socialista
IndiceLessico
sm. e f. (pl. m. -i) [sec. XIX; da socialismo]. Assertore o fautore del socialismo; aderente a un partito che si richiama al socialismo. Anche agg., socialistico: partito socialista; Paesi socialisti.
Scienze politiche: cenni storici
Come forza ideologica e politica organizzata, il movimento socialista si è sviluppato pressoché in tutto il mondo almeno a partire dal 1848 e dalla Comune di Parigi. Già in precedenza, però, in concomitanza con gli squilibri e le diseguaglianze connessi ai primi processi d'industrializzazione dei maggiori Paesi dell'Europa occidentale, i socialisti avevano rivendicato un nuovo e più equo sistema economico-sociale che avrebbe dovuto trasformare la società in senso sia materiale sia morale, sostituendo all'individualismo e al profitto personale i principi, di cui si ritenevano portatori i ceti popolari, della solidarietà, di una più ampia libertà e della comunione dei beni. La sfiducia verso un'azione meramente volontaristica e gradualistica, fondata sulla creazione di movimenti cooperativistici dei lavoratori, determinò la rottura con i liberali. Nacquero così, in momenti differenti e in quasi tutti i Paesi dell'Europa occidentale, partiti socialisti (o socialdemocratici) contrassegnati dall'obbiettivo di organizzare politicamente la classe operaia, tendenza consolidatasi con l'avvento del socialismo scientifico di Karl Marx da cui si originò il movimento comunista. Tra la fine dell'Ottocento e il Novecento tali partiti assunsero progressivamente un ruolo determinante nell'evoluzione sociale e politica, guadagnando man mano grande peso politico, vasto seguito popolare e notevole incidenza elettorale con l'estendersi del suffragio universale. Viceversa, nell'Europa orientale e balcanica i movimenti d'ispirazione socialista sono apparsi come un'eco del populismo russo dell'ultimo quarto del sec. XIX o – è il caso per esempio della Polonia – del nazionalismo. La distinzione tra socialisti, moderatamente riformisti, e movimento comunista, rivoluzionario e radicale, si accentuò dopo la prima guerra mondiale e in conseguenza del successo della rivoluzione guidata in Russia dai bolscevichi: in molti casi le componenti di sinistra provocarono scissioni nei partiti socialisti, costituendo autonome formazioni comuniste, critiche verso il riformismo socialista e verso il sostegno fornito dai socialisti allo sforzo bellico dei loro Stati di appartenenza. Per contro, laddove i socialisti realizzarono le loro prime esperienze di governo, divennero ancor più pragmatici, giacché il successo dei loro programmi dipendeva ora dalla collaborazione dei ceti medi e degli apparati burocratici dello Stato. Nuove affermazioni il movimento socialista ottenne dopo la seconda guerra mondiale, grazie al diffuso desiderio popolare di una società più giusta e alle politiche asssistenzialistiche del Welfare State. Nell'ultimo decennio del sec. XX, i partiti socialisti di tradizione democratica, particolarmente forti nel continente europeo, dovevano fronteggiare una congiuntura del tutto peculiare. Ciò non solo e non tanto per l'improvviso crollo dell'Unione Sovietica e dei regimi a essa collegati (che, sebbene denominatisi socialisti, erano lontanissimi dalla cultura politica socialdemocratica), quanto e soprattutto per la grande ristrutturazione economica in atto nel mondo industrializzato, processo reso improcrastinabile dalla recessione e dal sempre più evidente fenomeno della globalizzazione, che si manifestava con il decentramento della produzione in aree a più basso costo di forza lavoro e con pesanti ripercussioni sui livelli occupazionali dei Paesi a più antica industrializzazione. Le difficoltà economiche, d'altra parte, favorivano un'offensiva neoliberista che tentava di rimettere in discussione la rete di ammortizzatori sociali che era il vanto delle esperienze di governo di vari partiti socialisti al potere in Europa. Malgrado gli sforzi di rinnovamento, di fronte a questa inedita situazione i partiti socialisti non sembravano sempre in grado di approntare risposte convincenti e in diversi Paesi dovevano assistere all'egemonia conservatrice e neocentrista. Per il partito socialista in Gran Bretagna, vedi laburismo.
