Àrabi
IndiceDefinizione
Nome che viene dato a un insieme di popolazioni che hanno in comune il tipo fisico e la lingua (l'arabo), stanziate dall'Africa sett. all'Arabia, alla Siria, all'Iraq. Pur avendo una comune matrice culturale dovuta alla grande forza unificatrice della religione islamica, gli Arabi hanno oggi costumi diversi da gruppo a gruppo, in quanto hanno risentito dell'influsso delle genti con le quali sono venuti a contatto nel corso dei secoli (Latini, Greci, Bizantini, Berberi, Persiani, Turchi, ecc.). Vi è sempre stata una netta differenza tra gli Arabi sedentari (ḥaḍar, cittadini, e fellāḥīn, contadini) e nomadi (badawīo ʽarab): i secondi hanno conservato più puri i caratteri culturali originari (Beduini), anche se oggi viene praticata una sorta di seminomadismo locale solo da alcuni gruppi stanziati nel deserto algerino-tunisino, nel Sudan, nella Giordania e nell'Arabia. I contadini hanno acquisito, soprattutto nelle città, costumi e modi di vita che in parte riecheggiano archetipi asiatici e in parte forme tipicamente europee. Nei villaggi prevale un modo di vita patriarcale; molto forte è l'influsso della morale islamica e spesso la posizione della donna è ancora arcaica, condizionata dalle leggi musulmane, anche se sono scomparse l'antica poliginia e la schiavitù domestica. I villaggi sono raggruppati, spesso, intorno a una moschea e sono costituiti dalle tipiche case a pianta quadrangolare, con tetto piatto, fatte di blocchi di pietra non squadrati; tra i nomadi si usa ancora la tenda poligonale.
Arabi. Astrolabio degli inizi del sec. XIV (Firenze, Museo della Storia della Scienza).
De Agostini Picture Library/G. Dagli Orti
Arabi. Una predica di Maometto dal pulpito della moschea (Edimburgo, University Library).
De Agostini Picture Library
Arabi. Studiosi nella biblioteca di una moschea, da un manoscritto arabo del sec. XII (Parigi, Bibliothèque Nationale).
Parigi, Bibliothèque Nationale
Storia: l'Impero arabo
Il nome Arabi, comparso verso il sec. IX a. C., significava nomadi e si riferiva a popoli della Penisola Arabica, di lingua semitica, emigrati da tempo verso la Mesopotamia o il corridoio siro-palestinese e ormai avvezzi alla vita sedentaria. Già gli Ebrei distinguevano all'inizio del I millennio a. C. gli Arabi nomadi del nord e del centro da quelli più civili e spesso sedentari dell'Arabia sud-occid. dove si erano sviluppati floridi regni. Alcuni secoli più tardi in questo ambiente paganeggiante, idolatra e materialista si impose Maometto (sec. VII), il fondatore della religione e del movimento islamico. Fu quindi compito dei primi califfi (successori) ristabilire l'unità araba, già conseguita dal Profeta, soffocando la ribellione di alcune tribù beduine; col secondo califfo ʽOmar ibn al-Khattāb incomincia infatti la creazione di un grande impero. In poco più di un decennio (634-46) gli Arabi estesero il loro dominio dall'attuale Libia all'altopiano iranico, sbaragliando Bizantini e Persiani. La nuova amministrazione, ordinata e non eccessivamente vessatoria, apparve ai popoli sottomessi quasi sempre preferibile all'antica. Le conquiste, continuate con i califfi ʽOsmān e ʽAlī ibn Abī Ṭālib, sotto il quale più vive si riaccesero le discordie, portarono gli Arabi sino ai confini dell'India, alla Tunisia e alla Nubia. Con gli Omayyadi, sotto il cui califfato (661-750) l'area islamica si estese ancora verso l'Asia centr., lungo tutta l'Africa sett. e sino alla Spagna, l'aspetto religioso impallidì e s'impose la concezione, ben più terrena, di un assolutismo solidamente organizzato. Fu questo il vero impero arabo: infatti, benché la capitale fosse a Damasco, l'elemento arabo predominava nel governo, negli eserciti, nell'amministrazione . Col tempo però le popolazioni islamizzate, spesso più colte, minacciarono quella supremazia degli Arabi che, vera base della prima espansione islamica, ebbe termine con l'avvento degli Abbasidi, quando la capitale passò da Damasco a Baghdad; la cultura divenne allora arabo-islamica, l'unità raggiunta dai califfi omayyadi si spezzò in breve e l'Impero musulmano si ridusse a un mosaico di Stati spesso in lotta fra loro. A partire dalla prima metà del sec. IX i valori culturali tipicamente arabi si fusero con civiltà diverse, a volte remote, con le quali, attraverso la conquista, gli Arabi erano venuti a diretto contatto. È questo il caso della Sicilia, conquistata e tenuta per due secoli dagli Aghlabiti, o il caso della Spagna, occupata nel sec. VIII dagli Omayyadi, dove la presenza araba (fino al 1492) diede vita a una cultura particolarmente feconda e originale, elemento base nella formazione della nuova Europa. Verso la fine del Medioevo il mondo arabo era già in grave crisi. Sin dal tempo dei Selgiuchidi (sec. XI) l'iniziativa militare e politica era passata dagli Arabi ai Turchi: essi soltanto avevano seriamente ostacolato i progressi dei crociati. Curdo di nascita era il Saladino, che alla fine del sec. XII riunì, in un impero ancora formalmente arabo, Egitto, Siria, Mesopotamia e Yemen; ma nel sec. XIII anche questo impero doveva finire sotto il regime dei pretoriani turchi, i Mamelucchi, cui seguirono, nei primi decenni del sec. XVI, gli Ottomani che conquistarono le terre arabe dell'Asia. Dapprima la Siria (1516) e l'Higiaz, in seguito l'Iraq (1534) e lo Yemen entrarono a far parte dell'immenso Impero ottomano. Soltanto le aree meno appetibili del Deserto Arabico rimasero ai Beduini. Anche negli ultimi decenni del Seicento, quando l'Impero ottomano entrò in crisi, gli Arabi non tentarono di trarre profitto dalla situazione. In quei secoli di decadenza l'unico moto veramente arabo fu il sorgere della Wahhabiyya: fenomeno religioso nelle sue origini, legata al desiderio di una riforma dell'Islam che gli restituisse la primitiva purezza, divenne la molla per una ripresa dell'espansione beduina e autenticamente araba. Tra i sec. XVIII e XIX il movimento wahhabita, sotto la guida degli Ibn Saʽūd, emiri del Neged, estese la sua influenza all'Higiaz e minacciò la Siria e l'Iraq, finché nel 1818 fu sconfitto da Muḥammad ʽAlī e costretto a riparare nei deserti dell'Arabia. Perduta, per così dire, l'occasione wahhabita, la rinascita araba avvenne sotto un altro segno, quello della penetrazione culturale, politica ed economica dell'Occidente. Particolarmente ricettiva fu a questo proposito l'area sirolibanese, dove alcune Chiese cristiane autocefale erano state attratte nell'orbita di Roma durante i sec. XVII e XVIII. L'intensificarsi dei contatti con l'Europa permise, a partire dagli anni intorno al 1840, un profondo rinnovamento culturale, cui non fu estranea l'occupazione della Siria, nel corso del decennio precedente, da parte di un Egitto che, su impulso di Muḥammad ʽAlī, conduceva un vigoroso esperimento di modernizzazione e promuoveva una politica favorevole agli Arabi. Fin verso la fine dell'Ottocento il risveglio arabo si limitò prevalentemente al campo culturale e si rivolse all'esaltazione della grande tradizione letteraria e alla riscoperta del glorioso passato e solo dopo il 1870 le preoccupazioni politiche e religiose vennero in primo piano; in quel periodo l'élite culturale quasi esclusivamente cristiana che aveva promosso il primo risorgimento arabo dovette cedere il passo a un movimento nazionalista che, quasi sempre in una difficile simbiosi con il riformismo islamico, si era esteso agli ambienti musulmani. In questo clima nacquero un movimento d'opinione e alcune società segrete che ritennero di poter vedere concretate le loro speranze dalle vicende della guerra 1914-18. Quest'ultima costituì un'importante svolta della storia araba: la fine della dominazione turca, al cui crollo aveva contribuito anche la rivolta araba guidata dallo sceriffo della Mecca Ḥusayn ibn ʽAlī, parve coincidere con la creazione di un regno arabo di Siria sotto il secondogenito di Ḥusayn, Fayṣal.
