tali manovre non sono però state accolte bene dai mercati, che, anche in seguito ai peggioramenti del rating deciso dalle agenzie internazionali (Standard&Poor's, Moody's e Fitch), per alcuni Stati (PIGS – Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna), hanno reagito con diffidenza e provocato costanti oscillazioni dei CDS.In questo ambito, furono però realizzate alcune aste di bond europei, che hanno visto un loro facile collocamento, dando così nuovi segnali di solidità ai bilanci europei. Un ulteriore tentativo di rafforzamento è venuto da un nuovo complesso di norme (approvate dal comitato di Basilea sulla vigilanza bancaria, nel maggio 2010) per l'utilizzo di alcuni strumenti finanziari (titoli derivati o hedge funds) o pratiche operative (moral hazard): Basilea 3 ha inserito ulteriori vincoli per il rafforzamento dei requisiti patrimoniali e della liquidità delle banche. Accanto a tali norme, sono entrate progressivamente in vigore (saranno a regime nel 2020) altre regole più severe sulle deduzioni e sono stati gradualmente immessi nelle transazioni strumenti finanziari più certi. Nel settembre 2011 l'Ecofin (Consiglio Economia e Finanza dell'UE) ha annunciato la creazione di nuovi enti di vigilanza continentali (come l'European Systemic Risk Board -ESRB), che monitorino la tenuta del sistema economico dell'Eurozona. In questo quadro, i timori di contagio della crisi all'intera area euro continuano, rafforzati dalla discesa di quest'ultimo rispetto al dollaro, sottolineando, come fattore critico, l'assenza di una politica fiscale ed economica comune e di una banca centrale forte, che interagisca tra Stati connessi in un'unione monetaria.È stato quindi previsto un fondo di sicurezza da 750 miliardi di euro a garanzia della moneta unica e sono state date nuove mansioni alla BCE (che può intervenire acquistando titoli del debito sovrano dei Paesi in crisi per ridare liquidità a questi mercati). Tali azioni hanno risollevato la fiducia dei mercati mondiali, ma le profonde incertezze e divisioni interne all'Unione restano, anche provocate dall'assenza di meccanismi di controllo in caso di default di un Paese membro (che, dopo la crisi greca, appare ancora una possibilità credibile). Nel maggio 2011 la Commissione europea ha annunciato delle proposte di modifica del patto di stabilità, che implicano una più rigida sorveglianza e una più attenta regolamentazione delle politiche di bilancio degli Stati. All'inizio del 2012, un'Europa molto più vincolata di quella definita a Maastricht, in un clima di ripresa lenta dell'economia reale, ha dato timidi segni di miglioramento, grazie all'aumento delle esportazioni, ma che mostra ancora gravi perdite nella produttività generale, causate da andamenti recessivi e bassa competitività in termini di prezzi e di costi.
Economia: agricoltura, allevamento e pesca
L'agricoltura presenta panorami molto vari da Paese a Paese in rapporto, oltre che alle condizioni ambientali , agli stessi fattori organizzativi: in effetti si può dire che i problemi del settore agricolo (basti pensare ai risultati insoddisfacenti della politica agraria nell'ambito della CEE) sono profondamente strutturali. In linea di massima l'agricoltura è bene sviluppata nell'Europa centrale, sia per la sua elevata razionalizzazione sia per le favorevoli condizioni climatiche e morfologiche che incontra. Si tratta di un'area adatta alla cerealicoltura, ma oggi sfruttata soprattutto per la coltivazione dei foraggi in funzione dell'allevamento, che è fiorente e redditizio. Paesi Bassi, Danimarca, Francia, Germania e Italia padana sono in tal senso le zone di più ricca agricoltura d'Europa. L'attività agricola come supporto della zootecnia è diffusa anche nell'Europa orientale, per esempio in Polonia, Bulgaria e Ungheria, mentre nella Penisola Balcanica è largamente praticata la cerealicoltura. Nelle terre mediterranee le colture più produttive sono quelle legnose: piante da frutto (importante è l'agrumicoltura), olivi, viti. Ma qui sopravvive spesso il vecchio regime della proprietà legato al latifondo, oppure al microfondo, che non può sussistere se non negativamente in un ambiente in cui occorrono irrigazione e tecniche particolari per elevare la redditività dei suoli. La povertà dell'agricoltura mediterranea è stata all'origine non a caso della grande emigrazione verso l'America e successivamente verso le aree industrializzate dell'Europa centrale. Per quanto concerne il volume della produzione agricolo-zootecnica, l'Europa è in genere autosufficiente, con buone eccedenze dei prodotti derivati (latte, burro, conserve alimentari ecc.). Il settore dell'allevamento riguarda principalmente i bovini (ovini e caprini sopravvivono nelle aree mediterranee più povere), i suini e i volatili da cortile. La pesca è un'attività importante, su cui basano la loro economia soprattutto la Norvegia, l'Islanda, la Danimarca; ha però notevole incidenza anche nell'economia di altri Paesi dell'Europa centro-settentrionale, che trovano nel Mare del Nord e nell'Atlantico settentrionale acque assai pescose, e in Spagna. Ricca è la disponibilità di risorse forestali, specie nei Paesi scandinavi, dove esiste una sviluppatissima industria per la lavorazione del legname nonché per la produzione di carta e pasta di legno.
Economia: risorse minerarie e industrie
Le risorse minerarie sono varie, ma solo alcune abbondanti . Il carbone è presente in cospicui giacimenti nella Gran Bretagna, nella Francia settentrionale, nel Belgio, nella Germania e nella Slesia; i grandi bacini carboniferi di queste regioni sono divenuti anche aree industriali tra le maggiori del mondo. L'Europa è invece carente per quanto riguarda gli idrocarburi: essa spende un'ingentissima parte delle sue ricchezze proprio per l'acquisto del petrolio, con il quale aveva avviato una vera e propria riconversione industriale, abbandonando in parte il carbone come fonte energetica. Ciò ha indotto a ricercare, oltre a una rivalutazione del carbone, fonti d'energia alternativa, il che ha portato alla realizzazione di numerose centrali elettronucleari (in particolar modo in Francia). Lungo le coste d'Europa operano molteplici raffinerie; navi petroliere gigantesche vi approdano e costituiscono una parte imponente della flotta europea. Mentre il ruolo della Romania, che è stata il primo Paese petrolifero del continente, è ormai molto modesto, giacimenti di notevole consistenza si trovano nel Mare del Nord (specie nelle acque territoriali della Gran Bretagna e della Norvegia), dal quale provengono anche notevoli quantitativi di gas naturale, estratto pure nei Paesi Bassi, in Romania, in Italia ecc. Il potenziale d'energia idrica si concentra per gran parte nella regione alpina e nella penisola scandinava, dove però è stato ormai in larga parte sfruttato. Il problema dell'energia resta quello più importante per l'Europa, che deve la sua forza economica alle industrie di trasformazione: infatti, nonostante il suo potenziale industriale, il consumo pro capite è in media ca. pari alla metà di quello degli USA (anche grazie, però, a un'assai maggiore efficienza energetica dei processi produttivi). I minerali metallici sono presenti in gran numero, benché non certo in misura sufficiente data la richiesta enorme delle industrie. Notevoli sono le risorse di minerali ferrosi, che si trovano soprattutto in Francia (bacino lorenese), in Polonia, in Gran Bretagna e in Svezia. Forti quantitativi sono però importati da oltre oceano; in funzione di ciò è sorta quella “siderurgia costiera”, ben sviluppata per esempio in Italia e nell'Europa affacciata ai mari settentrionali. La potente industria siderurgica europea ha i suoi maggiori centri in Germania, in Francia, in Italia, in Gran Bretagna, in Polonia, quindi in Belgio, Cecoslovacchia, Romania, Spagna, ecc., e fornisce una quota piuttosto considerevole (un quarto) dell'acciaio mondiale: nell'Europa comunitaria, durante gli anni Ottanta, essa ha comunque subito un'estesa ristrutturazione che ne ha ridotto le dimensioni produttive e ancor più occupazionali. La grande produzione siderurgica e metallurgica è al servizio di un'industria meccanica sviluppatissima e largamente differenziata: in particolare l'industria degli autoveicoli (un terzo della produzione mondiale) è imponente e ha un mercato vastissimo; antica tradizione ha quella navale. L'industria elettrotecnica è del pari ben rappresentata, anche se non può competere nel settore elettronico e dell'automazione con le analoghe industrie statunitensi e giapponesi, che sono tecnologicamente all'avanguardia, e sta subendo i contraccolpi della comparsa di nuovi competitori, l'India su tutti. Anche se tutta l'industria europea nel suo complesso ha subito pesantemente i contraccolpi delle crisi energetiche, sono stati proprio questi settori (siderurgico, metalmeccanico, cantieristico ecc.) a risentirne maggiormente. Le industrie europee svolgono un ruolo di primo piano in numerosi altri settori e molte hanno dimensioni imponenti: ciò vale per quella chimica, la farmaceutica, la tessile e l'alimentare, che in certi Stati vanta antiche tradizioni ed è tra le più avanzate del mondo. Fama internazionale, basata su tipi di lavorazione di origine anche ultrasecolare, hanno alcuni prodotti (per taluni figura ottimamente pure l'Italia) come le porcellane, i cristalli e le ceramiche artistiche, gli strumenti musicali, i manufatti d'alta moda, gli oggetti di oreficeria ecc. Ben sviluppato, infine, è anche il settore terziario, specie per alcuni servizi, di cui l'Europa è uno dei massimi esportatori. Ne fanno parte un comparto finanziario di notevoli dimensioni, con vertici nelle borse di Londra, Francoforte e Parigi, e uno turistico proporzionalmente ancor più rilevante: questo vede la propria forza nel ricco patrimonio culturale delle città europee come nella varietà dei paesaggi montani e marittimi, in cui si sono sviluppate grandi capacità ricettive, qualificando il continente, e in particolare il suo fronte mediterraneo (Italia, Grecia, Francia e Spagna, da sole, attirano oltre 200 milioni di turisti l'anno), come la prima regione a livello mondiale.
Economia: comunicazioni
L'Europa ha un complesso di vie di comunicazioni molto sviluppato, che comprende, oltre a una fitta rete stradale e ferroviaria, vie navigabili di intenso traffico: in particolare nell'Europa centrale fiumi e canali formano oggi una trama continua dalla Francia al Belgio, ai Paesi Bassi, alla Germania che potrebbe collegarsi a quella dell'Europa orientale. Tra le vie d'acqua interne il Reno (dai primi anni Novanta collegato, tramite il Meno, al Danubio e quindi all'Europa balcanica e al Mar Nero) è senz'altro la più importante, in quanto interessa la sua parte più industrializzata, cui fa capo tutta l'area centreuropea. Sbocco naturale di quest'area sono i Paesi Bassi, dove si trova Rotterdam, il cui porto ha mantenuto per molti anni la leadership mondiale per volume di traffici, primato passato all'inizio degli anni Duemila ai porti di Singapore e Shangai. Gli altri grandi assi delle comunicazioni europee hanno una direzione analoga, nel senso che collegano i porti con le zone interne industrializzate: così è per Amburgo, alla foce dell'Elba, nei confronti di gran parte dell'Europa centrale; per Genova rispetto al triangolo industriale padano; per Marsiglia, sbocco del distretto lionese ecc. In senso trasversale le comunicazioni sono meno importanti, ma anch'esse ben sviluppate, sia con canali (per esempio, il Mittellandkanal, dall'Elba al Reno) sia con strade e ferrovie che si sviluppano lungo le antiche vie dell'espansione germanica verso E e, nell'area mediterranea, sulle vecchie strade romane. Molto importanti sono i dieci “corridoi” ferroviari definiti strategici dalle Conferenze di Creta (1994) e Helsinki (1997). Uno di questi, il cosiddetto “corridoio V” interessa l'Italia ed è diventato uno dei punti caldi del dibattito politico che ha coinvolto amministratori locali e cittadini dei Comuni situati lungo il tracciato previsto per la TAV.Un tessuto autonomo di vie d'acqua, di strade e ferrovie ha la Gran Bretagna; i perni di tale rete sono i grandi porti, centri delle passate fortune economiche del Paese: Londra in primo luogo, poi Liverpool al servizio dei Midlands ecc. L'ostacolo maggiore alle comunicazioni tra Europa settentrionale e meridionale è sempre stato rappresentato dalle Alpi, oggi superate però con un buon sistema di gallerie ferroviarie e stradali, che hanno abbreviato le distanze. Verso E la rete stradale e ferroviaria si dirada in relazione alle maglie più larghe del tessuto antropico. Nel complesso l'Europa occidentale è dotata del più fitto sistema di strade e ferrovie del mondo, la cui elevata intensità di traffico è in funzione non solo degli scambi commerciali ma anche dello sviluppato consumismo. Possiede pertanto un'importante rete autostradale, che collega tutti i Paesi continentali. Nell'ultimo trentennio del Novecento si è costituita inoltre una rete di oleodotti e di gasdotti destinata a divenire intercontinentale. I trasporti aerei hanno un'importanza primaria per l'Europa dato il raggio mondiale dei suoi interessi: Londra, Parigi, Francoforte, Madrid, Amsterdam, Roma ecc. sono i maggiori nodi della rete europea.
Economia: commercio
In rapporto al carattere della sua economia, l'Europa ha attività commerciali intensissime. Nel quadro mondiale essa, al pari dell'America Settentrionale e del Giappone, ha il ruolo di grande area altamente industrializzata che importa materie prime, soprattutto dai Paesi del Terzo Mondo, e manufatti, dalle altre due aree industrializzate, ed esporta ovunque i suoi elaborati prodotti industriali. A questa caratteristica funzione strutturale del commercio europeo si aggiungono gli scambi all'interno dell'Europa stessa, tra Stati che hanno capacità produttive diverse o specializzazioni economiche peculiari; sono scambi molto complessi date le strutture di integrazione dell'economia europea, specie all'interno dell'Unione Europea. Il nucleo economicamente forte del continente genera infatti, ancora agli inizi del Duemila, il 40% ca. dell'interscambio mondiale. Movimenti commerciali fra gli Stati della Comunità europea e quelli dell'ex COMECON si sono intensificati durante gli anni Settanta: al movimento di materie prime provenienti dall'Est (soprattutto energetiche) e dall'Unione Sovietica è corrisposto in direzione opposta quello di una vasta gamma di prodotti dell'industria automobilistica, chimica, petrolchimica, meccanica di precisione, elettronica ecc. I primi accordi di cooperazione e cessione di taluni impianti di produzione (fra i più noti quelli del settore dei mezzi di trasporto), contrattati a livello di pubbliche autorità, sono stati seguiti da investimenti diretti di società occidentali in imprese locali, più spesso secondo la formula della joint-venture. La conversione di tali economie al sistema capitalistico di mercato, che ha determinato la dissoluzione del COMECON, malgrado talune incertezze e difficoltà, ha incentivato l'ingresso in esse di capitali esteri (con parallela creazione di mercati borsistici) preludendo a una significativa crescita nel lungo periodo dell'interscambio con il resto dell'Europa. Meno intensi gli scambi con il Giappone; data la competitività dei prodotti giapponesi, la CEE infatti, negli anni Ottanta, ha cominciato ad adottare misure protezionistiche nei confronti delle economie asiatiche. Dopo l'ingresso della Cina nel WTO (Organizzazione Mondiale del Commercio), avvenuto alla fine del 2001, questo Paese è diventato uno dei principali partner commerciali, anche se, per ora, la bilancia commerciale verso la Cina rimane assai squilibrata in attesa che la creazione di un ampio mercato interno al colosso asiatico permetta ai prodotti europei di trovare uno sbocco. Infine i rapporti commerciali con i Paesi in via di sviluppo sono sempre rilevanti, anche in dipendenza del fatto che le ex potenze coloniali non hanno perduto i legami con le ex colonie: a esse destinano talora aiuti finanziari, ma in genere prevalgono gli investimenti in attività redditizie. In un bilancio economico globale rientrano infine gli apporti e le perdite di capitali indotti dal turismo.