Scienze politiche: il partito socialista in Italia fino all'epoca giolittiana
In Italia, durante il Risorgimento, alcuni spunti di socialismo teorico si possono rintracciare nel giacobinismo filosofico di G. Ferrari, o in quello più realistico di C. Pisacane, volto a risolvere il problema agrario e militare del nascente Stato italiano. Più tardi, a unificazione avvenuta, il movimento socialista si sviluppò sul terreno delle società operaie di mutuo soccorso, fondate o patrocinate da esponenti della borghesia illuminata e filantropica e, almeno in parte, subito politicizzate dalla diffusione del mazzinianesimo. Allora gli appelli del grande patriota genovese avevano additato il programma di una “democrazia sociale” nella quale l'educazione politica dei cittadini si sarebbe raggiunta con il lavoro, la cooperazione, l'istruzione elementare e l'esercizio dei diritti politici estesi a tutti. Da simili premesse risulta chiaro perché il movimento operaio italiano mantenne a lungo i connotati di un movimento fondamentalmente aclassista, e di conseguenza perché il rivoluzionarismo anarchico di M. Bakunin durò fatica a penetrarvi senza ottenere mai risultati apprezzabili, e trovando soltanto un'eco disordinata in alcuni settori del mondo contadino. Negli anni Settanta e Ottanta del sec. XIX furono mossi i primi passi verso una visione di lotta operaia dichiaratamente classista e antiborghese, soprattutto in Lombardia, dove cominciò a circolare il settimanale La plebe di Lodi e dove nacque il POI (Partito Operaio Italiano). Il marxismo, tuttavia, rimaneva poco e male conosciuto. A diffonderne la conoscenza nelle aule universitarie cominciò poco più tardi A. Labriola, mentre la rivista Critica sociale, sorta nel 1891 e diretta da F. Turati, iniziava a penetrare tra gli intellettuali più aperti e nelle frange più evolute e istruite del movimento operaio, sostenendo una concezione umanitaria, gradualistica ed evoluzionistica del socialismo marxista, legata sia al positivismo di quel periodo sia all'eredità risorgimentale e mazziniana delle origini. Queste caratteristiche si mantennero a lungo nel partito socialista fondato a Genova nel 1892, col nome di Partito Socialista dei Lavoratori Italiani (PSLI), poi mutato, al Congresso di Reggio Emilia del 1893, in Partito Socialista Italiano (PSI). Al suo interno ben presto vennero manifestandosi due tendenze contrapposte, variamente denominate, che però, nella sostanza, hanno rappresentato sempre da una parte la corrente riformistica e dall'altra quella massimalistica. La prima, accettando i metodi di lotta legale, esperibili anche nelle istituzioni politiche e costituzionali di uno Stato borghese ormai avviato verso forme rappresentative liberaldemocratiche, insisteva nella conquista di riforme politiche, economiche e sociali sempre più avanzate a favore del proletariato, convinta che attraverso un lento ma inarrestabile “viaggio nelle istituzioni” si sarebbe arrivati, senza salti traumatici, a realizzare una completa trasformazione delle strutture capitalistico-borghesi in una società socialistica. La tendenza massimalistica, invece, più sensibile ai fermenti volontaristici e magari irrazionalistici, considerava illusoria qualsiasi fiducia nella borghesia, e giudicava ogni contatto con i gruppi dominanti un tradimento della classe operaia; da qui l'impegno all'uso anche violento della forza da parte del proletariato per impadronirsi del potere.
Scienze politiche: il partito socialista in Italia tra riformismo e massimalismo
Nell'epoca giolittiana, la politica di riforme intrapresa dal governo parve in un primo tempo dare ragione alle analisi e alle strategie dei riformisti, e la vivace dialettica interna al partito vide il prevalere della corrente riformista, culminato con l'espulsione del gruppo dei sindacalisti rivoluzionari, troppo vicini alle concezioni soreliane (Congresso di Firenze, 1908). Più tardi, però, l'indirizzo colonialista impresso da G. Giolitti al Paese con l'impresa di Libia e i cedimenti ideologici di alcuni esponenti della destra riformista (I. Bonomi, L. Bissolati), anch'essi espulsi dal partito al Congresso di Reggio Emilia (1912), indebolirono la corrente riformista turatiana a vantaggio dei massimalisti che si impadronirono del partito e del suo organo ufficiale; B. Mussolini assunse la direzione dell'Avanti! (1912) sino allo scoppio della prima guerra mondiale. Il conflitto, che fu causa di gravissima crisi nel movimento socialista internazionale, non mancò di avere notevoli conseguenze anche sul socialismo italiano. La linea ufficiale del PSI nei confronti della guerra, infatti, fu coerentemente pacifista, rispettando i principi fondamentali dell'internazionalismo proletario; e Mussolini, per il suo improvviso atteggiamento interventista, venne cacciato dal partito. Ma anche la formula di C. Lazzari “né aderire né sabotare”, che abilmente mediava tra le posizioni interventiste e pacifiste, conobbe interpretazioni difformi al punto che, mentre i riformisti ponevano soprattutto l'accento sul “non sabotare” la guerra per motivi ideologici e di carattere nazionale e democratico (irredentismo), la sinistra (soprattutto nel movimento giovanile) vedeva la guerra come ulteriore opportunità alla maturazione rivoluzionaria del proletariato, avvicinandosi così alle tesi della sinistra leninista che ai convegni di Zimmerwald e Kienthal aveva sostenuto la necessità di trasformare la guerra da “conflitto imperialista” (fra Stati borghesi in lotta fra loro per il dominio del mondo) in “guerra civile” (fra borghesia e proletariato all'interno di ogni Stato). Più tardi, un altro fatto traumatico per il PSI fu lo scoppio della Rivoluzione d'ottobre. Il precario equilibrio interno (la direzione e il quotidiano controllati dai massimalisti, il gruppo parlamentare e le organizzazioni sindacali prevalentemente riformiste) venne sconvolto dal mito della rivoluzione bolscevica: “fare come in Russia” fu lo slogan che infiammò le speranze di larghe frange del movimento operaio nell'immediato dopoguerra. Ma proprio allora il PSI, benché accresciuto come forza parlamentare (156 deputati eletti nel 1919), non seppe affrontare la crisi di potere del vecchio Stato liberale, rinunciando a optare o per una chiara strategia parlamentare governativa o per una drastica soluzione rivoluzionaria. Neppure con il Congresso di Livorno (1921) e la scissione della sinistra (A. Gramsci, U. Terracini, A. Bordiga ecc.), che costituirà il Partito Comunista d'Italia, si arrivò a un chiarimento tra le cosiddette due anime del socialismo italiano, personificate allora dal riformista F. Turati e dal massimalista G. M. Serrati. Il successivo Congresso di Roma (1922), che sanciva la separazione dei riformisti (con Turati, C. Treves, G. Modigliani, G. Matteotti ecc., usciti dal PSI per fondare il Partito Socialista Unitario, PSU), indebolì ulteriormente il partito, impedendogli di contrastare la marea montante del fascismo che aveva già devastato gran parte delle organizzazioni socialiste del Paese.