Storia: la fine del sogno panarabo
La logica dell'imperialismo occidentale, che già nel corso dell'Ottocento aveva investito le terre arabe (la Gran Bretagna aveva conquistato Aden nel 1839 e si era assicurata il dominio del Golfo Persico, mentre la Francia era penetrata nel Levante, dove aveva ottenuto per i cristiani del Monte Libano una certa autonomia), spezzò queste speranze. Le due maggiori potenze europee si spartirono, sotto la copertura di mandati della Società delle Nazioni, i territori perduti dai Turchi al di fuori della Penisola Arabica. Libano e Siria toccarono alla Francia, Iraq e Palestina alla Gran Bretagna. Se quest'ultima riuscì a trovare un modus vivendi con i nazionalisti arabi (almeno per l'Iraq, il quale ottenne nel 1930 un'indipendenza formale, mentre per la Palestina, destinata a essere sede di un focolaio nazionale ebraico, non fu possibile raggiungere un accordo), al contrario la Francia fallì nei suoi tentativi. Soltanto la Penisola Arabica, teatro delle imprese di Ibn Saʽūd I culminate nella creazione dell'Arabia Saudita (1932), riuscì a sottrarsi in una certa misura al dominio imperialista. La II guerra mondiale pose in crisi, al di là dei suoi esiti immediati favorevoli agli Anglo-Francesi, l'assetto voluto dai colonialisti. Siria e Libano ottennero la piena indipendenza (1943). Si profilò anche, in parte in reazione al divide et impera imperialista, un moto panarabo che portò nel 1945 alla nascita della Lega Araba. Ma la Lega non era affatto in grado di offrire gli strumenti per superare le aspre rivalità che dividevano il mondo arabo. La nascita di Israele nel 1948, favorita dalla scarsa solidarietà interaraba, affrettò lo slittamento della direzione politica degli Stati arabi dalle mani delle oligarchie dominanti, feudali o borghesi che fossero, in quelle della piccola borghesia, spesso rappresentata, o appoggiata, dalla classe militare. La rivoluzione egiziana apparve, specialmente all'indomani di Suez, il coronamento di questa tendenza: la fede nei miglioramenti che poteva assicurare un'ideologia panaraba progressista ebbe una rapida diffusione. Ma le vicende dell'unione della Siria con l'Egitto (1958-61) e della rivoluzione irachena (1958) gettarono acqua sul fuoco degli entusiasmi. Nel 1963 il fallimento del tentativo di dar vita a una federazione a tre fra l'Egitto, la Siria e l'Iraq (in questi due ultimi Paesi s'erano impadroniti del potere i baasisti, seguaci di un'ideologia diversa per matrice ma non lontana da quella nasseriana) chiuse il capitolo dei sogni panarabi. Nel frattempo il colpo di Stato repubblicano che aveva avuto luogo nello Yemen aveva dato nuova esca ai contrasti fra i Paesi conservatori, che agitavano la bandiera panislamica, e quelli progressisti. D'altro canto le peripezie della guerra civile yemenita, cui venne posto fine soltanto nel 1970, impedirono la creazione del fronte unitario che alcuni Paesi arabi avrebbero voluto opporre a Israele. E così, quando nel 1967 lo Stato ebraico lanciò la sua guerra-lampo contro la Rep. Araba Unita (RAU), la Giordania e la Siria, la vittoria israeliana fu facilitata dai dissidi che minavano la comunità araba. I ripetuti fallimenti dei tentativi di dare una risposta comune ed efficace alla presenza israeliana su vasti territori arabi alimentarono da un lato il fenomeno della resistenza palestinese (sotto la guida dell'OLP) e dall'altro favorirono una limitata intesa tra i Paesi progressisti più direttamente interessati al conflitto con lo Stato ebraico. Gli avvenimenti successivi alla guerra arabo-israeliana del 1973, pur nella loro apparente contraddittorietà, diedero un'ulteriore prova del fatto che, al di là della diversità ideologica, il mondo arabo rimaneva sostanzialmente unito nella difesa del popolo palestinese. Nel 1974 la conferenza di Rabat riconobbe all'Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) il titolo di unico rappresentante degli interessi palestinesi avallando, con ciò, il suo operato anche a livello internazionale. Il fronte della solidarietà araba venne però messo ben presto in crisi dall'acuirsi del dissidio tra Libia ed Egitto e dallo scoppio della guerra civile in Libano con il coinvolgimento della Siria, il cui intervento (1976) fu tardivamente approvato dalla Lega Araba. Ma il fatto esplosivo che minacciò per un momento di destabilizzare tutto il mondo arabo fu il gesto dell'egiziano as-Sadāt, che sul finire del 1977 si recò a Gerusalemme per rivolgere alla Knesset (Assemblea nazionale) israeliana parole di pace. Il fatto venne interpretato come un tentativo di disimpegno dell'Egitto nei confronti dei Palestinesi. Si creò subito un “fronte del rifiuto” (1978) nel quale si strinsero i Paesi progressisti, mentre anche quelli più moderati (p. es. l'Arabia Saudita) si posero in posizione critica. Il piano di as-Sadāt, tenacemente appoggiato dal governo USA, si concretò in una “cornice” di accordi sottoscritti a Camp David fra il presidente egiziano, l'israeliano Begin e J. Carter e sfociò nel trattato di pace israelo-egiziano di Washington (26 marzo 1979). Negli anni Ottanta la lunga guerra di posizione fra Iran, che pure non può essere annoverato tra i Paesi arabi in senso stretto, e Iraq era motivo di spaccatura fra gli Stati arabi (con Libia, Siria e Yemen del Sud a favore degli Iraniani), portando in particolare alla costituzione, da parte dei Paesi petroliferi del Golfo (di orientamento moderato), di un Consiglio di Cooperazione volto a garantire la difesa dei comuni interessi commerciali: costato più di un milione di morti oltre alle notevoli risorse economiche e durato ca. otto anni, il conflitto aveva termine nell'agosto 1988 con una tregua a cui seguivano negoziati fra le parti con la mediazione dell'ONU. Ma il presidente iracheno Saddam Ḥusayn non rinunciava al suo progetto di porsi alla guida della “nazione araba” e innescava una crisi di vaste proporzioni invadendo e annettendo il Kuwait (agosto 1990). L'immediata richiesta di aiuto da parte dell'Arabia Saudita, che si vedeva direttamente minacciata anche sul piano militare, veniva raccolta dagli Stati Uniti preoccupati delle ripercussioni economiche legate alla produzione e distribuzione del petrolio; più in generale, però, l'azione di Saddam Ḥusayn incontrava l'opposizione di gran parte della comunità internazionale, anche per il mancato rispetto dei più elementari principi del diritto internazionale che l'invasione del Kuwait rappresentava. Il conflitto minava anche la solidarietà tra i Paesi arabi, alcuni dei quali (Arabia Saudita, Egitto, Siria) erano decisi a impedire il progetto egemonico di Saddam Ḥusayn, cui invece plaudivano nazioni più storicamente ostili al mondo occidentale. Giocava un ruolo, in questa divisione, anche la spinta fondamentalista che iniziava a montare e che trovava interlocutori proprio tra le masse insoddisfatte di quelle realtà nelle quali il processo di modernizzazione non aveva dato frutti tangibili alle popolazioni. L'ipotesi su cui sembrava aver puntato Saddam Ḥusayn, di una riunificazione araba contro l'Occidente e la stessa dinastia saudita, si infrangeva, però, con l'intervento dell'Egitto e della Siria accanto alle truppe internazionali che sotto il comando statunitense, e alla fine di un lungo braccio di ferro, portavano l'attacco direttamente sul territorio iracheno (guerra del Golfo,17 gennaio-28 febbraio 1991).
Storia: la questione palestinese
Le nuove alleanze formatesi nel mondo arabo in funzione anti Saddam aprivano nuove prospettive anche per la soluzione dell'annosa questione palestinese. Dal 1987, grazie all'Intifada(la rivolta delle pietre), la comunità internazionale aveva ripreso a interessarsi del problema dei territori occupati da Israele in seguito alla guerra del 1967. Le immagini dei giovani palestinesi che affrontavano l'esercito israeliano – e delle brutali repressioni che subivano – avevano fatto il giro del mondo suscitando una vasta solidarietà a favore dei rivoltosi. L'OLP e il suo leader ‘Arafāt avevano maturato posizioni nuove che si concretizzavano nel 1988 con l'accettazione delle risoluzioni dell'ONU relative al diritto all'esistenza dello Stato di Israele e, quindi, nel riconoscimento reciproco tra Israele e OLP, sancito nello storico incontro di Washington tra ‘Arafāt ee il premier israeliano Y. Rabin (settembre 1993). Il riconoscimento ma anche il nuovo quadro geopolitico mondiale e i nuovi rapporti di forza regionale favorivano l'avvio del processo di pacificazione dei rapporti tra Israeliani e Palestinesi e, grazie alla mediazione degli USA, si giungeva all'apertura di una conferenza di pace (Madrid, ottobre 1991). Un processo lungo e tormentoso che si sviluppava con alterne vicende e caratterizzato dall'esplodere di sempre nuove ondate terroristiche alimentate, nell'uno e nell'altro campo, dalle componenti più oltranziste sul piano politico e religioso. Ma era soprattutto dopo la nomina in Israele di Ariel Sharon alla guida del governo che i rapporti tra i due Paesi conoscevano una crisi gravissima: da una parte gli attentati dei kamikaze palestinesi contro gli Israeliani, dall'altra la reazione dell'esercito di Israele, che attaccava e occupava i centri posti sotto l'amministrazione dell'Autorità Nazionale Palestinese tenendo sotto assedio lo stesso ‘Arafāt, sembravano eliminare ogni possibilità di dialogo che neppure una proposta di pace dell'Arabia Saudita (2002), appoggiata praticamente da tutta la comunità internazionale, riusciva ad avviare. Più in generale il mondo arabo si affacciava al terzo millennio evidenziando una serie di squilibri economici, sociali e politici che nemmeno le potenzialità connesse allo sfruttamento del petrolio potevano, di per sé, risolvere. In queste contraddizioni si inserivano le attività di gruppi fondamentalisti che predicavano un ritorno ai caratteri originari dell'Islam e una completa sottomissione della società e della politica alla shari‘ah. Radicati negli strati più poveri della popolazione, questi gruppi rappresentavano un potente fattore di destabilizzazione dei regimi laici, o tendenzialmente tali, di alcuni Paesi arabi. Un fenomeno che assumeva caratteristiche vistose in Algeria, percorsa da una violenza che causava decine di migliaia di vittime, che destava molte preoccupazioni anche in Egitto e iniziava a riguardare la stessa Libia.