Preistoria
La preistoria più antica dell'Europa ha inizio intorno a un milione di anni fa. Materiali sporadici o isolati, ma anche giacimenti più cospicui, di età compresa tra 1.000.000 e 800.000 anni, sono stati segnalati in diverse nazioni. Il continente europeo è quello che, fino a oggi, ha reso il più alto numero di reperti litici, soprattutto perché è quello più esplorato fin dal sec. XIX; anche i nomi più noti dati alle culture rappresentate da tali reperti sono restati a designare reperti analoghi di altre parti del mondo. Al Paleolitico inferiore risalgono gli utensili della pebble culture, le amigdale abbevilliane e acheuleane, gli scheggioni clactoniani la cui vetustà è dimostrata dalla posizione stratigrafica e dall'associazione con resti di fauna estinta. Altrettanto numerosi sono i resti del Paleolitico medio, specie di tipo musteriano e levalloisiano, del Mesolitico e del Neolitico. Del Paleolitico superiore si ricordano le culture Perigordiana, Aurignaziana, Gravettiana, Magdaleniana e Solutreana, che si distinguono per i manufatti litici molto differenziati e per la fioritura dell'arte preistorica. Le stazioni paleolitiche in Europa sono distribuite in molte zone dall'Atlantico al Mar Caspio. In Francia si riscontrano soprattutto in Provenza, nei Pirenei, nelle valli della Somme, della Senna, della Charente e della Garonna. Per l'intensità delle ricerche compiute da questo Paese, che in molte zone risalgono al sec. XIX, numerose facies culturali prendono il nome da giacimenti per lo più francesi. In Italia, stazioni paleolitiche si ritrovano, con reperti più arcaici, in Emilia, Abruzzo, Marche, Lazio, Basilicata e Sicilia, e con quelli musteriani e del Paleolitico superiore, sia in grotte sia all'aperto, in Veneto, Liguria, Abruzzo, Lazio, Puglia, Campania. Le zone più ricche della Penisola Iberica sono gli altopiani centrali e le regioni pirenaiche; per la Germania occorre ricordare i ritrovamenti di Lipsia, Amburgo, Weimar e quelli della valle di Neander; di notevole interesse le testimonianze dell'Austria, specie quelle di Willendorf. Tra i molti giacimenti paleolitici della regione russa sono notevoli quelli sulle rive del Mar Nero, nelle valli del Dnepr e del Dnestr, in Crimea, in Ucraina e nel Turkestan. Parimenti per la Repubblica Ceca (Moravia e Boemia) e la Slovacchia notevoli sono le stazioni, sia in grotta sia all'aperto. Strumenti paleolitici sono stati trovati in elevato numero anche in tutta l'Europa balcanica, in stazioni della Romania e in varie grotte in Bulgaria, Ungheria e nei Paesi della ex Iugoslavia. Del periodo Mesolitico, caratterizzato da strumenti microlitici e geometrici e da rozzi arponi, sono, in Europa occidentale, le culture del Sauveterriano, del Tardenoisiano e dell'Aziliano e nell'Europa settentrionale dell'Ahrensburghese e del Maglemosiano. Si ritiene che processi di neolitizzazione si siano svolti in diverse parti dell'Europa, a partire dal VII millennio a. C.; alcune specie di piante e animali domesticati sembrano comunque essere stati introdotti, nello stesso periodo, dal Vicino Oriente in Grecia e da qui nella Penisola Balcanica e nel resto del continente. Nel IV millennio a. C. l'economia produttiva sembra aver soppiantato ovunque quella basata sulla caccia e sulla raccolta. La fine del IV millennio e la prima metà del III sono caratterizzati da alcuni fenomeni di grande importanza nell'evoluzione delle comunità preistoriche europee: l'inizio della metallurgia del rame, la diffusione del megalitismo, l'adozione dell'aratro a trazione animale. Le conseguenze più importanti sono l'intensificazione dei contatti intra- e interregionali e il formarsi, nell'ambito delle comunità tribali, di lignaggi differenziati, indiziati dalla comparsa delle prime sepolture di guerrieri. La lavorazione del bronzo è attestata dalla fine del III millennio a. C., periodo a cui sembra risalire anche il primo sviluppo della policoltura mediterranea (coltura della vite e dell'olivo). L'ampia area di distribuzione delle ceramiche della facies culturale del vaso campaniforme è stata messa in relazione con l'emergere di vere e proprie élites. Ciò segna l'inizio del processo che porta allo sviluppo, nel corso del II millennio a. C., di società rette da capi (chiefdoms), in cui è evidente l'importanza di elementi culturali legati al prestigio, al rango e alla gerarchia sociale. Di grande importanza, per lo sviluppo socio-economico delle comunità protostoriche europee, è l'ampia rete di contatti stabilita, a partire dal sec. XVI a. C., con la civiltà micenea, il primo sistema “statale” che compare nel continente. La tarda Età del Bronzo è caratterizzata dalla diffusione del rito funerario dell'incinerazione e di aspetti rituali e simbolici che indicano il trapasso da una religiosità di tipo naturalistico a una più complessa, con elementi di antropomorfismo. La fase avanzata della prima Età del Ferro vede, accanto allo sviluppo delle culture protostoriche della Grecia e dell'Italia (alcune con tratti spiccatamente protourbani e protostatali), la comparsa in gran parte dell'Europacontinentale di un insieme di facies culturali che presentano un notevole grado di affinità tra loro, afferenti alla civiltà di Hallstatt. Alla diffusione della lavorazione del ferro si affiancano nuovi fenomeni di differenziazione sociale che si sviluppano ulteriormente nel corso della successiva civiltà di La Tène, contraddistinta dalla fioritura della civiltà celtica.
Storia: mondo greco-romano
Le origini storiche dell'Europa – come complesso di popoli in area geograficamente definita con comunanza di cultura, di organizzazione, di destino – risalgono alla contrapposizione delineatasi fra le città greche e l'Impero persiano nel sec. V a. C. Fin da principio i suoi elementi etnici e il suo ambito geografico sono mutati sia in connessione con le vicende politiche e le potenze egemoniche affermatesi attorno al Mediterraneo, con varia preminenza dell'Oriente o dell'Occidente, del Nord o del Sud, sia nel significato attribuito nei diversi tempi all'Europa da politici, giuristi, teologi. Il momento della contrapposizione si accompagna nella realtà storica dell'Europa con una consapevolezza di superiorità di organizzazione, di valori etico-religiosi e di cultura. I popoli che si sono riconosciuti parte dell'Europa come unità culturale e politico-religiosa sono stati diversi, e diverso è stato il loro impegno in questa unità, diversa l'assimilazione delle istituzioni europee come la loro anzianità quali europei. L'Europa nasce dunque come comunità politica, culturale, religiosa delle città greche in antitesi all'Asia dell'Impero persiano: essa si caratterizza come un territorio dai molti piccoli Stati, retti da liberi ordinamenti popolari, di contro all'Asia costituita in un impero unitario, governato dispoticamente: l'Europa è impegnata a difendere terra e cultura in epiche lotte, narrate da storici (Erodoto) e rievocate da poeti (Eschilo, Persiani). Essa, in antitesi all'Asia, dapprima ristretta all'Ellade con gli arcipelaghi, si allarga poi alla Macedonia, in seguito all'inserimento di Filippo II di Macedonia nel sistema delle alleanze e rivalità delle città greche (356-336 a. C.). I tratti dell'Europa identificantesi con l'Ellade si affievoliscono nell'Impero di Alessandro Magno (336-323 a. C.) a causa del progetto del Macedone di fondere la civiltà greca con quella persiana e dello spostamento da lui avviato del centro politico-culturale della civiltà europea a Oriente. I regni dei successori di Alessandro Magno (diadochi), Tolomei in Egitto, Seleucidi nella Mesopotamia, Attalidi a Pergamo, attuavano in notevole misura codesta sintesi greco-orientale nella cultura ellenistica durante i sec. III-II a. C., allargando sfera e contenuto della civiltà greca. Intanto si veniva costituendo a Occidente nella penisola italiana attorno a Roma un altro centro politico della civiltà d'Europa, il quale, nella sua espansione nel bacino del Mediterraneo e attorno a esso, andrà attraendo nella sua sfera egemonica non solo territori, ma anche idee religiose, culti, tradizioni culturali, tecniche di produzione e di scambio. Tra queste Roma accoglieva primariamente quelle dell'Ellade, allargate nella simbiosi greco-orientale della civiltà ellenistica. Con essa Roma assimilava anche l'orgogliosa differenziazione ellenica dai “barbari”, da quanti erano da loro differenti per lingua e stirpe, per civiltà e religione, per sistemi di governo. In tal modo i Romani consideravano barbari tutti i popoli che non erano di civiltà greco-romana e, più tardi, quelli che non abitavano entro i confini dell'Impero romano. L'Europa, come unità politico-culturale, si identificava così con l'Imperium romanum nei vasti confini da questo raggiunti alla svolta fra il sec. I e il II d. C., all'epoca di Traiano: e continuava a essere una realtà geografica e politica. Questa però era esposta a mutamenti per le forze interne in tensione a causa del sistema di nomina dell'imperatore augusto (adozione, nomina senatoriale, elezione da parte di eserciti di guarnigione a Roma e, più tardi, di quelli stanziati in regioni periferiche, in Gallia, in Pannonia, in Oriente). Identificata con l'Impero romano, subiva inoltre la pressione delle forze esterne: dapprima in Oriente, a opera dei Parti, poi anche sul Danubio e sul Reno. Un'Europa siffatta viene così perdendo la sua compattezza e centralità: la cittadinanza romana elargita a tutti gli abitanti liberi dell'Impero (Editto di Caracalla, 212) riduce la tradizionale egemonia dell'Urbe e dell'Italia: attraverso la carriera militare arrivano al vertice del potere personalità delle province; l'ordine interno si incrina e con esso entrano in crisi produzione e commercio. Una religione nuova, il cristianesimo, dal vigore proselitistico indomabile, sfida il culto imperiale, che era considerato il sostegno religioso dell'auctoritas statale. Sempre più si affermano tendenze particolaristiche nelle parti periferiche, a nord-ovest in Gallia, a sud nell'Africa, in Oriente e non solo in queste; di conseguenza l'Europa coincidente con l'Impero romano si divide dapprima nell'organizzazione amministrativa, poi anche nella struttura politica di vertice. Dalla tetrarchia instaurata da Diocleziano (293), in meno di un secolo si passa al consolidamento della bipartizione dell'Impero in Occidentale (capitale Roma) e Orientale (capitale Costantinopoli), con una consapevolezza di unità ideale e politica pur nelle differenze via via più emergenti di destino, di vigore interno, di sistemi amministrativi, di organizzazione economica, di tenore di vita e di struttura sociale.
Storia: l’Europa romano-germanica
Questa divisione tra Oriente e Occidente, nell'Europa dell'antichità declinante – che si riconosce nella romanità quale simbiosi di cultura greca, giure romano e religione cristiana – accentua le differenze: vi si contrappongono, come centri politici, Roma e Costantinopoli, come centri religiosi, il Papato con dietro la Chiesa d'Occidente e i Patriarcati d'Oriente, l'una con il latino nella liturgia e nell'istruzione, gli altri con il greco; e, non ultime, le tradizioni popolari greco-ellenistiche e la latinità che viene assorbendo elementi del germanesimo. E questo perché il centro di gravità dell'Europa si è venuto spostando verso Occidente, dove l'elemento germanico si è più vigorosamente insediato costituendovi regni romano-germanici in Gallia, Spagna, Germania e Italia con elementi comuni che si richiamano alla tradizione romana dei territori . Sulla fine del sec. VI il dotto Isidoro di Siviglia menzionava come territori precipui dell'Europa l'Italia, la Gallia, la Germania e la Spagna. La parziale e temporanea ricomposizione dei territori della romanitas da Oriente con Giustiniano (527-565) significa solo il rinvigorimento della componente bizantina dell'Europa. Alla fisionomia di quest'ultima conferisce un nuovo tratto la sua tensione bellica, oltreché religioso-culturale, con la nuova potenza musulmana che s'è inserita nella sfera della romanità da sud con suggestioni che faranno anche di essa un elemento dell'Europa. In questo quadro è venuta maturando una profonda trasformazione dell'economia e della società: il potere economico, soprattutto agrario, si è venuto identificando con quello politico-amministrativo-militare; i centri di attività agraria (le villae) hanno assunto sempre più il carattere di nuclei sociali autonomi, introducendo così il sistema feudale con le sue curtes, le sue immunità, le sue gerarchie sociali. L'Europa così ristretta all'Occidente assume più netta fisionomia storica nell'Impero carolingio, da cui si può far iniziare l'Europa del Medioevo.
Storia: il Sacro Romano Impero
L'Impero carolingio era il risultato delle conquiste dei Pipinidi sugli altri popoli romano-germanici dal sec. V al sec. VIII e, nel contempo, del loro impegno nell'espansione del cristianesimo, primariamente nelle regioni conquistate dall'Islam, ma anche nei riguardi dei pagani di stirpe germanica, slava, scandinava. Esso ricostituiva l'unità dell'Occidente stringendosi fortemente al Papato quale forza egualmente unitaria. L'unzione del re dei Franchi Carlo Magno, da parte di papa Leone III, gli attribuiva un carattere sacrale, facendone insieme un protettore, interessato, della Chiesa. Prendeva così forma un'Europa latino-germanica che accentuava la sua differenziazione dalla civiltà bizantina. Quest'ultima continuava a vivere di elementi propri, con un proprio raggio di espansione, in un territorio definito, così da costituirvi un'Europa d'Oriente bizantino-slava di contro a quella latino-germanica. In questa si sviluppava il sistema feudale, che aveva avuto i suoi avviamenti già nel tardo Impero romano con l'estendersi dei latifondi e con il diffondersi della pratica, da parte dei piccoli proprietari, di cedere a “patroni” le loro terre in cambio di protezione. Il commercio diminuisce, le città si spopolano; si afferma nel grande possesso fondiario l'economia curtense, che tende all'autosufficienza, ospitando anche i mestieri che producono beni di necessità. In tal modo la proprietà fondiaria, anche per il sistema fiscale, diventa la base del potere amministrativo e politico. E, viceversa, il potere politico-militare-amministrativo si concreta in possesso fondiario, in feudi elargiti ai fedeli (comites) dai sovrani con obblighi di servizio, precipuamente militare, ma anche con esenzioni dal potere centrale (immunità). La struttura unitaria dell'Impero carolingio sia per il sistema di divisione dell'eredità (e le connesse controversie, anzi guerre civili), sia per le differenziazioni etniche, sia per le pressioni esterne di Arabi, Magiari, Scandinavi e Slavi, si incrina ben presto. Il centro dell'Europa latino-germanica subisce dislocazioni: inoltre fin dall'843 essa accentua le sue diversità etniche nei tre regni dell'Ovest, dell'Est e di Italia-Lotaringia. È il preludio dell'Europa delle nazioni. Quest'Europa latino-germanica si espande a opera della Chiesa, ma con l'appoggio energico e interessato dei sovrani: entrano così in essa Angli, Celti e Scandinavi a nord, Slavi e Magiari a est e sud-est, dove si fa sentire anche l'influsso religioso-culturale bizantino. Sotto la direzione degli Ottoni (962-1002), l'Europa occidentale ritrova un certo consolidamento: l'impero di nazione germanica controlla il Papato e promuove energicamente l'espansione a est e a nord; cerca inoltre di riaffermare il suo potere nel Sud anche mediante combinazioni matrimoniali con Bisanzio: Ottone III vagheggia una “rinnovazione dell'Impero di Roma” nell'accordo con il Papato, esprimendo così una viva coscienza dell'Europa come unità culturale. Ma a questo si contrappone il particolarismo crescente del sistema feudale in cui assume forte rilievo la feudalità ecclesiastica.