Scienze politiche: il partito socialista in Italia fino alla scissione di Palazzo Barberini
L'avvento del fascismo, e poi le tragiche elezioni del 1924 (che costarono la vita a Matteotti, deputato del PSU) e l'instaurarsi della dittatura con le leggi eccezionali del 1925 e 1926, costrinsero i due tronconi socialisti alla lotta nella clandestinità e al fuoriuscitismo. Parigi divenne così il centro della rinascita socialista sancita dal congresso della riunificazione (Grenoble, 1930) e realizzata senza che i dibattiti stimolati dai movimenti di Giustizia e Libertà (fondato da C. Rosselli) e del Liberalsocialismo (creato da A. Capitini e G. Calogero) potessero in qualche modo animarla con la loro sofferta ricerca di un nuovo programma tendente a conciliare i principi egualitari dell'emancipazione operaia con quelli liberalgarantisti della tutela dei diritti dei cittadini contro ogni strapotere dello Stato. La lotta contro il nemico fascista spinse inevitabilmente i socialisti verso sempre più strette intese con il movimento comunista, stabilendo con esso patti di unità d'azione culminati nella comune partecipazione alla lotta armata delle brigate internazionali impegnate in Spagna contro F. Franco, fedeli in questo alla parola d'ordine di Rosselli: “oggi in Spagna domani in Italia”. Tale collaborazione si protrasse anche durante la Resistenza, i governi del CLN e dell'intesa tripartita dell'immediato secondo dopoguerra. Ma allora, sotto la direzione di P. Nenni, uscito il partito rinnovato dalla fusione con altri gruppi di ispirazione socialista (agosto 1943) e mutatosi persino il nome in quello di Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria (PSIUP), cominciarono a farsi vive anche le esigenze di una netta autonomia ideologica e politica rispetto ai comunisti, senza con ciò voler spezzare l'unità della classe operaia, né rinunciare al patto di unità d'azione col PCI. Contemporaneamente cresceva il disagio di alcune correnti della destra del partito (Iniziativa Socialista di Zagari, M. Matteotti; Critica Sociale di U. G. Mondolfo ecc.), spaventate dall'ipotesi “fusionista” col PCI, a loro avviso preparata dalla sinistra (L. Basso, Nenni, R. Morandi ecc.). Si giunse così alla scissione di Palazzo Barberini (1947) durante la quale la destra secessionista, guidata da G. Saragat, dava vita al Partito Socialista dei Lavoratori Italiani (PSLI), poi diventato Partito Socialista Democratico Italiano (PSDI), mentre il tronco originario del partito riassumeva il vecchio nome PSI.