Religione
Fondamento della religione degli Arabi preislamici delle regioni sett. era la credenza in un dio supremo, Allāh. Sommerso da altre figure divine maschili e dallo sviluppo preso dai vari pantheon locali, Allāh vive lontano nel suo empireo, racchiuso in un'oziosa perfezione. La sua idea risponde all'esigenza degli Arabi di unificare le particelle del divino numen sparse in mille altre denominazioni in una figurazione divina assoluta, libera da troppi antropomorfismi e con un notevole grado di spiritualità. I nomadi lo veneravano con una parte delle offerte, distinta da quella per gli altri dei, e lo invocavano nei giuramenti. In processo di tempo però il concetto di Allāh non sfuggì a sovrastrutture antropomorfiche, quali, p. es., quella di essere padre di al-Lāt, di al-ʽUzzā e di Manāh. Queste anzi figurano in primo piano tra le divinità femminili: al-Lāt (o Ilāt o Allāt) aveva il suo culto in un santuario presso Ta'if; al-ʽUzzā aveva il suo santuario in Lakhla, ma il suo culto era diffuso fra i Quraish della Mecca, i Nabatei, a Petra e in molte altre tribù beduine; Manāh (o Manāt) era la divinità del destino e della morte. Altre divinità minori erano: Ruda, forse un'ipostasi di Venere; Hubal (o Hobal), l'idolo più venerato della Mecca: aveva forma d'uomo e si trovava nella Kaʽba (la citazione della Sūra 106 del Corano farebbe pensare a un'antropomorfizzazione di Allāh); Wadd (o Uadd), il dio-luna dei Minei, ma venerato anche presso i Lihyaniti; Rahīm, dio personale, qualificato come al-Raḥman (Misericordioso). Nelle regioni merid. dell'Arabia il panorama religioso appare estremamente frammentario, secondo i vari insediamenti agricoli o le trasmigrazioni dei nomadi. Fondamento della religione è una commistione fra culti nomado-pastorali con motivi astrali e culti propri alle culture agricole. Le divinità erano rappresentate con tratti antropomorfici molto accentuati richiamanti la figura del re o del signore, del padrone o del padre. Il pantheon del sud aveva in comune molte divinità con quello del nord. Particolari invece a queste regioni erano: il dio-luna, che si chiamava Ilumqud(ū) o Sin presso i Sabei e aveva un grande tempio a Mārib o Wadd presso i Minei, e Amm presso i Qatābāniti; Shams (o Shamsun), la dea-sole, denominata Aylat (l'altera); Athtar, il pianeta Venere, venerata in tutta l'Arabia merid. come dea che mandava la pioggia e l'abbondanza. A queste principali si aggiungevano numerose divinità tutelari di singole persone, di tribù, di località, di città, ecc. § Al nord i luoghi di culto (Harām, interdetto) erano protetti da un'interdizione che attribuiva loro carattere di sacralità. Il culto si esprimeva in corse attorno al betilo e in sacrifici di animali, a cui seguivano il pasto comune e il versamento del sangue ai piedi della pietra. Grande importanza avevano già i viaggi ai luoghi sacri. Il culto era esercitato dal capo del gruppo, non avendo il nomadismo favorito la formazione di un sacerdozio stabile. Nel sud, con l'abbandono del nomadismo, i templi sostituirono le oasi come spazi cultuali. Esisteva una classe sacerdotale con mansioni ben precise e associazioni di devoti, maschi e femmine, votati a particolari divinità; una terza organizzazione amministrava i beni del tempio. Fra le varie festività si ricorda l'Halfān, alla quale si presenziava solo dopo aver osservato minuziose regole di purità legale; i pellegrinaggi erano pure regolati da norme di penitenza e di purità; numerose le offerte. Diffusa era pure la pratica della magia per mezzo di amuleti e di statuine. § Le relazioni intercorrenti tra religioni arabe preislamiche e i caratteri arcaici delle altre religioni semitiche, come pure i vari contributi da esse apportati all'elaborazione di Maometto rendono interessante lo sforzo di evidenziare gli aspetti fondamentali della vita religiosa preislamica. In tal senso si sottolinea il carattere astrale di questa religione, proprio ai popoli nomadi nel deserto, che in particolare hanno bisogno della pioggia e della luce lunare, nelle notti durante la trasmigrazione. Alla Luna si aggiunge il pianeta Venere, stella di riferimento nelle notti illuni. Completa la triade divina il Sole, il quale però ha solo una funzione secondaria, perché il suo calore diurno è sentito come ostile, rendendo difficile il cammino e inaridendo le fonti. Prevalgono quindi la Luna e Venere che, permettendo l'attività vitale durante la notte, sono considerate una diade benevola. A quest'analisi non fa seguito da parte degli studiosi l'altro capitolo non meno importante sulla civiltà agricola che si è sostituita al nomadismo e che rimane, per larga parte, ancora tutta da ricercare.
Pensiero filosofico
L'Impero arabo incorporò, nel suo espandersi a tutto l'Oriente classico, territori appartenenti all'Impero persiano e una parte cospicua dell'Impero bizantino. Diverse tradizioni giunsero così in contatto fra loro e trovarono nell'Islam un terreno d'incontro. Il califfato di Harūn ar-Rašīd (786-809) vide l'inizio di un intenso sviluppo della civiltà islamica, che da queste diverse tradizioni trasse alimento. Da un lato, come reazione alla precettistica coranica, presto volta dalla commistione di autorità politica e religiosa propria dell'impero dei califfi a un formalismo arido, e come opposizione al dogmatismo dei teologi, sorse una corrente mistica, il sufismo (da sûf, il saio portato da questi religiosi musulmani), che predicava l'unione dell'uomo con Dio e il conseguente abbandono dell'amore di sé. Per questi mistici la conoscenza di Dio, che è adesione all'impulso suscitato dalla sua bellezza, è superamento di ogni conoscenza intellettuale in una gnosi che è fondamentalmente amore e possesso. Abbandono e fiducia in Dio sono l'effetto di questo ascendere a una conoscenza superiore a quella umana, che ritrova in Dio l'anima del mondo, non il primo degli esseri ma colui che contiene in sé tutto il mondo come suo fenomeno, sua apparenza. Già in questo indirizzo, vivo soprattutto nella Persia islamizzata, l'influenza del neoplatonismo, spesso nelle sue forme più prossime al cristianesimo, è assai percepibile. Ma accanto a questa mistica si sviluppa un pensiero più propriamente filosofico, che attinge anch'esso alla tradizione neoplatonica e si riferisce attraverso essa a un Aristotele reinterpretato, cosa resa agevole dalla presenza, tra gli elementi determinanti dello stesso neoplatonismo, dei tentativi di armonizzazione di Platone e Aristotele. Aristotele è il filosofo delle cose terrene, Platone di quelle celesti: già l'anonimo autore della Teologia pseudoaristotelica fa dire ad Aristotele che coronamento della sua filosofia è lo studio del procedere degli esseri da Dio, la cui luce si espande attraverso l'Intelligenza, l'Anima e la Natura, a tutto il reale. Altra fonte del pensiero arabo, e parimenti determinante per il suo indirizzo neoplatonico, fu il Libro delle cause, in realtà una traduzione degli Elementi di teologia di Proclo. In questo quadro la dottrina delle anime motrici dei cieli, di origine aristotelica, interviene a completare il quadro cosmologico in cui si muoveranno filosofi come al-Fārābī e Avicenna. A questi elementi greci si aggiungono poi eredità dell'antica religione persiana della luce: sia l'irradiarsi della bellezza divina nella concezione dei sufi, sia la concezione dell'azione di Dio come luce che si diffonde e, a poco a poco, allontanandosi dal suo centro, si oscura, risentono dell'influsso persiano. Si oppone invece a questo insieme di pensieri, tutti contribuenti a una visione del mondo come emanazione di Dio, una reazione degli elementi più propriamente islamici, volta a contrastare la concezione necessitaristica ed emanatistica di origine neoplatonica. Questi teologi, soprattutto attraverso la figura di al-Ash'arī (873-936), affermarono la discontinuità e l'atomismo come caratteri del reale: il reale è diviso in un'infinità di elementi separati tra cui non è possibile alcun rapporto diretto; solo l'azione creatrice continua di Dio, la sua continua presenza (opposta alla lontananza del Dio neoplatonico, la cui azione giunge al mondo attraverso molteplici mediazioni) consentono alle creature di sussistere. Tale visione si riallaccia per molti versi alle teorie dei Mutakallimūn, i “disputanti”, teologi musulmani spesso eretici che in vario modo, sin dal sec. VII, rappresentarono una corrente in larga parte estranea al pensiero greco. Ma ben maggiore importanza rispetto a queste tendenze religiose ha per il pensiero arabo la tradizione aristotelica. Essa, come si è detto, ha una forte impronta neoplatonica, ma conserva più diretti riferimenti ad Aristotele, destinati a riemergere in forma meno contaminata nella fase più matura della filosofia araba con Averroè. L'Aristotele storico giunge agli Arabi dapprima attraverso le traduzioni siriache, compiute prima della conquista dell'Asia anteriore da parte dell'Islam. A partire dal 750, alla corte degli Abbasidi inizia un'intensa attività di versione di testi classici in arabo, mediante la quale, accanto alle opere neoplatoniche come il Libro delle cause, si diffondono anche le opere autentiche di Aristotele. Gli Arabi possono così entrare in possesso di quasi tutto il corpus aristotelico (salvo gli scritti politici), di molti commentari antichi ad Aristotele, oltre che delle opere di Galeno e Plotino, del Timeo, della Repubblica e delle Leggi di Platone. L'importanza storica di tali traduzioni fu grandissima, perché attraverso esse l'Occidente iniziò la conoscenza diretta di Aristotele e del pensiero classico.