Storia: l’egemonia del Papato
L'Europa latino-germanica dalla seconda metà del sec. XI ha il suo centro, oltre che religioso-morale, anche politico-giuridico nel Papato romano. Questo fa propria la direttiva della riforma ascetico-monastica che impone celibato e indipendenza dal potere laico al clero secolare, a quello stesso ch'era investito di feudi. La “lotta delle investiture” (1076-1122), che si conclude con un compromesso, contribuisce da un lato a sminuire il prestigio dell'Impero, che perde il suo carattere sacrale; dall'altro a fare del Papato l'autorità preminente dell'Europa. Esso infatti assurge a suprema istanza nelle controversie tra pretendenti a corone; non pochi di essi, per averne l'appoggio e la legittimazione giuridica, si riconoscono “vassalli” della Santa Sede (Ungheria, Polonia, Croazia, Castiglia, a un certo momento la stessa Inghilterra). Le decretali papali diventano legge comune in quell'Europa cristiana. E i conflitti che riemergono tra Papato e Impero con Federico I di Svevia (1152-90) e con Federico II (1212-50) non modificano sostanzialmente l'egemonia morale europea di Innocenzo III e di Gregorio IX. Le crociate dei sec. XI-XIII nelle diverse direzioni (verso la Terra Santa, ma anche verso la Spagna islamica e gli Slavi pagani del nord-est) sono di iniziativa e di direzione papale, anche se tendono presto a fini territoriali ed economico-politici, comunque segnando in ogni direzione l'allargamento dell'Europa cristiana. Pure sotto il segno del Papato rinasce la cultura nelle università con privilegi pontifici; nuovi ordini religiosi (cistercensi, francescani, domenicani) diffondono nel clero e nel popolo un nuovo fervore religioso-caritativo, dando impulso alle arti figurative in nuovi stili e creando nuovi centri di intensa vita religiosa, caritativa, culturale. Anche la rinascente civiltà comunale dell'Europa (prima in Italia e poi in Francia, Fiandre, Renania) valorizza l'autorità politica e morale del Papato, appoggiandosi a esso nella rivendicazione e difesa delle sue libertates, delle sue autonomie, analoghe a quelle avanzate dalla Chiesa nelle sue lotte contro l'Impero. Quest'Europa papale si è così venuta allargando a nord e a est tanto nell'ordine politico, quanto in quello religioso e si mostra capace di assorbire le dissidenze che in essa emergono: sia quelle politiche dovute al costituirsi di Stati nazionali in Francia, Inghilterra, Castiglia, Aragona e simili, sia quelle religiose di patarini, valdesi, catari; con l'azione religioso-apologetica, ma anche con quella repressiva, affidata talora al duro braccio secolare di principi interessati, come quella contro gli albigesi della Francia meridionale.
Storia: il declino della christianitas
Con il sec. XIV quest'Europa latino-germanica entra in una crisi di sviluppo: l'elemento unitario della christianitas si affievolisce sul piano politico-giuridico e, in parte, su quello culturale a motivo della decadenza dei due poteri che in un certo senso lo rappresentavano: dell'Impero, già in via di dissoluzione alla fine del sec. XIII; del Papato, prima con la sede trasferita ad Avignone (1309-77), poi dilaniato dallo Scisma d'Occidente (1378-1417) e insidiato dal conciliarismo. Si sviluppano con crescente dinamismo le forze particolariste: quelle degli Stati nazionali con proprie dinastie, lingue, letterature; quelle della cultura sollecitate fra l'altro dall'umanesimo. Ma nel contempo si delineano nuovi motivi di unità: i commerci si allargano al Nord e tentano le vie marittime verso est, aumentando la quantità degli scambi, sollecitata a sua volta dal più alto tenore di vita; case bancarie stendono una rete vastissima di negoziazioni per trasferimenti di danaro, per anticipi su redditi, per prestiti a sovrani e principi, a papi e vescovi, finanziando inoltre imprese minerarie, commerciali e marittime. Nella cultura stessa l'umanesimo, se da un lato concorre a mettere in crisi la scolastica, dall'altro si avvia a costituire un nuovo elemento unitario che caratterizzerà sempre di più l'Europa sotto il segno del Rinascimento. E se l'Europa perde a sud-est altre regioni per l'avanzata degli Ottomani, acquisisce con Ivan III il Grande la Russia slavo-tatara, che rivendica l'eredità patriarcale di Costantinopoli presa dai Turchi (1453). E già Enea Silvio Piccolomini nella sua Cosmografia a metà del Quattrocento aveva compreso nell'Europa la cristianità greco-ortodossa, rinnovando la contrapposizione antica Europa-Asia, ora dominata dagli “infedeli”.
Storia: la nascita dell’Europa moderna
Gli elementi di tensione già attivi nel basso Medioevo si dispiegano con maggior vigore ed efficacia nell'Europa moderna mentre essa dilata la sfera della sua azione e vede aumentare i suoi protagonisti: essi agiscono come forze di rottura, avviandosi però anche a nuove combinazioni che restaurano la comunità europea. Negli assestamenti delle rotture emergono infatti nuovamente motivi d'incontro che vengono a sostituire quelli religioso-chiesastici e politico-giuridici che sostanziavano l'Europa cristiana del Medioevo. Questi si avvertono non solo nella vita economica, negli ordinamenti interni degli Stati e nella cultura, ma nelle stesse Chiese divise nei rapporti internazionali: sono elementi vissuti come antitesi, che si svolgono talora parallelamente, ma che trovano anche convergenze. Da questi uscirà il nuovo volto dell'Europa politica degli Stati nazionali con tendenze egemoniche, controllate però sempre più energicamente da alleanze a difesa degli equilibri: l'Europa religiosamente divisa, ma con aspirazioni di riconciliazione, l'Europa del Rinascimento, delle accademie letterarie della “nuova scienza” e della nuova filosofia, che culminerà nell'illuminismo, l'Europa del barocco e del rococò, l'Europa egemone nei traffici marittimi sempre più estesi anche fuori di essa, fonti di ricchezze rapide ma anche di rivalità tenaci, esclusive, spietate. Nelle coscienze religiose e nella struttura ecclesiastica, quale sviluppo radicale delle istanze di riforma del basso Medioevo, sorgono, sotto l'influsso di vigorose personalità (Lutero, Zwingli, Calvino, Münzer, i Socini) con diversa esperienza religiosa e in particolari condizioni di ambiente, differenti “Chiese” cristiane, che, in opposizione alla Chiesa cattolica, richiamandosi al “puro” Vangelo, si ritengono genuinamente “evangeliche”. Taluni principi e talune città-Stato della Germania e della Svizzera appoggiano la ribellione antiromana, reprimendo però le correnti più radicali sia sul piano religioso sia su quello sociale (gli anabattisti delle campagne nella guerra dei contadini, 1524-25, i proletari urbani fautori del “regno dei santi” a Münster, 1535); prima fase, questa, delle guerre civili-religiose che dilanieranno pure le Fiandre, la Francia, la Polonia. Sotto lo stimolo della Riforma protestante la Chiesa romana accelera e intensifica la propria rinnovazione interna in spirito ascetico-devoto e il rinvigorimento delle sue strutture in senso autoritativo e repressivo, respingendo dottrine e istanze dei riformatori (Concilio di Trento, 1545-63). I papi che si succedono da Paolo III a Urbano VIII, assecondati da vescovi zelanti, dai vecchi ordini religiosi riformati, dalle nuove congregazioni religiose (barnabiti, cappuccini, gesuiti, oratoriani e simili) ma anche da sovrani rimasti fedeli alla vecchia Chiesa (Filippo II di Spagna), dirigono con energia l'opera di restaurazione interna assieme a quella di controriforma e di riespansione del cattolicesimo . Essa realizza grandi conquiste nelle colonie extraeuropee delle potenze cattoliche, ma in Europa riesce soltanto a circoscrivere le perdite subite con la secessione protestantica. Nei singoli Stati la Chiesa deve subire sempre più vigoroso il controllo del principe, sotto forma di protezione e di paternalistica promozione degli interessi spirituali dei sudditi. Le nuove Chiese non tardano a essere travagliate a loro volta da controversie teologiche, che portano a ulteriori scissioni e alla creazione di “Chiese libere” o “sette” accanto alle Chiese ufficiali e a posizioni di dissenso (arminianesimo, unitarianismo, pietismo, metodismo) respinte e represse dalle nuove ortodossie (luterana, calvinista, anglicana). E anche la Chiesa cattolica nei sec. XVII e XVIII è nuovamente provata da movimenti di dissidenza (giansenismo, quietismo, febronianesimo) che presentano affinità con dottrine protestanti. L'Europa delle Chiese cristiane, in cui non cessa la nostalgia della riunificazione (Bossuet, Leibniz), entra in una crisi più profonda quando, nel sec. XVIII, è investita dalla critica razionalistica dei “filosofi” contro superstizioni e imposture. Sotto il loro influsso élites della società si distaccano spiritualmente dalle Chiese e i sovrani “illuminati” accolgono l'idea della tolleranza religiosa (Federico II di Prussia, Giuseppe II d'Austria). Nelle arti e nella cultura l'Europa moderna, sempre più sotto l'insegna del Rinascimento, accentua il distacco dalla scolastica e dal gotico nel modo di osservare e di pensare, nella maniera di rappresentare la realtà e di dar forma alla bellezza. Il Rinascimento dall'Italia, sede della sua prima e più splendida manifestazione, si irradia in tutta l'Europa improntando di sé, oltreché le letterature e le arti, la religione, la filosofia, la teoria politica e la tecnica di governo. Superando la fase umanistica dell'imitazione, scrittori, artisti e filosofi riescono a produrre opere originali. La Controriforma incoraggia gli artisti su questa strada: al classicismo si viene sostituendo un'arte più espansiva, più efficace nell'impressionare le masse. Negli schemi ereditati dalla cultura si inserisce la nuova scienza collegata con la filosofia della natura (Keplero, Galilei, Newton). Essa con le correnti innovatrici della filosofia, che contestano insieme idee e istituzioni ricevute, contribuisce a determinare quella che è stata chiamata “la crisi della coscienza europea”. La cultura nell'età del barocco ha il suo centro nella Spagna; dislocandosi, assieme all'iniziativa politica, nella Francia del “Re Sole” Luigi XIV e nella sua reggia di Versailles, il barocco diventa dominio di un'aristocrazia scioperata, galante, frivola. Proprio in quest'atmosfera il barocco degenera nel rococò dalle mille grazie, gaio, con venature di spiritualità e insieme di scetticismo, con tendenze cosmopolitiche, conquistando le corti principesche minori come una moda. Ma accanto a tale rococò, che importava costume e arti figurative e si affezionava sempre più alle esotiche cineserie, si veniva affermando, con ben altra serietà e interiore energia, l'illuminismo della cultura e delle accademie con le sue istanze critiche: e queste erano di larga risonanza nell'Europa tutta, da Madrid a Pietroburgo, da Parigi a Vienna, preannunziatrici di una nuova Europa dalle ardite teorie sociali e dalle radicali esperienze rivoluzionarie. § Nelle strutture statali e nella politica interna l'Europa si caratterizza per l'avvio, con ritmo e fortune diverse, all'assolutismo. Dapprima si può osservare un certo bilanciamento di potere tra il principe, che tende ad amministrare soltanto con i suoi consigli, e il popolo, organizzato nei ceti tradizionali rappresentati dalle rispettive assemblee (stati). Più che equilibri, si hanno tensioni: nei principati d'Italia, in Spagna, in Francia il principe riesce a esautorare i ceti. L'inverso avviene in Svizzera e nei Paesi Bassi, dove i ceti si emancipano dal sovrano costituendosi in libero governo. Però qui, come nelle città-Stato italiane di Venezia e Genova, governo e assemblee si irrigidiscono in oligarchie che sono insieme politiche, economiche e sociali. La giustificazione dell'assolutismo è dapprima religiosa (il “potere di diritto divino”); più tardi nel sec. XVIII si delinea quella del “servizio del popolo secondo ragione” e l'assolutismo illuminato (Federico II di Prussia, Carlo III di Spagna, gli Asburgo-Lorena) con le sue riforme amministrative, ecclesiastiche e giudiziarie riesce a eliminare le residue autonomie di ceti e territori. § Nel campo dell'economia l'Europa moderna si caratterizza per l'espansione commerciale d'oltremare, che dà luogo a una lotta accanita degli Stati europei per il dominio degli oceani, delle loro rotte, delle loro coste; dapprima tra Portogallo e Spagna, poi tra Inghilterra e Olanda, tra loro alleate contro Spagna e possessi portoghesi ridotti sotto la corona spagnola (1580-1640). Portoghesi, Spagnoli, Inglesi, Olandesi e infine Francesi fanno ressa per dividersi mari e terre: e vi organizzano a gara empori, sfruttano risorse minerarie e agricole, importandovi al caso mano d'opera servile da fuori dando così nuovi impulsi all'economia delle metropoli. I porti dell'Atlantico soppiantano così in sensibile misura quelli del Mediterraneo, collegati ai traffici del Levante. L'oro e l'argento, importati in grande quantità, provocano a breve scadenza uno sconcerto generale: rialzo dei prezzi, svilimento dei redditi legati alla moneta, spostamenti della preminenza finanziaria. Il capitalismo entra in una crisi di crescenza che varia da Paese a Paese per durata e intensità; in funzione dei nuovi mercati, in virtù delle nuove risorse finanziarie e delle applicazioni tecniche della scienza, l'attività industriale si rinnova nelle strutture, valorizzando teoria e pratica del mercantilismo promosso, tra gli altri, dal ministro francese Colbert. Taluni ceti sociali, legati a peculiari tipi di ricchezza o di attività economica, vengono travolti a profitto della grossa borghesia, la quale avanza in ricchezza, ma anche in prestigio e influsso nello stesso ambito amministrativo e politico. Nel sec. XVIII l'invenzione della macchina a vapore accelererà gli avvii della “rivoluzione industriale” e del nuovo sviluppo che ne deriverà a produzione e commercio. Ma questo s'accompagnerà, a breve scadenza, con la crisi del sistema coloniale di preminenza delle metropoli europee aperta dal costituirsi degli Stati Uniti d'America. § Nelle relazioni internazionali l'unità della respublica christiana d'Europa si riduce a un ricordo del passato. Sotto l'insegna del Sacro Romano Impero di nazione germanica Carlo V ne ritenta il rinvigorimento; ma a questo, che è sentito come un tentativo di egemonia asburgica, si oppongono potenze coalizzate dal “re cristianissimo” di Francia, che non esita a tal fine ad allearsi con i Turchi e con i protestanti tedeschi. Tutti i conflitti bellici, anche quelli di religione che si dispiegano nel contempo sul piano nazionale e su quello europeo, si caratterizzano sempre più come guerre per l'equilibrio politico (1494-1648). La Pace di Vestfalia, che consacra il disaccordo delle potenze cristiane e il predominio della Francia, coincide a un dipresso con la massima espansione in Europa dell'Impero ottomano. Dal 1648 al 1715 è la Francia di Luigi XIV che domina la politica europea, soppiantando la Spagna dopo il tentativo egemonico di Filippo II sotto l'insegna della Controriforma cattolica. Nel contempo il Baltico è dominato dalla Svezia, il sultano fa i suoi ultimi progressi verso l'Ungheria e la Polonia, la flotta olandese è ancora in grado di vincere gli Inglesi. I rapporti di forza sugli scacchieri europeo e coloniale si vengono però modificando alla fine del sec. XVII per iniziativa di Guglielmo III d'Orange e di Pietro I di Russia. Comincia un lungo conflitto delle potenze marittime Inghilterra e Olanda contro la Francia e le sue colonie (1715-1815); dell'Impero russo contro Svezia, Polonia, Impero ottomano (1698-1775). L'Impero asburgico vi partecipa “inorientandosi” e avanzando le sue pretese sull'Impero ottomano in dissolvimento.