Scienze politiche: il partito socialista in Italia fino allo scioglimento sancito dal Congresso del 1994
Frattanto, il fallimento del Fronte popolare del 1948, le mutate condizioni internazionali durante la “guerra fredda”, le delusioni elettorali e un'ulteriore scissione a destra (il gruppo del Partito Socialista Unitario di G. Romita, poi confluito nel PSDI), inducevano il PSI a un profondo ripensamento autonomista, avviato dalla segreteria di Morandi. I congressi di Milano (1953) e di Torino (1955), tenuti rispettivamente all'insegna delle parole d'ordine “alternativa socialista” e “dialogo coi cattolici”; il disorientamento per le drammatiche rivelazioni sullo stalinismo fatte al XX Congresso del PCUS (1956); l'incontro fra Nenni e Saragat avvenuto a Pralognan nell'agosto e la reazione alla repressione della rivolta di Budapest (ottobre 1956) costituiscono altrettante tappe della recuperata autonomia dai comunisti. Essa conduceva al riavvicinamento fra socialisti e socialdemocratici e al progressivo impegno di governo dei socialisti italiani, maturato, a partire dal 1963, nelle esperienze del centrosinistra contro cui reagì l'ala sinistra del partito, fondando l'effimero Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria (PSIUP, 1964). Del resto, altrettanto breve e verticistico fu il tentativo di fusione fra socialisti e socialdemocratici nel Partito Socialista Unificato (PSU), durato dal 1966 al 1969. In effetti, gli indirizzi sempre più moderati nel gruppo ex PSDI e la sostanziale inerzia dei ministeri con a capo M. Rumor e E. Colombo, non solo produssero malcontento nella base elettorale socialista, delusa per la carenza di riforme incisive, ma provocarono anche una nuova rottura, che riproponeva sulla scena italiana la presenza di due partiti socialisti, il PSDI e il PSI. I socialdemocratici riprendevano a muoversi in un'ottica politica di piccolo partito spesso schiacciato dalla DC, ritagliandosi spazi di sottogoverno, cosa che li esponeva a vari scandali che investivano nel tempo i massimi dirigenti. Il PSI tentava invece la strada di un maggiore impegno sul terreno delle riforme: Statuto dei lavoratori, istituzione delle Regioni, divorzio. L'ascesa alla segreteria del PSI di B. Craxi nel 1976 apriva una nuova stagione per il partito, stretto tra democristiani e comunisti. Attraverso una profonda trasformazione ideologica e programmatica i socialisti si liberavano di una sorta di subalternità nei confronti del PCI, anche se proprio la spinta di quel partito rendeva possibile al socialista Sandro Pertini di essere eletto nel 1978 alla massima carica dello Stato. Trasformato lo stesso storico simbolo con il “garofano rosso”, il PSI craxiano trovava un suo spazio autonomo ponendosi come l'ago della bilancia del quadro politico italiano. Gli incrementi elettorali alle politiche del 1979 (dal 9,4 al 9,8%) e alle regionali del 1980 (12,6%) sembravano dare ragione a Craxi, e l'ulteriore aumento registrato nelle politiche del 1983 (+1,6%) consentiva al leader socialista di assumere la guida di una coalizione di governo con liberali, repubblicani, socialdemocratici e democristiani. Le elezioni del 1987, rese necessarie dalla caduta del secondo governo Craxi, assegnavano ai socialisti un nuovo successo (14,3%). L'indubbia avanzata non aveva determinato, però, quello sfondamento elettorale a sinistra necessario per conquistare un definitivo ruolo di leadership nello schieramento progressista italiano. Alla guida delle coalizioni di pentapartito tornava la DC, mentre il PSI di Craxi finiva per rimanere subalterno al partito di maggioranza relativa. La fase aperta dal crollo del comunismo internazionale modificava lo scenario politico italiano, liberando forze che chiedevano con insistenza il cambiamento, ma i socialisti, ormai completamente coinvolti in un sistema di potere che di lì a poco si sarebbe svelato in tutti i suoi aspetti negativi, non avvertivano la portata di tali novità. In occasione di un primo referendum sulla legge elettorale (1991) l'indicazione socialista agli elettori di astenersi veniva largamente disattesa. La conferma di una disaffezione elettorale veniva, nelle politiche del 1992, in concomitanza con l'apertura di inchieste della magistratura milanese su alcuni fenomeni di corruzione ("tangentopoli"). Lo sviluppo delle indagini faceva emergere in particolare il coinvolgimento dei socialisti e del loro leader. Travolto dagli scandali, Craxi era costretto alle dimissioni (1993). Alla guida del PSI gli succedeva Giorgio Benvenuto, ex segretario della UIL, che doveva ben presto cedere per le resistenze della vecchia maggioranza ed era sostituito da un altro sindacalista, della CGIL, Ottaviano Del Turco. Il declino del partito era ormai irreversibile, come si incaricavano di dimostrare i risultati delle elezioni del 1994, quando il PSI, per la parte proporzionale, non riusciva a superare lo sbarramento del 4%. L'ex segretario aggiunto della CGIL riusciva a imporre un radicale cambiamento, sancito dal XLVII Congresso (1994) che decretava la fine del partito storico.