Pensiero scientifico
Tra i sec. VIII e XI si sviluppò nei Paesi del Vicino Oriente, Africa sett. e Spagna un movimento culturale, noto come “rinascimento arabo” che, assimilando il patrimonio scientifico delle antiche civiltà, trasmise al mondo occidentale le basi sulle quali sarebbe stata poi impostata gran parte della scienza moderna. Pur essendo i grandi studiosi che contribuirono a creare la scienza araba diversi per provenienza etnica e cultura, è senza dubbio valida la loro collocazione in un unico quadro per le numerose componenti comuni del loro pensiero, quale innanzitutto la lingua, usata anche da ebrei e cristiani, da cui derivò una precisa terminologia scientifica in seguito trasmessa ai popoli europei; notevole fu anche l'estensione degli interessi, tanto nella scienza pura quanto in quella applicata, che permise alla civiltà araba di realizzare importanti progressi pressoché in ogni campo della tecnica, introdotti via via nei Paesi conquistati. L'origine di questo movimento scientifico si può collocare verso la metà del sec. VIII con l'avvento della dinastia degli Abbasidi, i cui califfi incoraggiarono l'interesse verso la scienza, e con il ritrovamento delle opere scientifiche dell'antichità classica nei Paesi in cui si insediarono. Fonti certe della scienza araba furono prima di tutto i testi greci, passati in ambiente arabo attraverso traduzioni in siriaco e in persiano a opera soprattutto di comunità nestoriane e monofisite. Accanto a queste, gli Arabi poterono presto disporre anche di traduzioni di opere scientifiche provenienti dall'India, sembra tramite scienziati di origine iranica. Famosi a questo proposito i Siddhānta, testi astronomici datati intorno al sec. V e tradotti in arabo nel 775. Ma fu solo durante il califfato di al-Ma'mūn, con la creazione (832) a Baghdad di una vera scuola di traduttori (trasformatasi poi in università a cui venne affiancato un osservatorio astronomico) che il pensiero scientifico arabo assunse le sue precise caratteristiche di conservatore delle opere dell'epoca classica greca, per consegnarle, spesso rinnovate con contributi originali o mediati dalla scienza indiana, persiana e forse cinese, al mondo occidentale del basso Medioevo. Nel campo della matematica, l'influenza dell'India si rivela soprattutto nell'adozione del sistema numerico posizionale, introdotto poi in Occidente e ancor oggi in uso. Più che la terminologia e il simbolismo numerici, peculiari del pensiero matematico indiano sono l'istituzione del valore posizionale delle cifre e l'uso dello zero che consentirono una semplificazione e un'agevolazione dei calcoli. Di origine indù, piuttosto che greca, fu anche l'interesse ad approfondire lo studio dell'algebra: gli Arabi elaborarono infatti la teoria delle equazioni di secondo grado e diedero alcuni facili esempi di soluzioni per equazioni di terzo grado. Per quanto riguarda la trigonometria, se è probabile che gli Arabi siano debitori agli Indiani della nozione di seno, tuttavia furono essi a valorizzarla sostituendo al sistema greco delle corde quello fondato sulle funzioni di seno, coseno e tangente. Tra gli scienziati di maggior rilievo sono da ricordare al-Khuwārizmī (sec. IX) e ʽUmar Hayyām, più noto come ʽOmar Khayyām (m. ca. 1123), che posero le basi del calcolo algebrico, mentre soprattutto ad Abū l-Wafā' (939-998 ca.) e Ibn Yūnus (974-1009) si debbono la sistemazione della trigonometria e le prime tavole delle funzioni circolari. Nell'astronomia e astrologia gli Arabi profusero numerose energie senza peraltro conseguire risultati di grande originalità, sempre legati alla concezione tolemaica. Tuttavia, grazie agli importanti strumenti scientifici, come l'astrolabio, da essi inventati o perfezionati e con il ricorso ai loro nuovi metodi di calcolo, poterono compiere osservazioni continuative rettificando alcuni dati precedenti. Notevoli gli studi di al-Battānī (858-929) sulla precessione degli equinozi e di Abū l-Wafā' sulle variazioni lunari; celebri le tavole astronomiche di Ibn Yūnus e az-Zarqālī (1029-1087 ca.) e il libro delle stelle fisse di ʽAbd ar-Raḥmān aṣ-Sūfī (903-986), che ha permesso utili raffronti anche in epoca moderna. Nell'alchimia (il termine stesso è di origine araba) spetta agli Arabi il merito di aver indirizzato le ricerche verso metodi più razionali, con prevalente interesse pratico. A Geber (sec. IX-X) si devono sia alcune impostazioni teoriche molto vicine alla chimica moderna, sia indicazioni per la preparazione di acidi e sali usati nell'industria tessile e metallurgica, mentre gli studi di Rhazes (860-925 ca.) ebbero importanti riflessi soprattutto in farmacologia. La medicina, nella quale gli Arabi si riallacciavano alla via tracciata dalla scienza greca, ebbe i suoi maggiori esponenti in Abulcasis (936-1013) e Avicenna (980-1037). Del primo si ricordano gli studi di chirurgia, del secondo, noto anche come filosofo, il Canone di medicina ispirato a Ippocrate e studiato ancora nel Cinquecento. Un altro campo nel quale gli scienziati arabi ottennero risultati di rilievo fu quello della fisica sperimentale grazie agli studi di ottica condotti da Alhazen (965-1039) e alle ricerche per la determinazione dei pesi specifici condotte da al-Bīrūnī (973-1048), di cui è soprattutto nota una monumentale opera geografica sull'India. Altro campo nel quale gli Arabi acquisirono notevoli meriti è quello della geografia, da essi coltivata non solo in modo descrittivo ma anche come scienza metrica con la stesura di mappe e carte geografiche. Viaggiatori e geografi come Ibn Ḥawqal, al-Masʽūdī, al-Idrīsī e più tardi Ibn Baṭṭuṭa precisarono ed estesero le conoscenze relative sia ai Paesi affacciantisi sull'Oceano Indiano sia all'Africa occidentale e sahariana. Infine, vanno menzionati gli studi di scienze naturali, in particolare di mineralogia, esposti nelle numerose opere enciclopediche compilate in quel periodo, destinate a diffondere la scienza in tutto il mondo arabo.
Letteratura: l'età preislamica
I primi esempi di produzione letteraria araba risalgono al sec. VI e sono rappresentati prevalentemente da composizioni poetiche. Area di diffusione della letteratura preislamica è l'Arabia centrale e settentrionale. La poesia della Gāhiliyyah, cioè della barbarie o del paganesimo, come sarà chiamata dalle future generazioni musulmane l'età preislamica, ha elevato la lingua araba a dignità letteraria. Fin dalle prime attestazioni la poesia appare artisticamente matura e fa presupporre un'evoluzione di cui non si hanno testimonianze. La metrica è perfettamente sviluppata quantitativamente in una serie di schemi a base dei quali è l'elementare ritmo giambico del raǧaz evolutosi da un più arcaico ritmo saǧʽ (prosa cadenzata e ritmata), che si è forse originato dalla cantilena del cammelliere. Questa poesia è stata tramandata oralmente e solo due secoli dopo è stata fissata per iscritto; ciò ha causato non poche interpolazioni e falsificazioni. La tematica di tale antica poesia beduina tocca i motivi fondamentali dell'animo umano: l'amore, la morte, la natura, l'uomo e il suo posto nell'universo. Caratteristiche dei primitivi cantori beduini sono il vanto di sé o della tribù (fahr); l'encomio (madīḥ); la satira dell'avversario (hiǧā') e il motivo sentenzioso. Gli affetti familiari, i vincoli tribali, consacrati specialmente nelle elegie (riṯā'), dove la sensibilità individuale traspare sotto la stilizzazione, sono espressi con vivacità. L'elemento descrittivo (waṣf) è però la caratteristica più peculiare di tutta la poesia pagana. Prima personalità storica è Imru' al-Qays (sec. VI), autore di una delle sette odi dorate (muʽallaqāt) secondo la raccolta poetica di Hammād'd ar-Rāwiya (sec. VIII). Ṭarafa è il secondo poeta dell'antologia ed è l'autore della più classica descrizione della cammella, motivo che sarà poi ripetuto in maniera perfino stucchevole da una pleiade di poeti. ʽAntara ibn Shaddād, ʽOmar ibn Rabīʽa, Zuhayr ibn Abī Sulmā sono altri tre campioni, o stalloni (fuḥūl) secondo l'immagine araba, di questa fase arcaica della poesia. Tra gli altri cantori beduini emerge il gruppo dei poeti ṣaʽlīk (pl. di sulūk, miserabile ladrone), banditi dalle rispettive tribù e datisi alla razzia e alla rapina. Essi si vantano della propria abiezione sociale e di infrangere il galateo e il codice cavalleresco beduini. ʽUrwa ibn al-Ward, vissuto in epoca di poco anteriore al sorgere dell'Islam, ha lasciato il ritratto di questi “maledetti”. Ta'abbata Sharran e Šanfarā, appartenenti alla stessa banda di predoni, impersonano meglio di altri la figura del sulūk. Šanfarā forse è autore di quella che la critica moderna considera la più bella poesia araba rimastaci: la cosiddetta Lāmiyyat al-ʽArab (Carme degli Arabi in rima lām). Accanto ai poeti beduini vanno ricordati i poeti di corte dei Gassanidi e dei Lakhmidi: an-Nābiġa ad-Dubyānī, Maymūn ibn Qays e il cristiano ʽAdī ibn Zayd, nei quali i contatti con ambienti culturali più evoluti temperano l'asprezza propria degli uomini del deserto. Spirito singolare fu Umayya ibn Abī ṣ-Ṣalt, uno di quegli animi religiosi (ḥanīf) né cristiani né ebrei che vagheggiavano una fede monoteista. Chiude degnamente la rassegna la malinconica poetessa al-Khansā', una delle voci più ispirate della poesia araba di tutti i tempi. L'antica prosa pagana è più intuita che documentata: la difficoltà della trasmissione orale di materiale non vincolato da schemi ritmici ne ha impedito la conservazione. Il primo vero monumento prosastico arabo è il Corano, fondamentale non solo come codice religioso e fonte del diritto islamico, ma anche come opera letteraria.