Storia: dalla Rivoluzione francese a Napoleone
Un nuovo momento della storia dell'Europa è determinato dalla Rivoluzione francese e dall'egemonia da essa imposta al continente con l'Impero napoleonico (1789-1814) : essa infatti ha una profonda incidenza sul divenire politico-sociale dell'Europa sia sul piano ideologico sia su quello diplomatico-militare. L'influsso ottenuto dalla cultura e dal costume francesi aveva reso possibile l'intensificato irraggiamento delle nuove idee e delle nuove istituzioni di Francia promosse da ideologi e rivoluzionari di Parigi. Le conquiste della Rivoluzione segnavano pure la ripresa dell'ambizioso progetto egemonico del Re Sole sotto l'altra insegna, quella della “liberazione dei popoli dai tiranni”: l'espansione francese cercava così di giustificarsi con il richiamo a una superiore ideologia e prassi politica: nei Paesi via via annessi si applicavano leggi e istituzioni francesi, certo con il risultato di ammodernarne le strutture amministrative e di ravvivarne l'attività politico-culturale, ma anche con l'aggravio di un'occupazione militare più o meno palese e rapace. Alla fine del sec. XVIII le “guerre della rivoluzione” giungevano a una conclusione: ma il nuovo secolo non avrebbe tardato a sperimentare le “guerre dell'impero”, dopo l'effimera politica di pace di Napoleone primo console (Amiens, 1802), accompagnata da un'intensa attività di riforme civili a modello ed esempio per tutta l'Europa (Concordato con la Chiesa cattolica, 1801; Codice Civile o Napoleonico, 1804). Napoleone canalizzava così le forze della nuova Francia, uscita dalla Rivoluzione con la consolidata preminenza sociale e politica della borghesia, verso la conquista dell'Europa. Dapprima egli mantenne gli obiettivi della diffusione delle nuove idee e delle nuove strutture (sia pur corrette in senso conservatore) e del raggiungimento delle “frontiere naturali”; ben presto però, sempre vittorioso come era riuscito negli scontri terrestri fino al 1809, si prefisse l'instaurazione di un sistema egemonico sul continente: al centro la Francia ingrandita dalle annessioni e circondata da Stati satelliti (Spagna, Olanda, Vestfalia, Italia, Napoli, Lega Renana), gli spazi italiano e tedesco riplasmati in funzione di predominio; la Prussia e l'Austria prostrate e costrette all'alleanza, come pure la Russia vinta e intimorita (1810-12). Il sistema continentale doveva piegare pure la Gran Bretagna, protetta dalla sua insularità e dalla sua flotta dominatrice dei mari. Ma le iniziative a ciò destinate – diplomatiche, militari, economiche (il blocco continentale, 1806) – come l'occupazione della Penisola Iberica (1807) e l'invasione della Russia zarista (1812) si rivelarono fatali al piano napoleonico di dominazione dell'Europa. L'Inghilterra si rivelava in grado di sostenere finanziariamente e anche militarmente le coalizioni antinapoleoniche e alimentava il malcontento e la rivolta nei Paesi occupati, contribuendo sostanzialmente, con la Russia di Alessandro I, alla vittoria finale di Waterloo (1815), dove lo zar figurava come il capo della crociata antinapoleonica, dopo la vittoriosa resistenza del popolo russo, animato dalla sua fede ortodossa e dalla sua passione nazionale. A questa lotta e a questo risultato avevano contribuito potenze e forze che rappresentavano l'“altra Europa” assieme alla Gran Bretagna: l'Austria di Metternich, abile e ostinato fautore del principio dell'equilibrio; la Prussia rinnovata nelle sue strutture da von Stein e animata da un'intensa passione patriottica espressa da J. G. Fichte; il popolo spagnolo combattente pro aris et focis e primo a vincere in battaglia i Francesi; le masse cattoliche offese dal trattamento inflitto a Pio VII; lo stesso capitale internazionale che, con Nathan Rothschild, aveva sposato la causa antinapoleonica fissando la sua centrale in Gran Bretagna. Le guerre napoleoniche – che solo in Francia avevano fatto più di un milione e mezzo di vittime – avevano per l'Europa anche un'altra conseguenza: l'incrinatura dell'egemonia europea sul mondo extraeuropeo. I giovani Stati Uniti d'America avevano avuto modo di consolidare la propria indipendenza e forza nella produzione e nei traffici, rinvigorendo la propria incipiente coscienza di nazione. Anche le colonie ispano-americane avevano rivendicato la propria indipendenza rifiutando la dinastia napoleonica instaurata nella madrepatria, imitati in questo da quelle portoghesi.
Storia: dalla Restaurazione alla nascita delle nazioni (1815-1871)
Il Congresso di Vienna volle restaurare un ordine politico costituzionale e territoriale in contrapposizione a quello dell'Impero napoleonico: però la carta politica dell'Europa del 1815 non era quella del 1789 né in Germania né in Italia né nell'Europa nordoccidentale e nordorientale per le rivendicazioni dinastico-territoriali e strategiche delle potenze vincitrici. Neppure nelle strutture interne si era restaurato l'ancien régime del 1789: le innovazioni napoleoniche erano state conservate, per esempio, in diversi Stati tedeschi nelle circoscrizioni, nell'organizzazione burocratica e in talune norme di diritto civile, anche se i vecchi ceti dirigenti avevano riottenuto l'antica preminenza politico-sociale. Era stato reintegrato l'equilibrio con il richiamo all'esigenza di un concerto europeo delle grandi potenze (che nel 1818 diventerà pentarchia per l'accoglimento della Francia dei Borbone accanto a Gran Bretagna, Russia, Austria e Prussia). Con i suoi collegamenti con la Santa Alleanza di Russia, Austria e Prussia, la politica di codeste potenze assumeva anche i caratteri di una politica interna europea mediante congressi, conferenze e assidua attività diplomatica; e questo in senso conservatore e repressivo, non senza crisi, determinando analoghe solidarietà superstatali nei movimenti liberali. L'Europa pertanto, sotto l'insegna della Restaurazione, presentava in realtà molteplici ideologie e prassi politiche che andavano dal parlamentarismo aristocratico dei conservatori inglesi all'autocrazia russo-zarista con una serie di forme intermedie tra le corporative antico-regime e quelle monarchico-costituzionali. E in talune zone, come in Italia, la Restaurazione mostrava aspetti particolari di fragilità per la suggestione esercitata dall'idea liberale-costituzionale, da quella nazionale-indipendentistica e nazionale-unitaria, variamente combinantisi con le sopravvivenze nostalgiche di democrazia giacobina. Queste forze riformatrici esprimevano le nuove energie della società moderna, alimentate dall'incremento demografico, dallo sviluppo dell'industrialismo e dall'affermarsi d'una borghesia sempre più dinamica sul piano economico e culturale, nella cui scia si sarebbe presto fatto valere anche il proletariato. Il sistema della prima Restaurazione (1815-30) subì scossoni anche violenti, che però riuscì a riassorbire rimanendo sostanzialmente inalterato fin oltre la metà del sec. XIX. Il primo terremoto politico fu quello del 1820-21 che dalla Spagna si ripercuote in Italia (Napoli, Sicilia, Piemonte) ed è represso, per disposizione della Santa Alleanza, in Italia dall'Austria e in Spagna dalla Francia dei Borbone (1823). E questo proprio mentre ne inizia un altro nei Balcani che segnerà, con l'indipendenza della Grecia (1822-29), la prima incrinatura dello status quo del 1815. Il secondo, che ha il suo epicentro a Parigi nel luglio 1830, con l'instaurazione del regime costituzionale borghese di Luigi Filippo, ha maggiori ripercussioni anche se di diversa intensità; in qualche Paese, come in Gran Bretagna, dà vigore ai fautori di riforme elettorali (“cartisti”); altrove, in Germania, sollecita in alcuni Stati maggiori aperture liberali; in Olanda, in Polonia, in Italia, in Portogallo e Spagna provoca insurrezioni e governi rivoluzionari che però solo nel Belgio si mantengono ottenendo riconoscimento. Anche l'“era delle rivoluzioni” – il 1848-49 –, che costituisce il terremoto maggiore e ha l'epicentro nella capitale francese e ben più vaste ripercussioni, verso il 1850 appare placata. Il 1848-49 è una scossa insieme politica ed economico-sociale; si caratterizza per i molti centri di maturazione autonoma, per la varietà delle forze che si incontrano e si scontrano, per i mutamenti o addirittura rovesciamenti dell'ordine esistente che provoca; si affermano il radicalismo politico con la richiesta del potere al popolo mediante il suffragio universale e il socialismo, che chiede, insieme, anche una riforma della struttura economico-sociale. Il moto investe tutti i Paesi: l'Italia, già in fermento dal 1846-47 per le riforme di Pio IX, che vede nel 1849 repubbliche a Venezia e Roma; la Germania come Confederazione e nei singoli Stati (Austria, Prussia, Baden); l'Ungheria. In una prima fase si vedono le insurrezioni vittoriose; in una seconda s'avverte il rallentamento dei moti e, infine, l'eliminazione dei governi insurrezionali. In questa fase intervengono potenze esterne come la Russia che appoggia i sovrani conservatori in Germania, Austria, Ungheria, Italia; lo stesso fa la Francia, divenuta conservatrice nel 1849 sotto Luigi Bonaparte; l'appoggio della Gran Bretagna liberale era valso ai movimenti innovatori, ma era stato discreto e condizionato. Sullo sfondo aveva agito la rivoluzione industriale che ormai aveva fatto della borghesia la classe dominante dell'Europa occidentale per il suo possesso della ricchezza. A essa però si affianca, quale forza antagonista del sistema capitalistico, la classe operaia, ammassata nelle città, in condizioni di vita e lavoro penose, sotto la continua minaccia di disoccupazione: e lo fa organizzandosi, formandosi una coscienza critica e rivendicativa (“socialismo umanitario” del conte di Saint-Simon; “socialismo scientifico” di K. Marx; “Manifesto del Partito Comunista”, 1848). Le crisi economiche di sottoproduzione agricola e sovrapproduzione industriale, di carenza del credito sono inoltre frequenti e assumono dimensioni europee. Ma sotto la cappa poliziesca della seconda Restaurazione (1850-60) i fermenti repressi non cessano di lievitare insoddisfazioni e aspirazioni in strati sociali più vasti, con appoggi anche da fuori nel gioco politico delle potenze. Particolarmente vivace è la coscienza nazionale in Italia e Germania: nella prima con intenti insieme di indipendenza dalla dominazione straniera (austriaca) e di unità nazionale rivelandosi movimento di popolo, ma anche di governi che vi vedono una forza da valorizzare ai propri fini di espansione (è il caso della dinastia sabauda e del governo subalpino con Cavour in Italia ed è quello della Prussia retta da Bismarck in Germania). In appoggio ai movimenti nazionali interviene Napoleone III che in essi vede una forza di rottura dell'Europa del 1815 e insieme un'occasione per riconquistare alla Francia una posizione egemonica. Ma se il Secondo Impero francese riesce a controllare in qualche misura il movimento nazionale unitario italiano nel 1859-61 e fino al 1870, nonché le agitazioni dei popoli balcanici (Questione d'Oriente), esso si vede emarginato dal moto unitario germanico diretto dalla Prussia di Bismarck, che a Sedan lo eliminerà dalla carta politica trasferendo le ambizioni di egemonia europea al II Reich tedesco (1871-1918). Intanto anche nell'Impero asburgico plurinazionale trovavano parziale soddisfazione le sollecitazioni dei popoli con la ricostituzione dell'Ungheria autonoma, sia pur legata dinasticamente agli Asburgo di Vienna (1867). Si affermava così l'Europa delle nazioni, ma anche dei regimi costituzionali e della borghesia industriale, manufatturiera, bancaria, che spingeva all'espansione coloniale in uno spirito egemonico che sarà detto “imperialistico”.
Storia: gli imperialismi (1871-1914)
Codesta espansione, promossa da esigenze e sollecitazioni molteplici, assumeva forme differenti; esplorazione scientifica, protettorato, annessione alla metropoli, sfogo dell'emigrazione, investimento di capitali, avviamento tecnologico di industrie, sviluppo economico, proselitismo religioso con la penetrazione di missionari. Essa si attuò generalmente con facilità per la soverchiante superiorità militare, tecnica ed economica delle potenze europee. Ma dovette sostenere anche scontri armati duri e cruenti, a cui si accompagnarono resistenze spirituali, specie nei Paesi di più antica civiltà e di forti tradizioni etico-religiose (India, Sud dell'Asia). Resistenze queste ch'erano valorizzate in Europa da correnti critiche ispirate all'internazionalismo ugualitario e pacifista. Nella corsa ai domini coloniali si affiancavano alla Gran Bretagna, alla Francia e alla Russia zarista le potenze più giovani, il Belgio, la Germania di Guglielmo II, l'Italia di Crispi, specialmente nella spartizione dell'Africa, mentre Portogallo e Olanda mantenevano le proprie colonie in Africa e Asia e la Spagna se le vedeva intaccate. Molti contemporanei si compiacevano di teorizzare, in funzione di questo, una missione civilizzatrice permanente dei popoli d'Europa: ma proprio alla svolta del secolo si faranno avanti nuove potenze in varia misura extraeuropee, pur essendo partecipi della civiltà europea o sostanzialmente debitrici verso la sua scienza, la sua tecnica e le sue istituzioni (gli USA contro la Spagna a Cuba e nelle Filippine, 1898; il Giappone contro la Russia zarista in Manciuria, 1904). E questo imperialismo coloniale si combinava con le gelosie e le diffidenze sul continente provocando gare negli armamenti terrestri e navali, alleanze bismarckiane di conservazione (Alleanza dei tre imperatori, 1873 e 1881; la Triplice tra Germania, Austria-Ungheria e Italia, 1882 e 1887) e alleanze antibismarckiane di rivincita o di copertura (la Duplice tra Francia e Russia, 1893; l'Intesa cordiale tra Francia e Gran Bretagna, 1904), con l'occhio al Reno, all'Europa orientale, ai Balcani, alle colonie, senza riguardi a ideologie e regimi politici, con l'isolamento e il componimento diplomatico sempre più faticoso di conflitti locali (guerre balcaniche, guerra italo-turca).