Scienze politiche: i partiti socialisti in Italia
Al posto del PSI nasceva la formazione dei Socialisti Italiani (SI), che sceglieva come suo leader E. Boselli, e il Partito Socialista Riformista. In precedenza si era già avuta la scissione del gruppo di V. Spini, con la creazione della Federazione laburista, nonché la nascita di un movimento di fedeli craxiani. Negli anni a seguire, il ruolo di erede diretto del PSI veniva formalmente svolto dal SI, accolto nell'Internazionale socialista e nel PSE. Fin dagli inizi l'obiettivo di fondo della nuova formazione era la nascita di una nuova forza federata con chi intendeva combattere il centrodestra, in quest'ottica si creava un'intesa con AD e Patto Segni, poi l'ingresso nell'Ulivo, da cui decideva, anche, di fuoriuscire nel dicembre 1995, e partecipava attivamente al progetto di Rinnovamento italiano, con L. Dini (febbraio 1996). Con le elezioni politiche dell'aprile 1996 e la vittoria della coalizione di centrosinistra dell'Ulivo, lo scenario politico dell'intera sinistra subiva una svolta profonda e ciò significava per i SI un'annessione di fatto al Partito Democratico della Sinistra. Il progredire dell'esperienza di governo dell'Ulivo determinava però tensioni con il PDS, che nel febbraio del 1998 raccoglieva nel nuovo partito dei Democratici di Sinistra (DS) altre forze della sinistra italiana (laburisti, sinistra repubblicana, comunisti unitari), mentre nel maggio dello stesso anno la nascita dei Socialisti Democratici Italiani (SDI) segnava una tappa fondamentale nel processo di ricomposizione della diaspora socialista, riportando definitivamente sotto lo stesso tetto varie formazioni (i SI di Boselli, il Partito Socialista di Intini, il PSDI di Schietroma e Autonomia laburista di Ronchitelli). Pur non mancando polemiche con altre correnti socialiste, i SDI cercavano di tamponare quelle che giudicavano le pretese egemoniche dei DS nell'ambito del centrosinistra. Partecipavano così ai tentativi di ricostruire un'area di centro, alleandosi con l'UDR e con i repubblicani di Giorgio La Malfa. Con queste forze si collocavano tra i protagonisti della crisi del governo guidato dal leader diessino Massimo D'Alema (dicembre 1999) e non partecipavano al nuovo esecutivo presieduto ancora da D'Alema, limitandosi all'astensione al momento del voto di fiducia parlamentare. Anche riguardo alle riforme istituzionali e alla nuova legge elettorale, i SDI, favorevoli al sistema proporzionale, divergevano dai DS, sostenitori del maggioritario. Non meno veementi le polemiche sull'atteggiamento tenuto dagli ex comunisti negli anni delle indagini condotte dalla magistratura sulla corruzione politica, tornate prepotentemente d'attualità tra la fine del 1999 e i primi mesi del 2000, anche per la spinta emotiva suscitata nel mondo politico dalla morte di Craxi (gennaio 2000). La rottura con l'UDR e il sostegno fornito al governo guidato da un ex leader storico del PSI, Giuliano Amato, succeduto a D'Alema, favorivano il clima di riavvicinamento dei socialisti ai DS, rafforzando il superamento di divergenze legate ormai più alle specifiche vicende politiche italiane dell'ultimo decennio del Novecento che a differenze di tipo ideologico, appartenendo ormai, al di là delle polemiche contingenti, entrambe le formazioni a pieno titolo a quella più vasta famiglia del riformismo progressista europeo che, all'inizio del terzo millennio, veniva connotandosi per il superamento delle dottrine socialiste otto-novecentesche di derivazione marxista e per l'accettazione dell'economia capitalistica di mercato, nel quadro di un pragmatismo non ideologico entro cui, sempre più, le varie componenti dei socialisti italiani sembrano obbligate a dover cercare un equilibrio tra loro e con le forze del centro non disponibili ad allearsi con la destra. Tutto ciò, comunque, non impediva la sconfitta alle elezioni politiche del 2001, che segnavano in particolare un pesante ridimensionamento dei DS. § Nel maggio 2000, a seguito della morte di Craxi, nasceva la Lega socialista, movimento che si proponeva di ripromuovere e tenere vivi i principi politici del vecchio PSI. La Lega sarebbe diventata la piattaforma politica che avrebbe costituito la base per la nascita di un altro partito socialista, in opposizione al SDI di Enrico Boselli, il Partito Socialista Nuovo (NPSI), guidato da G. De Michelis e da Bobo Craxi e vicino alle posizioni del Polo delle Libertà. Nel dicembre 2001 Bobo Craxi abbandonava questo schieramento per passare al partito guidato dal secessionista Claudio Martelli, chiamato anch'esso Nuovo Partito Socialista (per dirimere la questione sul nome entrambe le parti si rivolgevano al tribunale), più vicino alle posizioni del centrosinistra. Successivamente, però, Craxi veniva espulso dal partito di Martelli e si accordava nuovamente con De Michelis. Nelle elezioni politiche del 2008 il partito di Boselli non riusciva a superare il quorum per avere dei rappresentanti alle Camere.