Letteratura: l'età di Maometto e degli Omayyadi
La letteratura araba di questo periodo si può considerare “nazionale”, cioè prodotta quasi esclusivamente da Arabi, anche se l'avvento dell'Islam costituì una svolta decisiva nello sviluppo della cultura araba, che si venne a inserire nel complesso culturale del Vicino Oriente. Nella poesia, pertanto, la predicazione di Maometto non portò a una frattura tra le concezioni dei poeti anteriori e quelli immediatamente posteriori, i cui temi e schemi rimasero in complesso quelli dell'età pagana. Il Profeta venne fatto oggetto di encomio, ma la struttura della qaṣīda rimase sostanzialmente immutata; solo sul finire di questo periodo si ebbe un'originale fioritura della lirica d'amore e del canto bacchico, premessa della nuova poesia. Maometto ebbe tre cantori ufficiali: gli higiazeni e musulmani Kaʽb ibn Mālik, ʽAbd Allāh ibn Rawāḥahe e Ḥassān ibn Tābit. Ma il più bel carme in lode di Maometto si deve a un pagano, Kaʽb ibn Zuhayr, che lo recitò in presenza del Profeta ricevendone il mantello (burda), donde è detto appunto Qaṣīda della burda. Poeti guerrieri, ma non epici poiché l'epica è estranea alla poesia araba, furono ʽAmr ibn Maʽdıkarib, Abū Miḥǧān e Abū Dhuayb, che espressero l'esperienza diretta delle battaglie per la conquista della Siria bizantina, dell'Egitto, della Persia sassanide e dell'Iraq in quadretti realistici, spesso colmi di saporosa comicità. Originale cantore del vino fu il califfo Walīd II (743-744), sovrano sconsiderato e crudele ma artista geniale, mentre tradizionalisti furono il cristiano al-Akhṭal (640-710), fedele alla dinastia musulmana e vigoroso autore di versi bacchici, Ǧarīr ibn ʽAṭiyyah (m. 732 ca.), dolce nell'elegia e volgare nell'invettiva, e l'avventuriero al-Farazdaq. Innovatori furono, invece, i cantori d'amore: soprattutto Ǧamīl, che cantò la bella Buṯhaynah, considerato il vero martire d'amore dalla tradizione araba, con Kuṯayyir e Nuṣayb, di sangue nero. Se in questi poeti beduini l'amore è condizione di vita, nel cittadino ʽOmar ibn Abī Rabīa (m. 720) lo spirito ironico e galante lo rende una piacevole avventura. Anche la prosa dell'epoca di Maometto e dei suoi primi successori conservò le forme già note della prosa preislamica e come questa è stata soggetta a rielaborazioni posteriori. Si tratta di massime, esortazioni, narrazioni, brani oratori, fra i quali non mancano quelli attribuiti allo stesso Maometto e ai primi califfi, privi di quegli eccessivi accorgimenti stilistici che renderanno la prosa posteriore a volte stucchevole. La feconda storiografia islamica ebbe in questo momento la sua origine sotto forma di ḥadīṯ (breve racconto canonico), per lo più sulla vita del Profeta e dei suoi primi compagni. Di una lunga serie di ḥadīṯ era costituita la Storia generale degli Arabi di Ibn Isḥāq (m. 768), di cui è rimasta solo la parte riguardante la vita del Profeta nella posteriore redazione di Ibn Hišām (sec. IX). Saggi di questa antica prosa si possono ancora ricavare dallo storico at-Ṭabarī (m. 923) che nei suoi annali trascrisse alla lettera molti brani di Abū Mikhnaf (m. 773).
Letteratura: il periodo abbaside
Allo Stato nazionale, nel quale gli Arabi rappresentavano, per diritto di conquista, l'elemento dominante, si sostituì una comunità cementata dalla religione e trascendente i limiti etnici e nazionali, della quale le popolazioni dei Paesi conquistati, ormai convertite all'Islam, erano divenute con pieno diritto membri. Ma appunto perché fondata sull'Islam, la nuova comunità non poteva rinnegare la cultura che di esso era stata la culla e la lingua che della rivelazione era stata lo strumento. Sia pure fra contrasti e a prezzo di compromessi, la cultura araba fornì la base di coesione alle culture dei popoli islamizzati, in primo luogo alla greca, alla siriaca e all'iranica (e, attraverso questa, anche all'indiana), permettendone una sintesi dalla quale sorse la cultura arabo-islamica. I cinque secoli (750-1258) di dominio degli Abbasidi videro la cultura arabo-islamica giungere al suo massimo splendore (nella seconda metà del sec. IX e nel X) per poi declinare, esaurito lo slancio creativo. Il periodo abbaside si identificò nello sforzo maggiore di rinnovamento del canto e delle forme poetiche, già in embrione in quello precedente. Sul finire del sec. VIII fiorì in Iraq la “moderna scuola” che contribuì a liberare la poesia dall'artificiosità strutturale della qaṣīda beduina, sostituendola con brevi componimenti autonomi. Corifeo di questo nuovo indirizzo fu l'iranico Abū Nuwās, un libertino geniale della corte di Hārūn ar-Rašīd, che cantò in prevalenza l'amore efebico. Degni di menzione sono: l'ascetico Abū l-ʽAtāhiya, i poeti d'amore Muslim ibn al-Walīd (m. 803) e ʽAbbās ibn al-Aḥnaf (m. 810). Nel sec. IX emersero il pessimista Ibn ar-Rūmī (m. 896), di origine greca, che nei suoi versi diede un documentato e realistico quadro della società in cui visse; il raffinato Ibn al-Muʽtazz (861-908), principe abbaside e per un giorno califfo; Abū Tammām (m. 845), al-Buḥturī (821-897), al-Mutanabbī, il siriano Abu l-ʽAlā al-Maʽarrī, che chiude la lunga serie dei geni creativi della Siria. In Spagna e in Sicilia la poesia subì le influenze di quella orientale, pur avendo caratteristiche particolari per il diverso ambiente in cui si sviluppò. La poesia arabo-andalusa di Spagna ci è giunta per lo più in citazioni antologiche che la rendono maggiormente preziosa. Ricordiamo gli esuli Ibn al-Andalusī (m. 972), Ibn Darraǧ; il cordovano Ibn ʽAbd Rabbihi (m. 939), Ibn Ḥazm, teologo e sommo giurista oltre che poeta, Ibn Zaydūn, il maggiore dei poeti neoclassici, il romantico al-Muʽtamid (1048-1095) e il malinconico Ibn al-Labbānah (m. 1113). Accanto a questa poesia, che ripete nei metri quella orientale, a partire dal sec. X si affermò in Spagna una nuova poesia strofica, dapprima in lingua letteraria, muwaššahāt, non sconosciuta anche in Oriente, poi in volgare, zaǧal, della quale il più illustre rappresentante fu Ibn Quzmān. Tale forma segnò l'evoluzione dalla poesia quantitativa verso quella accentuativa e presenta un marcato parallelismo con l'evoluzione della poesia romanza. La Sicilia musulmana ebbe alcuni poeti di un certo rilievo, come Ibn Ḥamdīs di Siracusa, esule in Spagna, e ʽAbd ar-Raḥmān, trapanese. Anche la prosa araba raggiunse in questo periodo la piena maturità; accanto alla prosa scientifica, puro veicolo di contenuti che ebbe i suoi massimi esponenti in al-Bīrūnī, il più grande scienziato del Medioevo musulmano, e nel teologo e giurista al-Ǧhazzālī, fiorì quella di adab o di varia umanità, che è prosa d'arte in senso stretto, dove il contenuto diviene mero pretesto per esibizioni stilistiche. Nella pleiade dei prosatori d'adab primeggiarono l'iranico Ibn al-Muqaffaʽ, che con le sue traduzioni di opere pahleviche e indiane fece conoscere agli Arabi le letterature orientali; il brillante e versatile al-Giahiz, il profondo at-Tawḥidi e at-Tanūkhī. La prevalente produzione prosastica di questo periodo ci è giunta in antologie di filologi e di grammatici: il Kitāb al-Kāmil (Libro perfetto) di al-Mubarrad (m. 899) e ancor più il Kitāb al-Aġhānī (Libro delle Canzoni) del grande Abū l-Faraǧ al-Isfāhānī ne sono esempi eloquenti. Puri artisti della parola furono invece Ibn Nubata (m. 984), al-Hamaḏānī (m. 1008) e al-Ḥarīrī: mentre il primo eccelse nell'eloquenza, gli ultimi due portarono alla massima perfezione la maqāma, breve racconto contenente una scenetta o episodio in origine realistico, narrato in raffinata prosa rimata. Anche la storiografia raggiunse in epoca abbaside la piena maturità; tuttavia la mancanza di sensibilità storico-critica vietò agli Arabi di superare lo stadio della mera compilazione e anche il massimo annalista, at-Ṭabarī, non fece che cucire pazientemente l'opera d'altri, rinunciando a ogni spirito critico.