Storia: crisi e decadenza (1914-1945)
Così si arrivava alla “grande” guerra 1914-18 che avviava quella scossa profonda delle strutture e dei valori della civiltà d'Europa, quella distruzione del suo predominio economico-politico che sarebbero state compiute nella seconda guerra mondiale 1939-45. La guerra imponeva immensi sacrifici di sangue, di danaro, di beni, la limitazione di libertà, vedeva lo scatenamento delle opposte propagande. Masse enormi di combattenti e mobilitati entravano con peso e consapevolezza disuguali nell'azione militare e in quella politica. La vita delle nazioni, anche di quelle neutrali, fu dominata dal conflitto risentendone in tutti i settori. Dapprima guerra di movimento sul fronte occidentale (Francia, Belgio, poi Gran Bretagna contro Germania) e su quello orientale (Germania e Austria-Ungheria contro Russia), liquidata la Serbia – dal 1915 al 1918 in guerra anche l'Italia, la Romania, la Bulgaria – si ebbe una logorante guerra di posizione nelle trincee, anche sul fronte italo-austriaco. Nel 1917 due fatti intervenivano a modificare le condizioni della guerra e le stesse prospettive politico-sociali dell'Europa, e non soltanto di essa: le rivoluzioni in Russia e l'intervento degli USA a fianco dell'Intesa contro la Quadruplice di Germania, Austria-Ungheria, Turchia e Bulgaria. Le rivoluzioni russe, in particolare quella bolscevica dell'Ottobre (9 novembre) non solo intaccavano il potenziale militare e la strategia dell'Intesa, cui avrebbe rimediato comunque il massiccio e decisivo intervento degli Stati Uniti, ma introducevano nella politica e nell'economia dell'Europa un fermento di frattura destinato a radicali e vasti sviluppi. Il sistema politico dell'Europa ne usciva sconvolto e con esso ne usciva insidiato e indebolito il predominio coloniale europeo: i nuovi governanti della Russia impegnavano le loro energie e i loro nuovi mezzi militari e diplomatici contro l'“imperialismo” delle potenze “borghesi”, considerato quale “stadio supremo del capitalismo” e “preludio della rivoluzione sociale del proletariato” che doveva combinarsi con quella nazionale dei popoli soggetti. La vittoria tedesca in Oriente con l'imposizione alla Russia dei Soviet della Pace di Brest-Litovsk (marzo 1918) e l'offensiva in Occidente fino a Parigi erano contenute, mentre si riapriva un fronte meridionale che piegava alla resa Turchia e Bulgaria e dava vigore ai movimenti autonomistici delle nazionalità nell'Impero asburgico minandone la compattezza. La carta d'Europa del 1914 veniva riveduta decisamente dai vincitori nella Conferenza della Pace di Parigi (1919) ; e questo sotto l'influsso combinato degli accordi di espansione territoriale di Gran Bretagna, Francia, Italia, Romania, Grecia e del principio wilsoniano della nazionalità e dell'autodecisione di popoli e territori; nuovi Stati plurinazionali vi apparivano (Polonia, Cecoslovacchia, Iugoslavia). Ma l'Europa di Versailles non tarda a rivelare una triplice debolezza: in primo luogo l'assenza della Russia, sconvolta dalla guerra civile, nelle sue deliberazioni; secondariamente, l'illusione dei vincitori di poter ridurre i vinti in una perpetua soggezione, dimenticando la comune solidarietà di destino sia sul piano economico-finanziario-monetario sia su quello politico-istituzionale; infine il ritiro della garanzia degli Stati Uniti con il loro ritorno all'isolazionismo. La pace dei trattati stentava a riprender radici negli spiriti. In questi, come nelle cose, le conseguenze della guerra continuavano a farsi sentire nelle distruzioni da riparare, nei risentimenti da placare, nelle nuove convivenze di popoli e territori da organizzare e accettare, nel difficile ritorno di tanti soldati al lavoro “borghese” sistematico, disciplinato. Nuove difficoltà economiche e politiche si ponevano agli Stati d'Europa; le istituzioni tradizionali rappresentative erano investite da forze che le contestavano, nuove e vecchie, e tutte di larga suggestione sulle masse, con ampie solidarietà internazionali. I problemi delle riparazioni e dei debiti di guerra, quelli della sicurezza e del disarmo richiesero presto una cooperazione internazionale: innanzitutto sui piani economico e finanziario, nel quadro della Società delle Nazioni, ma anche in quello più ristretto europeo e poi nell'ambito politico avviato dal Patto di Locarno (1925) e dal riavvicinamento franco-tedesco. L'evoluzione politica dell'Europa, oltreché dall'esperimento sovietico-russo della dittatura del proletariato, veniva sempre più influenzata e provata da movimenti di ispirazione nazionalistica e da ideologie e strutture autoritarie, antidemocratiche – con punte, talora, di antisemitismo – sulla scia del fascismo italiano. Così gli anni delle grandi difficoltà economiche, aggravate dalla crisi iniziata nel 1929 alla Borsa di New York, furono pure quelli dell'esasperato nazionalismo e dell'estendersi quasi febbrile delle dittature, che culmina nell'avvento al potere del nazionalsocialismo in Germania (gennaio 1933), terza ideologia che conquista il potere dopo il comunismo bolscevico in Russia (1917) e il fascismo in Italia (1922). Le democrazie occidentali affrontano con energie e risultati diseguali codeste difficoltà economiche, complicate dalle tensioni politiche dentro i loro confini, e fuori di essi, nelle dipendenze coloniali. L'accresciuta delusione nei confronti della sicurezza garantita dalla Società delle Nazioni porta non solo a non disarmare, ma a intensificare gli armamenti e a riprendere la trama di alleanze militari (Piccola Intesa; Intesa Balcanica), volte a conservare l'ordine di Versailles. Ma a esse si contrappongono movimenti e aggruppamenti revisionisti che presto trovano il loro perno nelle maggiori potenze insoddisfatte, Italia, Germania, Ungheria, e coordinano la loro politica fino a pervenire alla denunzia formale di clausole essenziali dei trattati di pace, ad agire come elementi di rottura nelle crisi europee che si presentano (aggressione italiana all'Etiopia, 1934-36; guerra civile di Spagna, 1936-39), a richiedere revisioni territoriali dei trattati (annessione al Reich tedesco-nazista dell'Austria e dei Sudeti già cecoslovacchi, 1938). La pace sempre più precaria finisce con le rivendicazioni tedesche avanzate alla Polonia, per l'intervento delle garanti Francia e Gran Bretagna. S'iniziava così la seconda guerra mondiale (1939-45), anche stavolta con il suo epicentro e avvio in Europa, per estendersi ben presto e più vastamente che nel 1914-18 agli altri continenti, trasferendo a potenze extraeuropee la parte principale. La “guerra-lampo” tedesco-nazista della prima fase 1939-42, con le rese o gli armistizi imposti via via alla Polonia, alla Danimarca, alla Norvegia, all'Olanda, al Belgio, alla Francia e agli Stati balcanici che non erano agganciati all'Asse Roma-Berlino, assicurava alla Germania di Hitler l'egemonia e faceva dell'Europa una città assediata . Ma la grande coalizione di Gran Bretagna, USA, URSS, formatasi nel 1941, preparava la rivincita in collegamento con le forze della Resistenza antinazista che agivano in Europa. Fallito il piano della guerra sottomarina dell'Asse, le potenze marittime riaprivano le operazioni belliche sul continente da sud (Nordafrica-Italia) e da ovest (Francia) a partire dall'estate 1943 in concomitanza con la ripresa offensiva sovietica in Oriente, avviando il logoramento delle forze dell'Asse obbligate a rovesciamenti di fronte. L'Europa era di nuovo corsa e ripercorsa da eserciti, ridotta a un campo di battaglia, con in più le deportazioni ed esecuzioni delle SS tedesche, le devastazioni dei bombardamenti aerei e gli spostamenti forzati di popolazioni sotto la duplice minaccia della guerra avanzante e degli aerei. Un'Europa così prostrata, con i governi dei suoi Stati deboli di forze e di prestigio, sia pur alleati dei vincitori o riagganciatisi a essi come l'Italia (settembre 1943), non poteva impedire che del destino dei suoi popoli e dei suoi Stati decidessero in spirito egemonico i tre grandi che rappresentavano volontà e aspirazioni di potenze al margine dell'Europa, Gran Bretagna e Unione Sovietica, o extraeuropee, USA (conferenze di Teheran, Yalta, Potsdam, 1943-45). Terminata la guerra con la resa senza condizioni dei vinti in Europa (maggio 1945) e in Giappone (8 agosto), in una nuova laboriosa Conferenza della Pace a Parigi (1946-47) venivano preparati e sottoscritti i trattati di pace con Italia, Ungheria, Romania, Bulgaria, Finlandia, ma non con l'Austria e con la Germania, che rimanevano sotto occupazione quadripartita ed escluse dalle Nazioni Unite.
Storia: dal secondo dopoguerra alla fine della guerra fredda
L'Europa che usciva così dal conflitto con i regimi interni logorati da dittature di destra o di sinistra, da esasperati contrasti politici, bisognosa di aiuti dal di fuori per riassicurarsi le più elementari condizioni di vita, era ormai ridotta a oggetto della politica delle “superpotenze” : le sole che fossero riuscite a conservare o a riprendere i loro domini coloniali, essi pure già in crisi per le rivendicazioni di autonomia e indipendenza dei popoli d'Africa e d'Asia. L'egemonia dell'Europa sul mondo era finita. La Gran Bretagna non poteva più imporsi quale forza equilibratrice tra i Paesi europei, la Francia aveva perduto il suo ruolo di potenza continentale, gli altri Stati, tra cui Olanda, Belgio, Norvegia, Italia, risalivano faticosamente, quantunque con energia, la china della loro prostrazione economica e politica. La Germania era divenuta “terra di nessuno” e sperimentava sul proprio suolo e sulla propria compagine economico-sociale, con l'asportazione degli impianti industriali, e su quella politico-culturale la spartizione in sfere d'influenza: dapprima quattro zone, poi ridotte a due (statunitense-occidentali e sovietico-orientale in difficile, sospettosa coesistenza). Analogamente, di una spartizione in sfere d'influenza venivano a fare le spese popolazioni e Stati ricostruiti nell'Europa sud-orientale. Popoli e Stati europei riuscivano tuttavia a riprendersi, a ricostituire le loro economie, a reinserirsi quali forze attive nella politica mondiale, con l'antico particolarismo ma anche con nuove strutture sovranazionali, nonostante la loro politica interna venisse minacciata o addirittura diretta da dittature proletarie di sinistra o da velleità dittatoriali di destra sotto la suggestione di differenti concezioni di democrazia (“politico-rappresentativa”, “sociale”) impersonificate e sostenute dalle due superpotenze. I vincitori infatti, dopo un periodo assai breve di collaborazione, avevano operato per l'affermazione delle loro diverse ideologie e pratiche di governo nelle rispettive sfere di influenza, determinando la creazione di due blocchi contrapposti: l'occidentale “democratico” sotto la guida e con il sostegno economico-politico degli USA; l'orientale “comunista” controllato dall'URSS. Oltreché con le opposte propagande, di cui erano portavoce all'interno dei singoli Paesi partiti e correnti culturali, i due sistemi si affermavano con iniziative diplomatiche e militari, ma, soprattutto, con una gara di aiuti economici ai Paesi dei rispettivi blocchi, creando una frattura non solo politico-ideologica, ma anche sociale e culturale tra l'Europa occidentali e quella orientale, che risultavano così separate da una “cortina di ferro”. Proprio in questa situazione riemergeva nelle nazioni d'Europa la consapevolezza della loro comunanza di destino e di interessi, ed essa si traduceva in concrete istituzioni comunitarie; queste sorsero dapprima in Occidente, anche come salvaguardia dall'espansionismo sovietico. Così nel 1947 si creava l'unione doganale del Benelux, tra Belgio, Olanda, Lussemburgo; seguiva l'Unione Europea Occidentale del Patto di Bruxelles (Benelux più Francia e Gran Bretagna, 1948). Più efficiente l'Organizzazione Europea di Cooperazione Economica (OECE, 1948) chiamata a stabilire un piano organico e coordinato per l'uso degli aiuti finanziari degli USA (piano Marshall o European Recovery Program) che erano destinati alla ricostruzione delle strutture produttive dell'Europa. Collateralmente veniva costituito un Consiglio d'Europa con un comitato di ministri, un'assemblea consultiva e una segreteria permanente a Strasburgo. Nell'ambito dell'OECE si creava la Comunità del Carbone e dell'Acciaio (CECA, 1952). E, se falliva per le riluttanze della Francia di De Gaulle nei confronti di un potere superstatale la Comunità Europea di Difesa (CED, 1954), l'unità economica si intensificava con l'allargamento dell'unione doganale del Benelux ad altri Paesi così da istituire nel 1957 la Comunità Economica Europea (CEE) o Mercato Comune Europeo (MEC), affiancata dall'EURATOM per la valorizzazione in comune dell'energia nucleare. Altri Paesi, pur rimanendo fuori dalla CEE, si organizzarono in un'Europa del libero scambio (European Free Trade Association, EFTA); ma non tardarono, sia pur non senza contrasti, a entrare nella CEE, sull'esempio di Gran Bretagna, Irlanda e Danimarca (1972). Quest'Europa occidentali sulla via dell'integrazione si era presto inserita in un più vasto quadro intercontinentale, politico-strategico ma anche economico-culturale, attraverso l'alleanza nord-atlantica (NATO, 1949). Quest'alleanza era il prodotto dell'irrigidimento dei due blocchi in Europa e altrove (per esempio nella Corea) e della prova di forza fatta a Berlino quando, chiusa dai Sovietici via terra, la città venne alimentata da un gigantesco ponte aereo statunitense (1948-49). Tale irrigidimento sembrò attenuarsi con la morte di Stalin e con la politica di coesistenza pacifica proclamata da Chruščëv; ma la repressione sovietica di un moto nazionale-democratico in Ungheria (1956) rinsaldava la compattezza del blocco orientale, come era avvenuto in Polonia (1953) e sarebbe avvenuto nel 1968 in Cecoslovacchia. Nel frattempo negli Stati dell'Europa orientale l'URSS aveva promosso organizzazioni parallele alla NATO e alla CEE: il Patto militare di Varsavia e un'organizzazione economica di mutua assistenza (COMECON). Al primo aderiva con proprio esercito la Repubblica Democratica Tedesca allo stesso modo che nella NATO era stata inserita la Repubblica Federale di Germania. Berlino Ovest sotto occupazione alleata si vedeva nel 1961 separata da un muro dalla zona occupata dai Sovietici. Tuttavia gli avvicinamenti tra le due Europa, dell'Ovest e dell'Est, si intensificavano. Nel 1955 l'Austria veniva restituita alla sovranità dietro il suo impegno di neutralità. Nello stesso anno il governo di Bonn era riconosciuto da Mosca. Negli anni Sessanta il “disgelo” divenne un processo irreversibile. L'Europa, in piena espansione industriale, non poteva più oltre trascurare lo sbocco sui mercati dell'Est; per contro i Paesi socialisti avevano bisogno dell'aiuto tecnologico occidentale. Si creò così un modus vivendi negli scambi commerciali. Negli anni Settanta l'Europa si venne ulteriormente integrando nell'ambito delle sue strutture e nei rapporti con l'Est, con una intensificazione degli scambi commerciali e una minore rigidezza della barriera posta a quelli culturali. L'evento più rilevante di codesta integrazione fu la Conferenza di Helsinki (1973) con il programma, fra l'altro, di una riduzione concordata degli armamenti tra NATO e Patto di Varsavia. Intanto la CEE si allargava all'Irlanda, alla Danimarca (1973), alla stessa Gran Bretagna (1975). Però grandi avvenimenti mondiali in quegli anni sopraggiungevano a mettere in crisi il sistema economico europeo, determinandovi una grave crisi di recessione dell'industria e del commercio. Essi erano la svalutazione del dollaro (1970) e il rincaro del petrolio, imposto precipuamente dai produttori arabi (1973), anche come espressione della loro solidarietà con gli Stati arabi che avevano riaperto le ostilità con Israele, rivendicando i confini del 1967 e la soluzione della questione palestinese. Gli stessi regimi interni di singoli Paesi d'Europa venivano investiti dalle ripercussioni della crisi economica: in Portogallo (1974) e Spagna (1975) cadevano i regimi autoritari rispettivamente di Caetano e di Franco e si instauravano governi democratici, mentre in Francia, Repubblica Federale di Germania, Gran Bretagna, Italia, aspri e lunghi conflitti sociali reimponevano il problema di un nuovo sistema economico, con riferimento ai complessi problemi finanziari e monetari d'una economia divenuta mondiale. Dal 1975 la svalutazione di monete anche forti aggravava la crisi investendo strutture, consumi, modo di vivere. Alle soglie degli anni Ottanta la solidità dell'Europa riceveva nuove scosse per le divergenze in merito alle misure da opporre all'invasione sovietica dell'Afghanistan (dicembre 1979) e, più tardi, alla repressione militare posta in atto dai Sovietici a Varsavia (dicembre 1981). Tutto questo mentre si faceva registrare un aggravamento della crisi economica a seguito della rivalutazione del dollaro operata in USA dal governo repubblicano (1981), che aveva serie ripercussioni sull'economia dei Paesi importatori di petrolio, e i rapporti con gli Stati Uniti ricevevano ulteriori incrinature per l'atteggiamento duro assunto da questi ultimi nei confronti dell'espansione dell'armamento sovietico. Intanto nel 1981 anche la Grecia aderiva alla CEE, seguita nel 1986 da Spagna e Portogallo. Importanti progressi sono stati quindi compiuti nel rafforzamento delle strutture politiche comunitarie con l'approvazione definitiva dell'Atto Unico Europeo (in vigore dal 31 luglio 1987), con il quale è stato anche fissato al 31 dicembre 1992 il termine ultimo per la completa integrazione economica, con libertà di circolazione per persone, capitali, merci e servizi (la libera circolazione di capitali è in atto dal 1° luglio 1990). Grandissime ripercussioni ha avuto nella seconda metà degli anni Ottanta la politica di distensione inaugurata dalle superpotenze con il vertice di Ginevra (1985) fra Gorbačëv e Reagan, concretatasi in diversi accordi per la riduzione degli armamenti, inclusi i cosiddetti “euromissili”.