Scienze politiche: il partito socialista in Austria
La socialdemocrazia austriaca (SPÖ, Sozialdemokratische Partei Österreichs) fu fondata nel 1889 al Congresso di Hainfeld, quando, sotto l'abile mediazione di V. Adler, le due tendenze dei moderati e degli estremisti si fusero, accettando un programma marxista, volto principalmente a raggiungere le riforme politiche fondamentali di una moderna democrazia parlamentare e a garantire spazio alla tesi di un uso rivoluzionario dello sciopero generale. Dopo un periodo iniziale di repressioni poliziesche, la socialdemocrazia austriaca conseguì una significativa vittoria nel 1905 allorché, sfruttando l'ondata di terrore diffusasi nella classe dirigente imperiale a seguito della prima rivoluzione russa, riuscì a scalzare il vecchio autoritarismo burocratico della duplice monarchia, dando il via a un maturo sistema parlamentare fondato sul suffragio universale. D'altra parte, proprio le particolari condizioni dell'impero, plurinazionale ma scosso da forti tensioni indipendentistiche centrifughe, contribuirono dal 1904 allo sviluppo teorico del cosiddetto austromarxismo, i cui maggiori esponenti (M. Adler, O. Bauer, K. Renner, R. Hilferding) dedicarono una costante attenzione allo studio dei rapporti tra questione nazionale e socialismo, per cercarne una feconda conciliazione in un quadro di Stati plurinazionali organizzati in libere federazioni democratiche. Solo così gli interessi del proletariato sarebbero stati favoriti dalle grandi aree economiche integrate in un unico mercato. Travolta dalla bufera bellica, la socialdemocrazia austriaca ebbe rapida ripresa e assolse ai gravosi compiti storici del dopoguerra, guidando tra il 1918 e il 1920 un ministero di coalizione presieduto dal socialdemocratico K. Renner, cui si devono alcune incisive riforme in campo sociale. Nei rapporti con le altre forze politiche, la socialdemocrazia austriaca, subita la scissione del piccolo partito comunista, per volontà di F. W. Adler e O. Bauer, dapprima creò una “Comunità di lavoro tra i partiti socialisti” nell'intento di mediare tra la II e la III Internazionale; poi, fallito il tentativo, aderì incondizionatamente al Bureau di Amsterdam. Più tardi, prima dell'Anschluss e dell'invasione nazista, la socialdemocrazia fu costretta alla clandestinità dal colpo di stato del cattolico E. Dollfuss(12 febbraio 1934), che, abrogata la Costituzione, dava il via a uno Stato corporativo di stampo fascista e metteva fuori legge il partito socialista e le formazioni sindacali socialdemocratiche. Crollato il nazismo, il 29 aprile 1945, la socialdemocrazia costituiva un governo provvisorio presieduto da K. Renner, cui partecipavano rappresentanti comunisti e cattolici. Tale formula governativa durò fino al 1947, quando subentrò una stabile divisione a mezzadria del governo fra socialdemocratici e cattolici, basata su un quasi eguale peso elettorale: le più alte cariche dello Stato vennero ripartite affidando tradizionalmente ai socialdemocratici la presidenza dello Stato (Renner, T. Körner, A. Schärf, ecc.) e ai cattolici il cancellierato. Frattanto però la socialdemocrazia cercava di aggregare a sé ceti sociali sempre più vasti (non solo operai, ma intellettuali, impiegati, commercianti, liberi professionisti). Sotto la guida di B. Kreisky, diventato cancelliere nel 1970, il partito socialista austriaco divenne il partito maggioritario del Paese. Dal 1983 il partito, pur mantenendo una maggioranza relativa, perdeva quella assoluta, cosa che determinava le dimissioni da cancelliere di Kreisky, cui succedeva Alfred Sinowatz, che nello stesso anno veniva anche eletto alla presidenza del partito. I socialisti continuavano a governare in coalizione con i liberali fino al 1986, quando il nuovo presidente del Partito Liberale, Jorg Haider, si orientava verso posizioni xenofobe di destra. Il partito comunque manteneva la leadership governativa alleandosi con i popolari, finché in seguito ai risultati delle elezioni politiche del 1999, dopo trent'anni di potere, passava all'opposizione contro un esecutivo formato nel 2000 dal Partito Popolare e da quello liberale. A Viktor Klima, cancelliere uscente e presidente del partito dal 1997 subentrava alla testa dei socialdemocratici Alfred Gusenbauer .
Scienze politiche: il partito socialista in Belgio
Il primo influsso di idee socialiste si manifestò nelle Fiandre e nel 1880 venne istituito il Vooruit de Gand, un gruppo impegnato a diffondere le tesi del socialismo attraverso le prime società di mutuo soccorso e l'attività di educazione politica fra le masse. Cinque anni dopo nacque il Parti Ouvrier Belge, in cui confluirono fiamminghi e bruxellesi e, nel 1890, anche i valloni. Questo partito ebbe tra i suoi maggiori animatori C. de Paepe e É. Ansele. Nel 1919, diretto da E. Vandervelte, il partito mostrò la sua importanza politica nel grande successo che lo portò a ottenere la riforma elettorale e la conquista del suffragio universale. Sciolto dal presidente H. de Man durante l'occupazione nazista, nel corso del secondo conflitto mondiale (1940-45) venne ricostituito clandestinamente sotto la guida di van Acker, Huysmans e P. H. Spaak. Dopo la liberazione assunse il nome di Parti Socialiste Belge e partecipò al governo di coalizione con socialcristiani e liberali. L'acuirsi della contrapposizione tra le due principali comunità linguistiche (fiamminga e vallona) portava a una sua spaccatura in due formazioni autonome (il Parti Socialiste per l'area francofona, e il Socialistische Partij per quella fiamminga), causa principale dell'indebolimento del partito che continuava a mantenere una maggioranza relativa, sia pur esigua (elezioni 1995), grazie al forte radicamento nella regione vallone. In seguito a scandali finanziari venuti alla luce nel 1996-97, i socialisti fiamminghi e francofoni subivano ulteriori perdite di consensi, certificate dalle elezioni legislative del 1999, nelle quali entrambe le formazioni subivano una cocente sconfitta a vantaggio dei Verdi e dei liberali, con cui tuttavia partecipavano alla formazione di un nuovo governo.