Letteratura: la decadenza
Il periodo compreso fra il sec. XIV e il XIX segnò per l'arabismo una crisi profonda. La riconquista cristiana della Spagna e l'esautorazione dell'elemento arabo in Oriente da parte dei Turchi Ottomani privarono l'arabismo delle sue forze vitali; la lingua araba venne relegata a lingua liturgica e accademica, e l'arabismo come forza culturale e politica non si riprenderà che nella seconda metà del sec. XX. In poesia dominò la tendenza neoclassica; vennero imitati i vecchi poemi e alla mancanza di ispirazione si continuò a supplire con la ricercatezza della forma. Il nome più noto di questi secoli infecondi è quello di Ṣafī ad-Dīn al-Ḥillī (m. 1349), un poeta aulico che nessuno più legge. La cultura divenne mera erudizione (an-Nuwayrī, al-Qalqašandī, as-Suyūṭī); la prosa d'adab si fece sempre più antologica, ma come commento grammaticale e filologico a materiali precedenti; venne coltivata la geografia, che ebbe in Ibn Baṭṭuṭa una delle figure più singolari del tardo Medioevo islamico. Sempre nel campo della prosa letteraria è interessante il tentativo, l'unico del genere, del medico egiziano Ibn Dāniyāl di trasporre in forma letteraria i canovacci del popolare teatro delle ombre. Fra gli storici si incontra la personalità di maggior rilievo e originalità della letteratura araba di quest'epoca: il tunisino Ibn Khaldūn, il solo di tutta la storiografia arabo-musulmana che abbia inquadrato la storia in una visione teorica. Mentre la poesia e la prosa colta si impoverivano sempre più, in questo periodo fiorì rigogliosa la narrativa popolare, che ebbe il suo culmine verso la fine del sec. XV nell'opera più universalmente nota di tutta la letteratura araba: le Mille e una notte.
Letteratura: l'età della rinascita
Sino dalla seconda metà del sec. XIX i contatti con l'Occidente contribuirono grandemente alla rinascita della cultura araba, il cui processo di rigenerazione ebbe inizio con l'assorbimento e l'imitazione della cultura occidentale ma si risolvette in attività originale, non distaccata però del tutto dalla tradizione. Alcune vere e proprie dinastie di letterati, come i libanesi Bustānī e gli Yāziǧī, di cultura quasi sempre bilingue, contribuirono grandemente a diffondere la cultura occidentale. Nāṣīf al-Yāziǧī (1800-1871), purista ed elegante scrittore, dette tre figli alle lettere; Buṭrus al-Bustānī (1819-1883), lessicografo e politico, fondò la prima rivista in lingua araba, al-Ginān (I giardini) e la prima scuola nazionale laica. Suo figlio Salīm tentò di condurre a termine l'enciclopedia di tipo moderno da lui iniziata. Sulaymān al-Bustānī (1856-1925), di un altro ramo della famiglia, tra le altre opere annovera la traduzione integrale in versi dell'Iliade(1904). Accanto a questi benemeriti la fine del sec. XIX vide sorgere una fitta schiera di pubblicisti, per lo più esuli politici siriani trapiantatisi in Egitto e poi nelle Americhe, tra cui Adīb Isḥāq (1856-1885), Naǧīd al-Ḥaddād (1867-1899), Walī ad-Dīn Yegen (1873-1921), i quali dall'esilio contribuirono alla formazione di quel giornalismo siro-egiziano che ha avuto il suo massimo esponente in Gurǧī Zaydān (1861-1914), celebre autore di romanzi storici. Agli inizi del Novecento la scuola siro-americana, formata da coloro che non avevano voluto soggiacere al giogo ottomano e che ebbe nei libanesi Amīn ar-Rīhānī (1876-1940), Ǧubrān Khalīl Ǧubrān (1883-1931), Nasīb ʽArīḍa (1887-1946) i suoi primi e più significativi rappresentanti, abbandonò gli schemi della poesia tradizionale per più libere composizioni strofiche, facendo del dolore e delle meraviglie del mondo e del rimpianto della patria lontana motivo di canto. Vi appartennero, di una generazione più giovani, i libanesi Īlīyā Abū Māḍī (1889-1957) e Mīkhā'īl Nuʽaymā (1889-1986), poi fervidamente operoso in patria. In Egitto la moderna poesia è rimasta più fedele alla tradizione con Aḥmad Shawqī (1868-1932), Khalīl Muṭrān (n. 1949) e Ḥāfiẓ Ibrāhīm (1871-1932). Contemporaneo a questa generazione è il tunisino Abū l-Qāsim ash-Shabbī (1911-1934), la più singolare voce della letteratura dell'Occidente arabo. La figura più moderna della poesia egiziana contemporanea rimane quella di Abū Shādī (1892-1955), il quale fece della sua rivista Apollo una vera palestra di rinnovamento e di ricerca letteraria. In posizione autonoma rimasero i cosiddetti indipendenti, tra cui Ahmad Ramī (1892-1981) e ʽAlī Maḥmūd Ṭāhā (1902-1949). Nel Libano, epigona della scuola siro-americana, fiorisce in questi anni la poesia simbolista, fortemente influenzata dalla letteratura francese, che ha in Yūsuf Ghuṣūb (1893-1971), Saʽīdīd ʽAql (n. 1913) e Ṣalāḥ Labakī (1906-1955) i suoi migliori rappresentanti. In Iraq hanno raggiunto fama europea nei primi decenni del sec. XX az-Zahāwī (1863-1936), ar-Ruṣāfī (1875-1945), an-Naǧafī (1897-1977), di tendenza neoclassica. Ma proprio in Iraq, che è stato a lungo in seconda linea nella rinascita letteraria neoaraba, è sorta negli anni Cinquanta del sec. XX la più moderna poesia araba contemporanea, che ha rotto definitivamente gli schemi della metrica quantitativa e che ha nella poetessa Nāzik al-Malāʽikah (1923-1995) la teorica della poesia libera, e in Badr Ṣakir as-Sayyāb (1927-1964) il suo massimo rappresentante, nel quale è notevole l'influenza della lirica inglese, specialmente di Thomas Stearns Eliot. Degni eredi di questi poeti sono il siriano Muḥammad al-Māġūt (n. 1934), l'iracheno Sa‘dī Yūsuf (n. 1934), il marocchino Muḥammad Bannīs (n. 1948), l'egiziano Aḥmad ‘Abd al-Mu‘ṭī Ḥiğāzī (n. 1935). Ricca di vigoroso impegno politico è la poesia palestinese della Resistenza, che ha in Maḥmūd Darwīs (n. 1942), Samīḥ al-Qāsim (n. 1939) e Tawfīq Zayyād (n. 1932) i suoi più validi cantori. Nella produzione degli ultimi decenni del Novecento un posto di primo piano spetta ad alcune poetesse e scrittrici, dalla già citata Nāzik al-Malāʽikah, alla palestinese Fadwà Tuqān (n. 1927), alle libanesi Colette Khūrī (n. 1934) e Layla Baʽlabakkī (n. 1938), ad altre che stanno a confermare come la donna araba, benché ancora lontana dall'avere conquistato il posto che le spetta in campo sociale e politico, abbia conseguito notevoli successi in campo letterario. La prosa e la saggistica sin dall'inizio del sec. XX hanno avuto maggiore sviluppo in Egitto che in Siria con al-Manfalūṭī (1876-1924), al-Māzinī (1890-1949), e Maryam Ziyādah (Mayy) (1895-1941), la quale compose un Inno alle fontane di Roma. Veri maestri della narrativa egiziana contemporanea sono i fratelli Taymur, Muḥammad (1892-1921) e Maḥmud (1894-1973) ʽAbbās Maḥmūd al-ʽAqqād (1889-1964) e il celebre Ṭaha Husayn (1889-1973), ai quali si va accostando la generazione affermatasi nell'ultimo dopoguerra, da cui sono emersi Yūsuf as-Sibā ʽī (1917-1978), il più ribelle ai rigidi canoni linguistici della prosa araba, ʽAbd ar-Raḥmān ash-Sharqāwī (1921-1987) e Yūsuf Idrīs (n. 1927), interpreti della vita dei contadini egiziani, e soprattutto Nagib Maḥfūz (n. 1912), premio Nobel 1988, autore di romanzi di grande respiro per lo più ambientati al Cairo. La recente storia politica del Vicino Oriente alimenta il resto della produzione letteraria della regione. Attraverso le opere di libanesi e di siriani si può tracciare l'evoluzione della guerra civile libanese che ha prodotto una narrativa femminile degna della massima attenzione, da Emily Naṣrallāh (n. 1931), a Ghāda as-Sammān (n. 1942), a Ḥanān ash-Shaykh (n. 1945). Ma è soprattutto l'insoluta questione palestinese a influenzare poeti di tutto il mondo arabo, dal siriano Nizār Qabbānī (1923-1998) al siro-libanese Adonis (n. 1930), all'iracheno ʽAbd al-Wahhāb al-Bayyātī (1926-1999), al marocchino Abdellatif Laabi (ʽAbd al-Laṭīf Laʽabī) (n. 1942). Un posto a parte merita la letteratura palestinese oggi tradotta in molte lingue occidentali: tra gli autori della diaspora spiccano i nomi di Ghassān Kanafānī (1936-1972) e Ǧabrā Ibrāhīm Ǧabrā (1920-1994), tra i residenti nello Stato israeliano, Emīl Ḥabībī (1922-1996), autore del celebre al-Mutashā' il, e, tra quelli dei Territori Occupati, Saḥar Khalīfah (n. 1941). La sempre maggiore attenzione a temi locali, come per esempio nelle opere dell'iracheno Fu'ād at-Tekerlī (n. 1927), dell'egiziano Maǧīd Tūbiā (n. 1938), del siriano