Storia: il nuovo assetto politico del continente
La relativa liberalizzazione politica (perestrojka) promossa all'interno dell'Unione Sovietica e da essa favorita nei Paesi satellite, in un contesto di difficoltà crescenti per le loro economie, ha quindi portato al completo dissolvimento dei regimi comunisti in buona parte di essi e dunque al superamento dell'assetto europeo determinato a Jalta. Anno decisivo è stato il 1989, che a seguito dell'eliminazione della “cortina di ferro” fra Ungheria e Austria ha visto, in pochi mesi, una fuga di massa dalla Repubblica Democratica Tedesca e quindi l'abbattimento del Muro di Berlino, l'insurrezione contro Ceausescu in Romania, nonché riforme politiche in senso democratico sollecitate da movimenti popolari in Polonia, Cecoslovacchia e Bulgaria. Tali trasformazioni si sono poi ulteriormente sviluppate fino all'esito estremo della riunificazione tedesca (3 ottobre 1990) e hanno investito pure l'Albania, creandovi le condizioni per lo svolgimento di libere elezioni. Ne sono derivati, nel 1991, anche la dissoluzione del COMECON (28 giugno) e del Patto di Varsavia (1° luglio), e un parallelo allargamento di preesistenti istituzioni sovranazionali (a iniziare dal Consiglio d'Europa, giunto a includere nel 1991 ben 25 Paesi), soprattutto nel campo della difesa. Si sono infatti rilanciati organismi come la Conferenza per la Sicurezza e la Cooperazione Europea (CSCE), pur persistendo la NATO e avendo trovato consolidamento con la guerra del Golfo l'Unione Europea Occidentale (UEO). Allo stesso tempo è risultata accresciuta la forza attrattiva della CEE, che ha visto nuove domande di ammissione sia di Paesi appartenuti al COMECON sia di altri già membri dell'EFTA; tra questi ultimi, Austria, Finlandia e Svezia sono entrati a far parte della CEE nel 1994. A fronte di tali progetti, il crollo dei regimi comunisti ha però liberato sentimenti nazionali repressi per decenni: si sono quindi manifestate tendenze secessionistiche o autonomistiche in varie aree. Ne sono stati investiti prima i Paesi baltici sovietici, in cui è stata attuata una determinata repressione, e in forma meno drammatica la realtà slovacca; a estremi esiti esse sono invece giunte nella Federazione Iugoslava con il precipitare delle tensioni da tempo latenti in un confronto militare prolungato (dal luglio 1991) che le autorità della CEE a più riprese hanno cercato di sventare: in tale situazione Slovenia e Croazia dopo un periodo di moratoria hanno formalmente proclamato l'indipendenza (ottobre 1991), seguite nel 1992 dalla Bosnia-Erzegovina. Alla stessa rinascita di sentimenti nazionali si è rivelato pur indirettamente connesso l'episodio più significativo ed epocale della storia contemporanea europea, ovvero lo scioglimento degli organi di potere sovietici e, dopo la conseguente ridefinizione di un nuovo patto federale che modificava parzialmente i confini interni dell'Europa con la restaurazione delle Repubbliche di Lituania, Lettonia ed Estonia (settembre 1991), la definitiva dissoluzione dell'URSS. Il tentativo di colpo di Stato (20 agosto 1991) attuato da forze conservatrici della burocrazia e dell'esercito è infatti fallito grazie al coagularsi dell'opposizione popolare attorno alle autorità repubblicane democraticamente elette. Tale iniziativa politica, sostenuta dalla solidarietà internazionale, ha permesso alle singole Repubbliche di ottenere da Gorbačëv lo smantellamento delle strutture centralistiche e di partito e quindi, in rapida successione, di proclamare la propria sovranità, decretando (dicembre 1991) la fine dell'Unione Sovietica. Tra le molte conseguenze del dissolvimento della superpotenza sovietica è stato il progresso del disarmo nucleare, rispetto al quale, dopo l'accordo START siglato da Bush e Gorbačëv il 31 luglio 1991 (e ratificato nel 1992 da Russia, Ucraina, Belorussia e Kazahstan, eredi dell'armamento nucleare dell'URSS), sono stati compiuti ulteriori passi: la firma a Oslo nel 1992 di un'intesa tra Paesi NATO ed ex aderenti al Patto di Varsavia sulla riduzione delle armi convenzionali e nel 1993 l'accordo START-2, siglato a Mosca dal presidente russo Elcin e quello americano uscente Bush. Sul fronte occidentale, nel 1992 un ulteriore passo avanti compiva il processo di integrazione europea con la firma, dopo una lunga gestazione, del Trattato di Maastricht che, entrato in vigore il 1º novembre 1993, sanciva la costituzione dell'Unione Europea, i cui confini si allargavano nel 1995 con l'adesione di Austria, Finlandia e Svezia. A questo processo succedeva, il 1° gennaio 1999, l'unificazione monetaria, che prevedeva in quella data l'entrata in vigore dell'euro e la sua progressiva sostituzione con le valute nazionali entro il 2002. Partecipavano a questa prima fase 12 Paesi e ne rimanevano fuori alcuni per scelta (Gran Bretagna, Danimarca e Svezia). Passi non meno rilevanti, ancorché preliminari, venivano poi mossi verso l'integrazione delle politiche di difesa, il coordinamento della legislazione in molti ambiti (da quello fiscale a quello migratorio), la messa a punto di una politica estera e di una politica commerciale comuni, e così via, anche nell'intento di ridurre l'evidente marginalità dell'Unione Europea come attore della politica mondiale. Gli ultimi anni del sec. XX avevano, quindi, portato all'Europa elementi di grande rafforzamento sul piano politico e soprattutto economico, ma al tempo stesso anche elementi di incertezza e di tensione, addirittura sul piano territoriale con ulteriori risvolti bellici. Come è ovvio, i due piani, politico-economico e territoriale, si legano strettamente fra loro, e può non essere un caso che proprio all'ampliamento della Comunità Europea, poi alla sua trasformazione in Unione Europea, poi alla nascita progressiva dell'euro come moneta comune dei Paesi aderenti all'UE, facessero riscontro le tante e gravissime tensioni che insanguinavano il territorio della ex Iugoslavia e che rendevano indubbiamente più complessa e sofferta la gestione comune di una fase tanto delicata. Ai conflitti scatenatisi al momento della dichiarazione di indipendenza di Slovenia e Croazia, e alla feroce guerra prodottasi intorno alle modalità dell'indipendenza della Bosnia-Erzegovina, gravi questioni risolte, più o meno stabilmente nel corso degli anni Novanta, si aggiungeva, proprio sul finire del decennio, il problema del Kosovo, regione prevalentemente albanofona e islamica, parte della Serbia e quindi della residua Federazione Iugoslava. La proclamata necessità di tutelare la componente albanofona e l'opportunità di contenere la presenza nell'area della Serbia, ancora a guida socialista, induceva le potenze occidentali (in primo luogo gli Stati Uniti, con l'immediato appoggio della Gran Bretagna) a un intervento militare oltre modo deciso e distruttivo, attuato nei confronti della Serbia e della stessa regione del Kosovo. L'intervento, deciso e condotto nei primi mesi del 1999 dalla NATO (che per la prima volta, senza una richiesta esplicita delle Nazioni Unite o di altre autorità internazionalmente riconosciute, prendeva un'iniziativa militare non difensiva) aveva l'effetto di sottrarre almeno temporaneamente il Kosovo all'autorità della Serbia, di allineare i Paesi aderenti alla NATO su una posizione necessariamente unitaria, di mettere in secondo piano il ruolo politico dell'UE, di sottolineare la riduzione (ma non ancora una vera e propria assenza) di peso politico della Russia nello scacchiere europeo e infine di estendere l'area di diretta presenza degli Stati Uniti in Europa. Le modalità di risoluzione della questione, comunque, rimanevano ancora agli inizi del secolo XXI oggetto di analisi e di proposte, mentre si provvedeva al rientro di centinaia di migliaia di profughi albanofoni fuggiti dal Kosovo prima e durante le operazioni belliche e si tentava, benché con scarso successo (serbi, zingari e altre componenti etniche erano stati indotti ad abbandonare l'area, una volta concluse le operazioni militari), di conservare nella regione il carattere multietnico e multiculturale che le era tradizionalmente proprio . Le contraddizioni interne al sistema Europa provocavano, in buona sostanza, il fallimento di un modello che conciliasse giustizia sociale ed efficienza economica. Se, infatti, il Trattato di Amsterdam e, prima ancora, quello di Maastricht parevano offrire sulla carta grandi possibilità circa il diritto di lavoro, la libera circolazione, l'eguaglianza dei trattamenti, la salute e la sicurezza dei cittadini, tutte queste misure non venivano parimenti realizzate, perché il loro esercizio era strettamente vincolato alla stabilità dei bilanci dei singoli Paesi e ai criteri di gestione dell'euro. L'Europa procedeva a due velocità: da un lato la politica monetaria accelerava ulteriormente l'integrazione, dall'altra la politica sociale ne frenava l'evoluzione. La disoccupazione, l'emarginazione e la povertà di alcune zone costituivano segnali di allarme inoppugnabili. Nel 1999 l'Unione apriva i negoziati per l'adesione di 12 nuovi Paesi (Lituania, Lettonia, Slovacchia, Romania, Bulgaria, Estonia, Polonia, Repubblica Ceca, Slovenia, Ungheria, Malta e Turchia) che si sono conclusi a Copenaghen del dicembre 2002. L'allargamento è avvenuto il 1° maggio 2004 con 9 dei 12 Paesi facenti parte del precedente elenco, ai quali è stata aggiunta la parte controllata dalla Grecia dell'isola di Cipro. Esclusi sono la Bulgaria e la Romania, che entravano, però, dal 2007, e la Turchia per la quale i negoziati sono partiti alla fine del 2004, a fronte di sufficienti garanzie democratiche ed economiche.