Scienze politiche: il partito socialista in Danimarca
La prima formazione socialdemocratica danese venne fondata da L. Pio nel 1871. Ben presto fecero seguito altre associazioni operaie e sindacali, che al Congresso del 1876 sommavano già 56 gruppi locali, con un totale di 6000 aderenti. Tuttavia, questi gruppi erano più vicini alle concezioni socialiste lassalliane che a quelle autenticamente marxiste. Solo più tardi, nell'ultimo decennio del secolo, specie per opera di G. Bang, si ebbe un loro sviluppo, nel segno di una più fedele interpretazione delle teorie marxiste secondo K. Kautsky, fino a culminare nel Congresso del 1894, quando la socialdemocrazia danese fece proprio un programma analogo a quello di Erfurt della socialdemocrazia tedesca. La socialdemocrazia danese si caratterizza come partito (Socialdemokratiet) essenzialmente pragmatico, che ha sempre privilegiato concrete riforme economiche e sociali, al di là dei temi più propriamente ideologici. Ed è proprio questo aspetto, unito alle condizioni del Paese, a far meglio comprendere il grande interesse mostrato dal partito per il mondo agricolo, e i suoi successivi adattamenti a favore della proprietà coltivatrice assistita e regolata da quel solido apparato cooperativistico che ha sviluppato nella società danese una complessa combinazione fra imprese private, cooperative, municipali e statali. Inoltre, durante i lunghi governi (quasi sempre in coalizione con il partito radicale contadino Venstre, “sinistra”, suo abituale alleato politico), la socialdemocrazia danese ha realizzato una serie di significative riforme politiche (come la riforma costituzionale del 1953 con l'abolizione della camera alta, Landsting) e sociali di avanguardia (fra le quali va almeno ricordata l'introduzione di un sistema nazionale di pensioni). Dagli anni Settanta si è però evidenziato il fenomeno di disaffezione per il Welfare State, tipico delle società socialdemocratiche nordiche, ove il benessere generale è stato a lungo mantenuto con i mezzi di un severo fiscalismo statale, alla fine sentito come oppressivo. Da qui il progressivo declino dei socialdemocratici che tuttavia, anche negli anni Novanta, continuavano a mantenere la maggioranza relativa. Il primo ministro, il socialista Rasmussen, doveva però affrontare prima una perdurante instabilità politica, tanto da doversi accordare con l'opposizione di estrema sinistra e da provocare così la defezione del Centro democratico dal governo, e poi (dopo la riconferma alle elezioni del 1998), fortissime tensioni sindacali. Tuttavia l'esecutivo riusciva a superare queste prove e, con il crollo dei conservatori alle elezioni per il Parlamento europeo (1999), procedeva sulla strada dell'adesione all'Unione Europea, osteggiata da un'opinione pubblica timorosa di perdere in tal modo la protezione dallo Stato sociale.
Scienze politiche: il partito socialista in Finlandia
Segnata, come quella dell'intero Paese, dal difficile rapporto con il vicino gigante sovietico, la storia dei socialisti finlandesi è stata offuscata fino al 1958 dalla forte presenza del partito comunista. Sicché solo nel 1966 il partito socialdemocratico (SDP, Suomen Sosialidemokraattinen Puolue) giunse a dirigere un governo (appoggiato dai comunisti) e solo nel 1982, dopo venticinque di presidenza del Paese di U. Kekkonen, del partito agrario, ottenne per un suo membro la carica di presidente della Repubblica con M. Koivisto. Sconfitti però alle elezioni del 1987, dovettero cedere il passo ai conservatori, che per la prima volta dal 1945 tornavano alla guida del Paese. Vincevano comunque le elezioni presidenziali del 1994 (le prime a elezione popolare diretta) e quelle politiche dell'anno seguente, tornando con Paavo Lipponen alla testa di un governo di coalizione formato insieme con forze moderate. Nonostante la fragile coesione del nuovo esecutivo, il partito socialdemocratico manteneva la guida del governo grazie al positivo bilancio della politica di risanamento economico e malgrado la forte contrazione registrata alle elezioni legislative del 1999. I socialisti s'impegnavano nella redazione di una nuova Costituzione che, entrata in vigore il 1° marzo del 2000, limitava i poteri del presidente della Repubblica a favore di quelli del Parlamento e dell'esecutivo. Nel febbraio dell'anno successivo, un'esponente socialista, T. Halonen, veniva eletta capo dello Stato.