Zakariyyā Tāmir (n. 1931) rende sempre più inadeguato parlare di letteratura araba in senso unitario, perché ogni Paese tende a una propria produzione ben differenziata dalle altre, malgrado il persistere di alcuni filoni e tematiche comuni. Di carattere più universale sono le opere del siriano Ḥannā Mina (n. 1924) di ambiente marinaro, del giordano-saudita ʽAbd ar-Raḥmān Munīf (n. 1933) e dell'egiziano Ǧamāl al-Ġīṭānī (n. 1945), autore di un celebre romanzo storico, az-Zaynī Barakāt, ambientato nell'Egitto mamelucco. La prestigiosa rivista libanese al-Ādāb, fondata nel 1953 da Suhayl Idrīs (n. 1923), può essere considerata il portavoce delle tendenze letterarie di tutto il mondo arabo. Negli ultimi decenni del Novecento, il romanzo arabo si afferma come il genere più seguito, che si distingue per una modernità perseguita in due diverse direzioni, ma conciliabili: la prima sperimenta un nuovo linguaggio e nuove tecniche narrative, la seconda ripercorre, modernizzandole, le forme narrative classiche. Tra gli autori più importanti si ricordano: Edwār al-Ḥarrāṭ (n. 1926), Bahā' Ṭāhir (n. 1935), Muḥammad al-Busāṭī (n. 1937), Ṣan ‘Allāh Ibrāhīm (n. 1937) in Egitto; al-Ṭayyib Ṣaliḥ (n. 1929) in Sudan; Ḥalīm Barakāt (n. 1933) e Ilyās al-Ḥūrī (n. 1948) in Libano; Aḥlām Mustağanmī (n. 1953) e Wāsīnī al-A‘rağ (n. 1954) in Algeria, Muḥammad Barrādah (n. 1938) in Marocco, ‘Izz al-Dīn al-Madanī (n. 1938) e ‘Umar Ben Sālim (n. 1932) in Tunisia. Anche la narrativa mauritana, comunque, comincia a essere conosciuta nell'ambito del panorama letterario arabo: tra gli scrittori più interessanti spicca Musa Wūld Ibnū (n. 1956).
Teatro
Il teatro come genere letterario e come arte scenica è sconosciuto al mondo arabo antico e medievale, anche se qualche germe ne è ravvisabile nelle pantomime e nel teatro delle ombre: si è già ricordato il tentativo fallito di Ibn Dāniyāl (m. 1310) di dare a quest'ultimo forma letteraria. L'influenza del melodramma italiano e della commedia francese ha grandemente contribuito, tra la fine dell'Ottocento e i primi del Novecento, alla nascita di un teatro arabo in Egitto, Siria e Libano. Nel 1847, a Beirut, Marūn an-Naqqāsh (1817-1855) diede la prima rappresentazione pubblica de L'avaro, suo adattamento dall'omonima commedia di Molière. Di lì a poco anche in Egitto si ebbero i primi tentativi: Yaʽqūb Rufā'īl Sanūʽ (m. 1912) portò sulle scene alcuni suoi canovacci, in un dialetto misto di francesismi e italianismi, coi quali tentò abilmente la satira sociale e politica. Il dramma storico, prima forma di teatro arabo colto, deve al poligrafo libanese Khalīl al-Yāziǧī (m. 1889), al siriano Faraḥ Anṭūn (m. 1922) e ancor più al poeta egiziano Aḥmad Shawqī (1868-1932) la sua affermazione. Shawqī predilesse, con poche eccezioni, la tragedia in versi; esordì col dramma ʽAlī bey il Grande, dedicato al capo della rivolta antiottomana del 1769, cui seguì nel 1893 La caduta di Cleopatra, totalmente riscritta nel 1932. Delle ulteriori numerose opere segnaliamo: ʽAntara, La signora Hoda e La principessa andalusa. Contemporaneo di Shawqī, il poeta egiziano Abū Shādī tentò anch'egli, ma con minor successo, la tragedia in versi, in seguito ripresa da ʽAzīz Abaza. Di commedie a sfondo sociale e accentuatamente realistiche fu autore il maggiore dei Taymūr, Muḥammad, cui la morte prematura non permise di dare la piena misura delle sue capacità di uomo di teatro. Di Muḥammad Taymūr ci restano quattro commedie in dialetto cairino: L'uccello in gabbia, ʽAbd as-Sattār Efendī (tradotta in italiano), L'abisso, il suo capolavoro, e Il dieci di quadri, che rappresentano uno dei momenti fondamentali del teatro arabo e costituiscono il momento di rottura con lo pseudoclassicismo di Shawqī. Se con Muḥammad Taymūr inizia la moderna commedia a salda struttura, ormai disancorata dalla farsa e dai canovacci da recitarsi a soggetto, con al-Ḥakīm Tawfīq (1898-1987), egiziano anch'egli, il teatro arabo raggiunge la piena maturità. Autore di vasto successo internazionale (una decina di sue opere sono state tradotte anche in italiano), al-Ḥakīm Tawfīq, la cui tematica risente degli influssi di Giraudoux, di Maeterlinck e di Pirandello, rivela originalità creativa, sia nei drammi simbolisti (tra cui La gente della caverna, il suo capolavoro, che si ispira alla leggenda dei Dormienti di Efeso, Pigmalione, Shahrazād), sia nelle commedie psicologiche e di ambiente e nelle satire del costume politico, come L'albero del potere. Suoi contemporanei sono il saggista, di origine libanese, Bishr Fāris (1907-1963), Maḥmūd Taymūr e l'originale ʽAlī Aḥmad Bākatīr che, con Il chiodo di Giuha e Il nuovo Shylock, ha puntato su un'interpretazione allusiva di situazioni di politica internazionale concernenti il mondo arabo. Per l'Iraq segnaliamo Sulaymān Faydī al-Mawṣilī, già attivo intorno al 1920, ʽAbd Allāh Ibrāhīm, autore di Io sono il soldato, una delle prime radiocommedie arabe, Salīm Battī, la poetessa ʽAtīkah Wahbī al-Khazraǧī e ʽAbd as-Sattār al-Qurġūlī, iniziatore del teatro didattico in versi. Nel Libano il poeta Saʽīd ʽAql ha riscosso vivo successo con le commedie simboliste La figlia di Jeft e Cadmo, il mitico inventore dell'alfabeto; Saʽīd Taqī ad-Dīn è autore di una commedia ironica: Se non fosse per l'avvocato. Tra gli altri autori si segnalano: Khalīl Hindawī, Rashād Darġawt e Mīkhā'īl Nuʽaymā. In Arabia Saudita, Paese rimasto alla retroguardia della letteratura moderna, si è distinto Ḥusayn Sarrāǧ, diplomatico e poeta, cui si deve una commedia ambientata nella Cordova del sec. XI, intitolata La passione amorosa di Wallada. Una svolta a tutta la produzione teatrale è impressa dal drammaturgo siriano Saʽad Allāh Wannūs (1941-1997), autore di opere a carattere politico (masraḥ al-tasyīs, vale a dire teatro di “politicizzazione”) come L'avventura della testa del mamelucco Ǧabir (1970) e Il re è il re (1977-79). Nel 1970 scrive un saggio molto importante per tutto il teatro arabo, Bayānāt li-masraḥ ʽarabī ǧadīd (Manifesti per un teatro arabo nuovo), in cui ribadisce lo stretto legame tra teatro e politica. Particolarmente interessante è anche il teatro palestinese, rappresentato da Ghassān Kanafānī (1936-1972), Muʽīn Bsīsū (1927-1984), Tawfīq Fayyād (n. 1939). Nel Maghreb il teatro, importato dall'Egitto, risente in seguito dell'influenza francese. Nel 1908 nasce a Tunisi la prima compagnia teatrale, an-Naǧma. Spicca poi il nome di Maḥmūd al-Masʽadī (n. 1911) autore della celebre pièce as-Sudd (La diga, 1940). Più recentemente vanno ricordati i drammaturghi Muḥammad Idrīs, Tawfīq Ǧabālī e Ragā' Farḥāt, promotori del nuovo teatro tunisino. In Algeria emerge il teatro di espressione francese grazie al grande scrittore e drammaturgo Kateb Yacine (1929-1989), autore della trilogia Le cercle des représailles, 1959. Alla fine del sec. XX le tendenze più moderne del teatro arabo sono quelle che recuperano le forme di spettacolo tradizionali, dal teatro d'ombre (masraḥ ḥayāl al-ẓill) al teatro di piazza, dalla figura del narratore (al-ḥakawātī) al teatro di burattini. Tra i drammaturghi e registi le cui messe in scena si ispirano agli spettacoli tradizionali spicca il marocchino al-Ṭayyib al-Ṣiddīqī (n. 1938) i cui lavori si basano sulle ricerche condotte dal drammaturgo su testi classici e sulle storie narrate dai mağdūbīn, i cantastorie nordafricani: tra le sue rappresentazioni si segnala al-Fīl wa al-sarāwīl (L'elefante e i pantaloni, 1996), che ha riattualizzato il teatro di piazza. Invece l'egiziano Ḥassān al-Ğaratlī, con la compagnia al-Waršah (Il laboratorio), mette in scena a partire dal 1997 lavori ispirati alle gesta degli eroi di un popolare ciclo epico-romanzesco, con il contributo sul palco di vecchi maestri del teatro d'ombre. Altri autori lavorano al recupero del teatro tradizionale: dalla compagnia del Centre National de la Marionette di Tunisi, al Masraḥ al-ğawwāl wa Ḥayāl al-ẓill (Teatro itinerante e teatro d'ombre) di Damasco, alla troupe palestinese Ashiyya Puppet Theatre Group diretta da Ya‘qūb Abū ‘Arafah. Il teatro arabo deve tanto anche a drammaturghi come il tunisino ‘Izz al-Dīn al-Madanī (n. 1938), e a registi come il libanese Roger ‘Assāf (n. 1941) che, a partire dal 1999, ha rilanciato le attività del teatro di Beirut.