Panorama culturale
Il distacco lento e graduale, tra i sec. V e IX, dell'area continentale europea dall'insieme del mondo mediterraneo, il suo assumere una fisionomia definita da caratteristiche strutturali e culturali precise, tali da erigersi come “frontiere” nei confronti del mondo islamico e bizantino e da assimilare e plasmare al proprio interno in forma originale i diversi contributi dei popoli che la abitano, costituisce l'atto di nascita di un'entità fino a quel momento poco o mal definita cui si darà il nome di Europa. Una civiltà prevalentemente rurale sostituisce il mondo delle città e degli scambi. La tecnologia dell'aratro pesante, adatto alla cerealicoltura nelle pianure centroeuropee, sostituisce le tecniche dell'agricoltura a giardino delle coste mediterranee. La rotazione triennale e la struttura a campi aperti, con il suo elevato contenuto di “collettivismo” di villaggio, sostituisce la struttura parcellizzata e strettamente individualistica dell'orto mediterraneo. Una concezione consuetudinaria del diritto, che lascia fra l'altro ampio spazio alla sopravvivenza di tendenze di tipo comunitario nell'usufrutto della terra, prende il posto della concezione razionale e deduttiva del diritto romano che aveva sancito il principio della proprietà individuale del suolo. Un'aristocrazia guerriera si sovrappone e assimila ai propri modelli di vita la vecchia oligarchia di proprietari fondiari destinati all'amministrazione della cosa pubblica. Una massa indifferenziata di contadini-servi, su cui gravano obblighi molteplici ma che opera su scala artigianale con propri strumenti di produzione, sostituisce le falangi di “bestiame umano” dell'antico sistema schiavistico. Un potere signorile frammentato e disperso, cui sono delegate alcune delle antiche funzioni pubbliche, prende il posto dell'antico Stato semiburocratico. Una rigida ortodossia religiosa espunge, anche violentemente, ogni traccia di multiculturalità, fornendo a questa nuova realtà sociale uno strumento di identificazione forte. La sanzione da parte della Chiesa di Roma dell'Impero carolingio e la precoce politica di crociata da questo intrapresa, volta alla difesa dei confini occidentali dal pericolo islamico e all'espansione verso oriente ai danni di popolazioni non ancora cristianizzate, segnano il compimento di questi processi e l'avvento di una civiltà che, nonostante tutti i suoi sforzi di porsi in continuità con il passato, presenta caratteristiche di assoluta originalità e risulta capace, nei secoli successivi, di assorbire nuove ondate migratorie (di Normanni e di Ungari) assimilando nuovi popoli e nuove culture. La Chiesa, attraverso l'elaborazione e l'operato dei suoi grandi intellettuali e dei vertici delle gerarchie del clero secolare (vescovi) e regolare (abati), si riserva il compito di fornire di questa realtà uno schema interpretativo autorevole ed esauriente, oltreché di intrattenere rapporti privilegiati e riservati con la sfera del sacro. Lo schema tripartito della società (la cui formulazione compiuta risale all'inizio del sec. XI) serve egregiamente a questi scopi: secondo questo schema i tre “ordini” degli oratores, dei bellatores e dei laboratores costituiscono un'unità funzionale, pur mantenendosi i loro compiti rigidamente distinti. Agli oratores, al clero come casta separata e “unta”, dotata di uno specifico carisma, spetta, appunto, il commercio con il sacro, come preghiera e come rito efficace, oltreché l'opera di intermediazione tra Dio e il mondo laico su cui esercitare un controllo e a cui fornire soccorso e consiglio. All'aristocrazia guerriera spetta la difesa armata della cristianità e la funzione di “braccio secolare” del volere di Dio nel mondo. Alle masse asservite spetta il compito di nutrire gli altri due ordini e di fornire un esempio visibile della maledizione divina gravante sull'uomo peccatore ed esprimentesi nel lavoro. Una e trina, questa società, come “specchio” della “società celeste”, non può che essere cristallizzata in una forma immutabile. Non mancano tensioni fra questa cultura e quella espressa dal mondo dell'aristocrazia laica che arriva con il tempo a consolidarsi e a esprimersi attraverso una propria autonoma intellettualità. Punti di conflitto sono per esempio la concezione del matrimonio, cui la Chiesa tende sempre più ad annettere valore sacramentale, concependolo come unione volontaria fra individui, e al quale invece l'aristocrazia laica continua ad attribuire un significato meramente contrattuale all'interno della politica di alleanze fra gruppi familiari; o la concezione della guerra e dell'attività militare, cui la Chiesa tende a far assumere una funzionalità “sacra” (difesa della cristianità, difesa degli inermi e dei deboli) laddove, nella mentalità cavalleresca, a esse viene attribuito un valore assoluto in termini etici (l'onore, l'avventura) o addirittura estetici. A partire dal sec. XI e con ritmo crescente nei due secoli successivi questa società attraversa una fase di grande espansione. Non soltanto grazie all'iniziativa di gruppi di mercanti itineranti, che pongono i propri più stabili punti di riferimento commerciali a fianco di un castello o di un'abbazia, ma anche per iniziativa diretta della classe dirigente feudale laica ed ecclesiastica, si rivitalizzano antichi centri urbani decaduti o se ne fondano di nuovi. Le città diventano rapidamente sede, oltreché di più ampie attività commerciali, di una specifica attività produttiva artigianale, differenziandosi così profondamente dal modello parassitario delle antiche città dell'occidente latino; la crescita demografica lenta ma continua che ha caratterizzato i secoli precedenti provoca fenomeni di migrazione di un crescente numero di contadini sfuggiti al controllo signorile che costituiscono avanguardie di dissodatori in terre marginali dell'Europa. Gli stessi proprietari terrieri feudali concedono franchigie e “libertà” a questi pionieri disposti a mettere a coltura paludi e zone boschive, inaugurando, alla periferia del vecchio mondo feudale, l'epoca dei contratti agrari. Si rilancia, in risposta a questa fame di terra, l'idea di crociata che non investe soltanto il Medio Oriente e i luoghi santi ma, a occidente, dà slancio alla Reconquista cristiana della Penisola Iberica e a oriente provoca la conquista violenta di territori slavi e baltici non ancora cristianizzati ad opera dell'ordine monastico-militare dei cavalieri teutonici. Si potrebbe dire che la stessa impresa di Colombo, finanziata dai sovrani spagnoli al termine della Reconquista, si iscriva in questa logica di espansione della cristianità oltre i confini in cui era stata relegata nei secoli precedenti. In questo nuovo e dinamico contesto non mancano fermenti innovativi sul piano culturale che in larga parte trovano nelle città le loro sedi di elaborazione. Le scuole cattedrali e le università sono ancora monopolizzate da intellettuali chierici ma cominciano al loro interno a circolare nuovi testi e nuove fonti antiche grazie all'apporto delle traduzioni dall'arabo. Non soltanto il corpus delle opere di Aristotele torna così ad essere patrimonio della cultura occidentale, ma anche numerosi testi della tradizione scientifica ellenistica in campo astronomico, alchemico, ingegneristico e medico, oltreché alcuni apporti originali della cultura araba. Questa ventata di novità provoca effetti che, se non possono definirsi dirompenti, sono comunque significativi: la scienza cessa di essere soltanto meditazione sul testo sacro e acquista una sua autonomia sia in quanto rivolta anche a nuovi oggetti (la natura) sia in quanto dotata di un proprio strumento di indagine (la ragione naturale); i maestri delle facoltà delle arti rivendicano addirittura, con la teoria della “doppia verità”, un ruolo autonomo della filosofia nei confronti di tematiche di stretta pertinenza teologica, come l'origine dell'universo e il destino dell'anima dopo la morte; la sfera del mondano, del terreno, del transeunte, riacquista comunque un interesse per sé e non solo in funzione del suo destino ultraterreno. La più articolata dinamica sociale delle città produce anche l'emergere di tensioni e conflitti che investono lo stesso ideale cristiano e la sua consolidata configurazione ecclesiastica. Nuovi ordini religiosi, singole personalità e gruppi “ereticali” ripropongono, in polemica più o meno aperta con la Chiesa ufficiale, un modello pauperistico ed egualitario di vita cristiana che mette in discussione l'istituzionalità della Chiesa, il suo coinvolgimento nella gestione del potere, la gerarchia ecclesiastica, la stessa distinzione fra clero e laicato. All'interno di questi ambienti maturano in alcuni casi anche tematiche di polemica sociale che costituiranno, fra XIV e XV sec., la base ideologico-religiosa di tentativi di rivolta delle classi subalterne non solo nelle città ma anche nelle campagne. La riapertura delle vie commerciali mediterranee in competizione con il mondo islamico in crisi e l'apertura delle vie carovaniere di terra verso l'Estremo Oriente, avviata anche grazie alla pax mongolica, sono gli aspetti più spettacolari della cosiddetta “rivoluzione commerciale” del Medioevo europeo; ma quel che forse più conta è che l'Europa stessa comincia ad essere solcata dalle riattivate vie di terra e da rotte fluviali e unificata da nord a sud e da est a ovest da una rete di scambi assai intensi che conferiscono alla borghesia mercantile un carattere “cosmopolita”. Gli strumenti di questa unificazione commerciale (cambiali, agenzie all'estero, libri contabili) costituiscono gli elementi di un'originale “cultura del mercante” che, se pure non acquista per ora il riconoscimento e la dignità di cultura “alta”, contribuisce alla formazione di una coscienza unitaria in una categoria sociale che non trova posto nello schema tripartito ancora vigente. Prudenza, saggezza, lungimiranza, parsimonia, “misura” sono i valori che questa classe propone in alternativa alla grandiosità, magniloquenza e sperpero della cultura aristocratica e al puro trascendentalismo della cultura ecclesiastica; ma essa non è ancora in grado di dare la propria impronta alla civiltà del tempo ponendosi come antagonista rispetto alle tradizionali classi dominanti. La borghesia commerciale, per la natura della sua attività di pura intermediazione, è strutturalmente subordinata all'aristocrazia terriera e non può prosperare senza di essa; è evidente che i modelli culturali nobiliari costituiranno per lungo tempo dei poli di attrazione ben più che dei bersagli polemici. La fine della prima fase espansiva del Medioevo europeo si manifesta con eventi traumatici come la peste nera e il crollo conseguente della popolazione; si tratta in realtà di una crisi del meccanismo di sviluppo dovuta allo squilibrio tra popolazione e risorse all'interno di un modello agrario rimasto sostanzialmente estensivo: in esso la messa a coltura di terre meno fertili, il crescente fabbisogno alimentare della popolazione urbana, la frammentazione delle unità produttive, la chiusura delle frontiere “esterne” (resistenza delle popolazioni slave alla penetrazione germanica) non hanno avuto come compensazione l'aumento delle capacità di intervento tecnico sul suolo, e quindi l'intensificazione delle colture. Data la stessa dipendenza dell'economia urbana artigianale e mercantile dalla produzione di surplus in agricoltura, la crisi agricola si riversa pesantemente sulle città, spazzando via dinastie di mercanti e banchieri e incentivando, dove possibile, la corsa all'immobilizzo di capitali liquidi nell'acquisto di terre da parte della borghesia. La risposta dell'aristocrazia fondiaria europea alla crisi demografica, che rischia di mettere in forse le rendite conferendo al contadiname maggior potere contrattuale, è diversificata ma quasi sempre efficace. In alcune zone (come, per esempio, in Inghilterra) si favorisce l'allevamento ovino ai danni dell'agricoltura, dando avvio a un drammatico processo di espulsione della mano d'opera contadina dai campi e a fenomeni conseguenti di dilagante pauperismo, ma nel contempo ponendo le premesse per lo sviluppo di una manifattura laniera che può considerarsi il primo embrione dell'industria futura; nella maggior parte dei casi, invece, la risposta signorile consiste in un aggravamento degli oneri a carico delle masse contadine e dei livelli del loro asservimento, in una sorta di regressione storica cui è stato dato il nome di “rifeudalizzazione”. Le rivolte che questi processi producono vengono represse e al controllo sociale e militare sulle campagne contribuiscono le nuove strutture statali che nel contempo si vanno rafforzando in Europa: le monarchie nazionali. La ricomparsa di istituzioni di governo centralizzate che tendono a monopolizzare alcune funzioni pubbliche essenziali (fisco, emissione di moneta, amministrazione della giustizia, guerra) si accompagna all'elaborazione di un'ideologia sacrale del potere che raggiunge in Francia la sua espressione compiuta. La necessità per il sovrano di porsi al vertice della gerarchia degli “ordini” gli impone l'assunzione di un carisma che lo metta in rapporto non solo con i bellatores ma anche con gli oratores, cui risulterebbe altrimenti subordinato. Il carisma regio viene riconosciuto nella facoltà taumaturgica di guarire le scrofole con il tocco della mano, facoltà, questa, che i sovrani si trasmettono per via “naturale” all'interno della dinastia, pur essendo essa “attivata” dall'unzione cui il sovrano viene sottoposto al momento della sua incoronazione. I re “taumaturghi” si appropriano così di una parte delle funzioni sacerdotali, officiano, col tocco delle scrofole, un rito magico che li rende tramiti della sfera del soprannaturale, affermano, nei confronti della gerarchia ecclesiastica, il loro ruolo di “rappresentanti di Dio”. Parallelamente a questa ideologia religiosa si sviluppa una più laica concezione patrimoniale dello Stato, per cui il territorio controllato da un sovrano risulta essere di sua eminente proprietà e i sudditi semplici usufruttuari permanenti delle risorse del suolo, che il sovrano loro concede. Questa concezione, che riproduce il vecchio istituto del beneficio feudale come concessione regia, convive non senza tensioni con la più moderna visione della proprietà privata della terra, ereditata dal riscoperto diritto romano. La fine della pax mongolica e l'avanzata delle popolazioni turche fino agli stretti e all'Europa balcanica, impedendo al commercio europeo le tradizionali vie di terra e di mare verso oriente, forniscono una motivazione per le esplorazioni oceaniche avviate dal Portogallo e dalla Spagna alla ricerca di percorsi alternativi verso i Paesi delle spezie. Casuale e imprevisto risulta quindi l'evento forse più significativo di questa fase della storia europea, la “scoperta” del continente americano e l'avvio della sua conquista e colonizzazione, con tutte le conseguenze che esso ha comportato. Considerata da un punto di vista esclusivamente europeo, la colonizzazione dell'America è stata anzitutto all'origine di una vera e propria rivoluzione alimentare che ha prodotto un'estensione senza precedenti della gamma delle specie vegetali coltivabili e consumabili e, nel medio periodo, la nascita di mode e di nuove forme di mondanità (si pensi al caffè e al rito aristocratico del cioccolato). L'afflusso di metalli pregiati, accaparrati dai Paesi emergenti (Inghilterra e Olanda in primo luogo) sia attraverso la diretta rapina ai danni dei galeoni spagnoli sia attraverso il drenaggio dalla Spagna in virtù del commercio, ha consentito una gigantesca accumulazione di capitali disponibili per l'investimento in nuove attività produttive. Il genocidio delle popolazioni indigene americane ha reso indispensabile la tratta degli africani venduti come schiavi ai proprietari di piantagioni; il monopolio olandese e inglese del commercio degli schiavi ha contribuito all'afflusso di ricchezze in questi due poli dello sviluppo europeo e all'estensione “mondiale” del commercio: la “triangolazione” Europa-Africa-America (prodotti europei, in particolare armi, usati come mezzi di scambio per l'acquisto di schiavi africani; vendita di schiavi in America in cambio di prodotti coloniali; vendita dei prodotti coloniali sul mercato europeo) è stata a lungo lo schema portante del commercio internazionale. La presa di coscienza dell'esistenza di popolazioni, culture e civiltà fino ad allora ignorate ha determinato effetti contraddittori. Nella gran parte dei casi, infatti, la cultura europea ha reagito all'impatto con le realtà indigene affermando la propria superiorità in nome di valori religiosi (il possesso dell'unica religione “vera”), etici (la pratica di costumi “civili”), politici (l'esistenza di strutture statali complesse e gerarchiche) di contro alla barbarie indigena esprimentesi in religioni false e demoniache o addirittura nell'ateismo, in costumi riprovevoli come il nudismo, il cannibalismo, l'assenza della pratica del denaro e della nozione di proprietà, la mancanza di istituzioni politiche riconoscibili. Questa visione eurocentrica del mondo indigeno americano arriva in alcuni casi addirittura a porre in dubbio l'appartenenza piena di questi esseri alla specie umana, giustificandone l'asservimento e lo sterminio in quanto creature poste a metà strada tra l'animale e l'uomo. All'estremo opposto, ma in un'ottica analogamente eurocentrica, si colloca la posizione di quegli intellettuali, per lo più chierici, che, schierandosi a difesa degli indigeni dall'oppressione dei conquistatori, tendono a fornirne un'immagine idealizzata di creature innocenti e miti, tendenzialmente ascetiche e pure, assai più dei loro detrattori atte a fornire un esempio di cristianesimo autenticamente vissuto. Solo una ristretta cerchia di intellettuali prende spunto dalla constatazione della diversità dei modelli culturali esistenti per avviare una riflessione sulla relatività di molti dei valori che il mondo cristiano europeo ha considerato fino a quel momento assoluti, alla ricerca di ciò che, al di là delle varietà consuetudinarie, può considerarsi parte integrante di una comune natura umana. Il trauma che la parte più sensibile dell'intellettualità