Arte
Con il termine di “arte araba” si indica spesso l'arte più propriamente detta islamica, in quanto fu l'espressione di popolazioni etnicamente non solo arabe che costituirono quel mondo politico, religioso e culturale che prese nome appunto di “Islam”. Tratteremo qui perciò solo l'arte preislamica. Le culture artistiche di questo periodo, che presentano analogie con l'arte egizia, persiana, mesopotamica ed ellenica, vanno generalmente ripartite per aree geografiche: nord-occidentale, sud-occidentale e orientale. Per la parte orientale i documenti sono talmente scarsi da impedire, per il momento, un'indagine appropriata. Nell'Arabia nordoccidentale si sono conservati numerosi esempi di architettura nabateo-romana: l'opera migliore è il tempio di Ramm dedicato alla dea al-Lāt, del sec. II d. C., rivestito in stucco colorato. Dalle necropoli dell'antica Midian (oggi el-Bed) e di Ḥeǧrā (1 a. C.-75 d. C.) sono documentati due tipi di tomba, che presentano sempre una facciata tipo casa ellenistica architravata, differendo nell'ornamentazione, che a Ḥeǧrā contiene spesso dei merli a scala affrontati. Dall'esame dei vari elementi architettonici risulta una fusione di forme egizie e mesopotamiche con quelle greche. Dell'Arabia sudoccidentale le fonti antiche ci parlano come di un Paese ricchissimo, con edifici decorati in oro, argento e avorio cesellati e traforati. Dell'alto livello artistico del Regno di Saba e dei suoi confinanti si ha testimonianza solo dai bronzi e dalle sculture e soprattutto dalle realizzazioni dell'architettura e dell'ingegneria idraulica, per quanto molto materiale sia ancora da esplorare e notevoli siano le lacune. Gli edifici vengono costruiti con blocchi e colonne monolitiche, impiegando anche travi di legno e spesso tegole essiccate. Per ottenere una leggera inclinazione del muro si usava arretrare le pietre sovrapposte o smussarle. Gli edifici venivano rivestiti con intonaco, stucco dipinto, lastre di pietra. I motivi ornamentali sulle pareti, o sui pavimenti in stucco, comprendevano per lo più palmette stilizzate, tralci di vite e virgulti. Numerosi sono i tipi di colonne e capitelli, che si evolvono dal pilastro monolitico fino a giungere alla colonna ottagonale con capitelli a plinti sovrapposti. I templi sono generalmente a pianta rettangolare, con esempi originali a pianta quadrata (Gaybum), rettangolare absidata (Ṣirwāh, sec. VIII a. C.) o ellittica come a Mā'rib, la capitale del Regno di Saba, nel tempio di Almaqah (si sono supposte relazioni con gli edifici circolari abissini, babilonesi e siriaci). Delle opere di scultura notevole è una serie di statuette di antenati rinvenute nel Sultanato di Lahey, che raffigurano probabilmente i monarchi del Regno di Awsān (sec. VI-V a. C.). Per quanto poco numerosi siano i prodotti dell'oreficeria rinvenuti, tuttavia sono sufficienti a documentarci sull'alto livello raggiunto in questo campo.
Musica
Poco si conosce della musica araba prima di Maometto. Il Profeta nutriva un'austera avversione per la musica, ma ciò non impedì che a partire almeno dal sec. VII si formasse presso gli Arabi una raffinata civiltà musicale, erede in parte di quella greca e non priva di influssi su quella europea. Della sua storia conosciamo solo gli aspetti teorici: ci sono infatti pervenuti i più importanti trattati dal sec. IX al XV (ricordiamo tra gli autori più significativi: al-Kindī e al-Sarakhsī del sec. IX; al-Fārābī del X, Avicenna dell'XI, Safīad-Dīn del XIII, ʽAbdal-Qādir del XV). La teoria musicale araba si ricollega esplicitamente a quella greca e usa anch'essa come elemento base il tetracordo. Fissate le note estreme del tetracordo, si può dividere lo spazio intermedio in toni, semitoni, quarti di tono comprendenti le più sottili sfumature. Il carattere speculativo e matematico dei trattati arabi porta a costruire una serie estremamente ampia e complessa di possibili suddivisioni, che non dovevano avere completa rispondenza nella pratica musicale. Di questa resta un'immagine nell'attuale vita musicale, che rispecchia probabilmente tradizioni molto antiche. Come per altre musiche orientali è essenziale la presenza di nuclei melodico-ritmici di origine antica, chiamati maqām e corrispondenti ai raga indiani o al nomos greco. Un maqām è l'elemento base di una composizione non solo dal punto di vista melodico e ritmico (come potrebbe essere inteso in senso occidentale), ma soprattutto perché ne condiziona il carattere e lo stile. Notevoli sono la varietà e la complessità ritmiche. L'influenza della musica araba sulla musica europea del Medioevo, secondo più recenti studi, sarebbe da ridimensionare; significativa è invece la diffusione nel nostro continente di alcuni strumenti musicali arabi: il liuto derivò forma e nome dal liuto arabo chiamato al-ʽūd (un'altra forma di liuto più grande era il ṭunbūr, a 2 o 3 corde doppie). Altri strumenti tipici, tuttora in uso, sono quelli ad arco della famiglia dei kamanǧā, nonché vari strumenti a fiato (come il nāy) e a percussione.
Folclore
Cuore del mondo folcloristico arabo, fra i più vivaci che esistano, è l'Arabia Saudita. Spesso, più che di folclore (cioè di residuo di tradizioni popolari) si deve parlare di cultura ancora viva e operante al livello più attuale. È ovvio che nel mondo dei nomadi persistano tutte le forme di vita, usi e costumi, condizionati dall'ambiente geografico e dalle esigenze degli spostamenti continui: tende, suppellettili, abbigliamento, prassi connesse col ciclo della vita. Nei piccoli centri cittadini continua la tradizione edilizia araba, caratteristica per poggioli e grate accuratamente intagliati in legno, per la ripartizione di ambienti destinati alle donne (harem) e agli uomini (maglis). Nelle città si notano infine ritorni anche recenti a costumi tradizionali, in funzione della ripresa dell'arabismo. In genere scarsi gli apporti europei, se non nell'ambito delle aree più alterate dall'industria. Generalmente scarseggiano a ogni livello di evoluzione culturale i divertimenti, vietati dalla religione. Permangono i tradizionali divertimenti consentiti, come il gioco degli scacchi, esercizi di destrezza con cavalli, armi e caccia. Si è tuttavia diffuso anche fra gli Arabi il gioco del calcio. Tenacissima la persistenza delle grandi feste religiose (Ramaḍān; pellegrinaggio alla Mecca; nascita di Maometto; morte di Husayn, cugino del Profeta). Quanto ai costumi, solo nelle città si nota l'aggiunta di fogge europee a fogge tradizionali. Ovunque si vedono la abayah (mantello beduino), il thob (tunica maschile), i veli sui volti delle donne. Caste e tribù si differenziano ancora in base all'abbigliamento. Molto usato ancora il cosmetico detto kohl (antimonio) per il trucco degli occhi. La gastronomia è ancora in gran parte originaria, povera, specie quella beduina; di fama ormai internazionale è il piatto arabo più raffinato ed elaborato, detto cuscus (stufato di pollo e agnello con varie verdure e semola di grano saraceno). L'artigianato, anche per uso turistico, è assai vario e spesso interessante; tra gli esempi più vistosi: lavori in pelletteria, rame, ottone, filigrane in oro e argento, smalti, bottiglie di sabbia colorata del deserto (tipico prodotto arabo-giordano), belle armi bianche.
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