europea ha vissuto grazie al contatto con le culture amerindie viene accentuato da un altro evento, vissuto da molti come catastrofico ed epocale: la fine dell'unità religiosa europea con la Riforma protestante. Se la Riforma può essere considerata, da un punto di vista politico, come l'affermazione del primato del potere dei sovrani nazionali sul potere transnazionale della Chiesa, e dei principi tedeschi sul potere imperiale “straniero”, dal punto di vista culturale essa risulta essere un fenomeno assai più complesso. Vi confluiscono, infatti, sotto la spinta data da Lutero, le esigenze riformatrici dell'intellettualità, non solo laica, sensibile alla perdita di credibilità di un'istituzione ecclesiastica sempre più corrotta e mondanizzata, le istanze di ribellione sociale delle masse contadine sempre più oppresse, il bisogno della borghesia urbana di dotarsi di strumenti ideologici più consistenti per affermare un proprio autonomo ideale di vita. L'appropriazione che dell'ideale religioso della Riforma hanno fatto i principi tedeschi e alcuni sovrani europei, attuando un rinnovamento dall'alto che ne espunge gli aspetti più radicali, non toglie che la coscienza religiosa europea ne sia stata profondamente influenzata. Il rifiuto della Chiesa-istituzione in nome di un'idea di Chiesa come comunità dei credenti; il principio della libera lettura da parte dei laici della Scrittura non filtrata attraverso autorevoli interpretazioni; il primato della coscienza morale del cristiano che, pur essendo un suddito obbediente nel corpo, non può rinnegare per obbedienza le sue convinzioni e rivendica quindi libertà di coscienza; l'idea dell'appartenenza alla Chiesa solo per libera adesione, che esclude coazioni o persecuzioni di dissidenti; la negazione della meritorietà delle opere che contribuisce a svalutare il ceto dei “professionisti del sacrificio” (monaci, eremiti, cenobiti, flagellanti), a rivalutare la banale attività quotidiana del cristiano dotato di fede e a smascherare l'ipocrisia di un rapporto “mercantile” con Dio basato sul principio del do ut des: sono tutti questi elementi che entreranno a far parte del patrimonio della cultura europea e non solo nelle zone riformate, ponendosi a fondamento di una nuova visione del mondo. Il sec. XVII vede da una parte il grande sforzo di normalizzazione e controllo da parte delle istituzioni politiche che instaurano rigide forme di censura sui comportamenti e sulle espressioni di opinione dei sudditi e da parte delle istituzioni ecclesiastiche cattoliche e riformate che rilanciano un modello di Chiesa autoritario e pervasivo. Nel mondo protestante il conflitto con il “paganesimo” delle campagne si esprime nella persecuzione della stregoneria e l'evangelizzazione passa attraverso l'alfabetizzazione delle masse contadine, messe così in condizione di accedere al testo sacro; nel mondo cattolico l'assalto al paganesimo rurale ricopre il territorio di pievi e di parrocchie garantendo una capillare presenza del clero, anche attraverso l'attività di nuovi appositi ordini religiosi, e il tentativo di penetrazione culturale negli ambienti popolari si manifesta piuttosto nelle forme di una religiosità patetica e commovente, attraverso un'iconografia rigidamente controllata sul piano dell'ortodossia ma che lascia ampi spazi all'emotività. Tutto ciò non impedisce lo sviluppo di una cultura parallela, in parte clandestina e in parte soggetta a rischi di pesante persecuzione, che trova dapprima la sua maggiore espressione nel campo delle scienze naturali per poi diventare modello per un'indagine che investe l'uomo e il suo mondo. La rivoluzione copernicana perde la sua innocuità di ipotesi matematica e diventa una nuova teoria cosmologica; ciò fa perdere alla Terra non solo la sua centralità, ma il suo rango di unica sede della storia sacra e profana, inducendo l'ipotesi di una pluralità di mondi abitati in un universo sempre più vasto e popolato di una uniforme materia. Al modello qualitativo, finalistico e gerarchico della fisica di Aristotele, fatto proprio dalla Chiesa cattolica, si sostituisce un modello quantitativo e meccanico basato sulla nozione di legge come relazione matematica costante fra variabili fisiche; la tradizionale concezione qualitativa della materia viene soppiantata da un rinascente atomismo che consente lo sviluppo della nuova scienza chimica; il computo biblico del tempo dell'universo, misurato sui giorni della creazione e sulle generazioni dei patriarchi, viene smentito dalle osservazioni geologiche e paleontologiche e il tempo del mondo assume dimensioni estremamente più dilatate; il corpo umano, alle ricerche degli anatomisti, si rivela un mirabile congegno meccanico; alla metodologia basata sull'autorevole testimonianza degli antichi si sostituisce, in forme sempre più raffinate, il metodo sperimentale. La rivoluzione scientifica, contrastata e perseguitata dall'establishment politico e religioso, contribuisce a produrre una mutazione profonda nella mentalità: l'indagine libera da pregiudizi e sorretta dal senso critico può rivolgersi anche a campi che precauzionalmente non ne erano stati finora investiti. Questo processo è favorito dai mutamenti profondi che, seppure in modo disomogeneo nelle diverse zone dell'Europa, investono le strutture economiche, sociali e politiche tra XVII e XVIII sec., anche a seguito di una nuova grave crisi che si manifesta, secondo modalità tradizionali, in carestie, pestilenze, disordini sociali ed elevata conflittualità fra Stati nazionali. La crisi in questo caso non genera ovunque un ripiegamento sul vecchio modo di produzione, ma determina in alcune zone (Olanda, Inghilterra, parzialmente Francia) la diffusione di nuove, più efficienti tecniche agronome (introduzione di colture foraggere, abolizione del maggese, estensione dell'allevamento bovino) e l'avvento di forme di forme di conduzione capitalistica delle proprietà da parte della stessa aristocrazia fondiaria o a opera di una classe emergente di affittuari borghesi. La scelta dello sfruttamento intensivo della terra esige l'abolizione di quelle forme residuali di collettivismo agrario che consentivano l'usufrutto di parti incolte della proprietà da parte di contadini senza terra e dell'intera comunità di villaggio; la privatizzazione integrale delle terre comuni e l'abolizione degli usi civici determina pertanto la rovina di ampi strati di contadiname povero nelle campagne e, in alcune zone dell'Europa, la crisi definitiva di quel che era rimasto della piccola proprietà indipendente. Viene così a formarsi una nuova classe sociale di nullatenenti impiegabili come manodopera salariata. Alla rivoluzione agraria seguirà a breve scadenza in Inghilterra la rivoluzione industriale, destinata a modificare radicalmente il volto dell'Europa a seguito della sua diffusione nel sec. XIX. Alla fine del sec. XVII la prima rivoluzione politica della storia europea inaugura altresì in Inghilterra un nuovo modello di monarchia parlamentare. In questo contesto in rapido mutamento la cultura inglese diventa pioniera di mutazioni profonde che nel sec. XVIII danno vita a un nuovo fenomeno europeo: l'illuminismo. Una scienza nuova, l'economia politica, nasce con l'intento di individuare le leggi di funzionamento dei rapporti economici fra gli uomini, sul modello delle scienze naturali. Essa teorizza la libertà di iniziativa come valore assoluto, concepisce, in termini rigorosamente laici, la società degli uomini come un mercato in cui le relazioni interpersonali sono ricondotte a scambio di merci, valorizza il lavoro come unica fonte di ricchezza e l'egoismo individuale come parte indispensabile di un armonico e razionale progetto collettivo. Si sviluppa il pensiero liberale, che concepisce l'individuo come dotato di diritti naturali inalienabili (vita, libertà, proprietà) e conseguentemente lo Stato non più come patrimonio e “possesso” del sovrano, ma come istituzione giuridica finalizzata a garantire il massimo godimento possibile dei diritti individuali. In questo ambito si elabora la nozione di “cittadinanza” (in opposizione a quella di “sudditanza”), per cui l'individuo titolare di diritti che vive all'interno di una società non può non partecipare, direttamente o indirettamente, all'elaborazione delle regole comuni che costituiscono la garanzia dei diritti di ciascuno. La legge, unica vera sovrana, non è più quindi emanazione di una volontà arbitraria, ma della volontà espressa dai cittadini o dai loro rappresentanti eletti. Si afferma il principio della laicità dello Stato, dapprima nei termini limitativi della tolleranza religiosa e poi sempre più chiaramente nella teorizzazione della necessaria separazione fra Stato e Chiesa. Contestualmente si diffonde con il deismo una visione razionale della religione che si propone di superare gli aspetti “positivi”, rituali e convenzionali dei diversi culti per affermare alcuni principi universali unificanti. Con la stampa periodica si realizza un nuovo modello di comunicazione, su tematiche finore riservate agli “addetti ai lavori”, rivolto a un pubblico assai più vasto che comincia così a costituire un'opinione pubblica. Con la Rivoluzione francese, avvertita in tutta Europa come evento epocale, il concetto di diritti naturali inalienabili dell'individuo viene solennemente sancito e reso operante attraverso carte costituzionali che stabiliscono le regole fondamentali del patto sociale: si afferma così la nozione di Stato di diritto. Si apre altresì, all'interno dello schieramento rivoluzionario, uno scontro, spesso drammatico e comunque non più puramente teorico, fra liberalismo e democrazia. Da una parte si pongono, cioè, i sostenitori di un modello di Stato liberale capace di garantire, attraverso le fissazioni di regole formali, l'esercizio dei diritti civili individuali, riservando ai proprietari il ruolo di rappresentanti della nazione dotati di diritti politici esclusivi. Dall'altra parte si pongono coloro che rivendicano il carattere universale anche del diritto di partecipazione alla formazione della legge; tra questi, alcuni contestano il valore di una democrazia meramente politica basata sulla diseguaglianza sociale e, nella convinzione che l'uomo acquisisca, entrando in società, nuovi diritti oltre a quelli naturali, attribuiscono allo Stato di tutti i cittadini il compito di provvedere attivamente a rimuovere tutti gli ostacoli per l'esercizio di un reale diritto di cittadinanza e la realizzazione del massimo di eguaglianza possibile. Se la prospettiva liberale risulta nel medio periodo vincente, anche grazie all'opera napoleonica di “esportazione” dei principi ispiratori della rivoluzione nel resto d'Europa, il dibattito rivoluzionario può considerarsi matrice dell'analogo dibattito che si sviluppa nel corso del secolo successivo nel continente europeo. A tali sviluppi di carattere teorico si accompagna la crescita delle rivendicazioni, delle lotte e delle realizzazioni politiche in senso democratico, a partire dalla generalizzazione del suffragio universale, che si è verificata nei due secoli successivi alla rivoluzione francese dapprima nell'ambito prevalentemente europeo e poi su scala mondiale. La civiltà borghese che si afferma in Europa nel sec. XIX, nonostante i ripetuti tentativi da parte del vecchio mondo aristocratico di frenarne il corso, risulta pertanto figlia della rivoluzione industriale inglese e della rivoluzione politica francese e la sua più caratteristica espressione ideologica sarà l'idea di progresso.
Nuovi modelli socioculturali dopo la rivoluzione industriale
La rivoluzione industriale, nella sua diffusione europea, porta con sé nuovi modelli abitativi (le città industriali con i loro problemi igienico-ambientali), trasforma il volto delle campagne nelle aree di diffuso insediamento manifatturiero, spezza e modifica antichi ritmi lavorativi stagionali e “solari” sostituendovi il tempo uniforme dell'orologio di fabbrica, velocizza gli spostamenti nello spazio di uomini e cose grazie ai nuovi mezzi di trasporto a vapore. L'aumento della produzione, grazie alla diffusione e al perfezionamento delle macchine in essa impiegate, determina un crescente ottimismo circa le capacità umane di assoggettare la natura ai propri fini e di garantirsi un sempre maggiore benessere. La stessa nozione di progresso e di civiltà tende a coincidere con quella di sviluppo tecnologico e di accumulazione di beni consumabili; gli stessi primi critici della civiltà industriale non sono estranei a questa concezione e considerano il problema in termini di costi sociali dovuti all'iniqua distribuzione tra le classi. Da questo punto di vista la cultura europea ripropone il proprio confronto con le culture “altre” in termini di “sviluppo” e “arretratezza”, coniando la nozione di “primitivi” per quei popoli che non hanno avviato una rivoluzione tecnologica. Analogamente la divisione del lavoro, caratteristica della civiltà industriale, in quanto matrice di civiltà complesse e articolate, gerarchiche ma dotate di interna mobilità, efficienti e organizzate, diventa misura dell'arretratezza di quelle società che queste caratteristiche presentano meno accentuate o sembrano possedere affatto. L'evoluzionismo, nella sua versione ideologico-filosofica, risulta la migliore espressione di questa visione del mondo: esiste un'unica linea di sviluppo e di civilizzazione lungo la quale le popolazioni di tutto il mondo possono muoversi e lungo la quale esse sono attualmente disposte. Questa linea evolutiva ha una direzione, un “verso”, e su di essa si dà, quindi, un “prima” e un “poi”, un “indietro” e un “avanti” che segnano i gradi di superiorità e di inferiorità di ciascuna civiltà. Se quella europea si considera la più “avanzata”, questo dà all'Europa il diritto-dovere di intervenire presso le civiltà più arretrate per aiutarle a procedere nel cammino prefissato. Il “fardello dell'uomo bianco” costituisce così una versione laica della tradizionale missione evangelizzatrice a sostegno della nuova gigantesca espansione coloniale che perverrà, entro il sec. XIX, alla spartizione di interi continenti fra le potenze europee. Matura nel frattempo, dapprima in forma utopistica e poi scientifica, una cencezione antagonista del mondo che fa capo al concetto di contraddizione come molla del divenire storico ricollegandosi all'elaborazione dell'idealismo tedesco. La contraddizione principale viene individuata qui nel conflitto che oppone nella storia le classi dominanti alle classi oppresse e, nella civiltà contemporanea, i capitalisti ai lavoratori salariati. In questa concezione sono la proprietà privata dei mezzi di produzione e la valorizzazione del capitale come fine ultimo della produzione a costituire il limite alla piena espansione delle potenzialità liberatorie per la specie umana insite nella civiltà industriale. Questa, infatti, grazie all'aumento della produttività dovuto all'uso delle macchine nel processo di produzione, ha creato le condizioni per una liberzione dell'uomo dalla schiavitù del lavoro necessario alla sua sussistenza, riducendone significativamente i tempi, e aperto la strada alla realizzazione polivalente e libera della sua attività propriamente umana; il capitalismo, quindi, risulta essere l'ostacolo sulla strada della liberazione della specie umana e alla classe operaia, cui spetta il compito di abbattere il modo di produzione capitalistico, è affidata pertanto una missione emancipatrice che riguarda non essa soltanto ma l'intera umanità. La fine del sec. XIX e l'inizio del Novecento vedono emergere all'interno della cultura borghese istanze critiche e tendenze irrazionalistiche che mettono in discussione l'ottimismo “ufficiale” ma nel contempo forniscono strumenti ideologici per l'affermazione di istanze nazionaliste di tipo aggressivo che sfoceranno in due guerre mondiali. L'idea di nazione, che nella prima metà del secolo aveva avuto significato democratico come affermazione del diritto di autodeterminazione dei popoli europei (identificabili sulla base di connotazioni linguistico-culturali di carattere storico), schiacciati all'interno di imperi multinazionali arcaici e oppressivi, subisce una profonda modificazione. Si accentuano gli elementi biologico-razziali di identità nazionale, con le connesse intolleranze per i “diversi” fino all'antisemitismo razzista, e si propugna un “ideale” di competizione, anche militare, fra Stati nazionali per il dominio del mondo, che pone in secondo piano, o pretende di azzerare, i conflitti sociali presenti all'interno di ciascuno Stato. Si ripropone (e sarà questa la matrice, tra le due guerre, dell'ideologia fascista) un'immagine organicista della società e dello Stato in cui gli interessi dei singoli e delle classi sociali vengono subordinati al superiore interesse della nazione, il quale, a sua volta, risulta identificato con l'espansione militare. L'irruzione delle masse sulla scena politica a seguito della prima guerra mondiale e della Rivoluzione russa, da molti intellettuali vista come sintomo di decadenza e di imbarbarimento, viene peraltro esorcizzata con la messa a punto di regimi politici autoritari di tipo totalitario fondati sulla mobilitazione popolare e sull'organizzazione del consenso nei confronti di capi carismatici. L'uso dei nuovi strumenti di comunicazione di massa (radio, cinema) consente a questi regimi di inaugurare l'era della politica-spettacolo e di usufruire di nuovi potenti mezzi di formazione dell'opinione pubblica. Gli orrori della seconda guerra mondiale pongono la coscienza europea di fronte a una nuova, più profonda crisi di identità e impongono una revisione dei valori che ne hanno ispirato la condotta nella prima metà del secolo. Ma dal secondo dopoguerra le voci che compongono il quadro della cultura mondiale si sono moltiplicate e l'Europa ha perso la sua centralità e la sua egemonia per diventare parte di un più ampio e articolato contesto.
Bibliografia
Per la geografia
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Per l’etnologia
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Per la preistoria
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Per la storia
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