Scienze politiche: il partito socialista in Francia
Caratteri salienti del socialismo francese sono la frammentarietà del movimento e la complessità delle sue vicende organizzative. Già negli ultimi decenni del sec. XIX, il moderno socialismo d'Oltralpe non è omogeneo, ma presenta una pluralità di gruppi concorrenti, spesso in acerrima polemica tra loro. Così, per esempio, intorno al 1883 quattro erano le principali formazioni socialiste: c'era il gruppo rivoluzionario di tradizione blanquista, guidato da E. Vaillant, in concorrenza col gruppo marxista ortodosso intransigente, il Parti Ouvrier fondato da M.-B. Guesde nel 1879; sul versante opposto del riformismo evoluzionistico e gradualistico si contrapponevano i socialisti possibilisti di P. Brousse e i socialisti operaisti dell'ex comunardoJ. Allemane. Inoltre, agivano formazioni più esigue, ma politicamente assai influenti, che si raggruppavano intorno ad alcune personalità di socialisti indipendenti di grande prestigio: A. Briand, A. Millerand ecc. Durante la crisi del boulangismo e dell'affaire Dreyfus, che alla fine del sec. XIX parvero travolgere la Terza Repubblica francese, questi piccoli gruppi socialisti maturarono una chiara scelta partecipazionistica a favore di maggioranze governative democratico-parlamentari (come quelle che si andranno costituendo da parte di esponenti radicali e repubblicani), assumendo persino incarichi ministeriali e salvando il Paese dai pericoli autoritari della reazione militaristica, antisemita e clericale. Certo si trattava di una svolta politica che non poteva restare senza risvolti anche teorici, puntualmente verificatisi con l'opera Le socialisme réformiste français di A. Millerand (1903), dove si preconizzavano un “patto sociale” fra datori di lavoro e lavoratori e la progressiva estensione a tutti i cittadini della proprietà privata. Ma, proprio in reazione a simili contraccolpi, il socialismo francese assunse un nuovo indirizzo organizzativo unitario, con la nascita, il 13 gennaio 1905, della Section Française de l'Internationale Ouvrière (SFIO), dove emerse la personalità di J. Jaurès, che sino al 1914 impresse una coerente strategia antiborghese al partito. Allo scoppio della prima guerra mondiale, persa la direzione di Jaurès caduto sotto i colpi di un fanatico interventista, la SFIO entrò in un periodo di disorientamento dovendo scegliere tra l'intervento armato deciso dal governo e la tradizionale politica di neutralismo: alla fine optò per l'appoggio al governo in guerra e partecipò ai ministeri di union sacrée. A guerra conclusa, e indebolita la SFIO dalla scissione comunista (1920), il suo sbandamento, con l'urto fra rivoluzionari e riformisti, fu ancora più grave. Sicché neppure durante il breve esperimento del Fronte popolare diretto dal socialista L. Blum, la SFIO seppe elaborare una politica univoca, soprattutto in campo estero: lo scoppio della guerra civile spagnola suscitò vasti echi di solidarietà democratica nel partito, ma la logica degli equilibri di potere internazionale costrinse il governo all'infelice politica del “non intervento”, lasciando così cadere il legittimo governo repubblicano spagnolo e vincere le forze del franchismo aiutate dal fascismo e dal nazismo. Più tardi, durante la seconda guerra mondiale, la lotta armata nella resistenza contro il regime di Vichy e contro l'occupante tedesco rafforzò la presenza socialista nella società francese dandole un ruolo di protagonista nella vita della Quarta repubblica, senza però riuscire a raccogliere le forze in un unico partito. Alla fine del conflitto, risaltò nel 1947 il problema dei rapporti con il partito comunista (nel senso di un rifiuto totale di collaborazione e di un'accettazione senza riserve dell'Alleanza atlantica), il socialismo transalpino divenne una forza determinante in molte future combinazioni governative cui parteciperanno sia la SFIO (divenuta in seguito Parti Socialiste e diretta lungamente da G. Mollet e poi da A. Savary) sia il Parti Socialiste Autonome di P. Mendès-France, come pure il Parti Socialiste Unitaire. D'altra parte, le enormi difficoltà del dopoguerra portarono il socialismo francese a un progressivo e preoccupante inaridimento ideale e a un calo elettorale sempre più grave, culminato nel disfacimento del regime politico del Paese e nell'avvento del gollismo (1958). Nel giugno 1971 a Épinay-sur-Seine si tenne un congresso straordinario di rifondazione socialista da cui uscì il nuovo Parti Socialiste Français (PSF) sorto dalla riunificazione di quattro diversi movimenti socialisti: il PS (ex SFIO), il raggruppamento federato della Convention des Institutions Républicaines e i due movimenti di ispirazione socialista cristiana, Objectif 72 e Vie Nouvelle. Come segretario politico del partito fu scelto F. Mitterrand che, nonostante la sconfitta elettorale del 1978 e gli attriti tra le varie correnti, riuscì a vincere il Congresso socialista tenuto a Metz nel 1979 e a presentarsi come candidato socialista alle elezioni presidenziali del 1981. La sua elezione a presidente della Repubblica fu il coronamento della sua lunga opera di riorganizzazione del PSF quale punto di raccordo dell'unione delle sinistre. Le successive elezioni legislative (giugno 1981) confermavano il consenso popolare al PSF dando all'Union de la Gauche la maggioranza assoluta dei voti e dei seggi. Tuttavia, il programma di riforme economiche, amministrative e sociali del nuovo governo, impostate sul decentramento regionale, su un nuovo dinamismo in campo internazionale e sulla nazionalizzazione di numerosi istituti bancari e grandi aziende, trovava l'ostacolo irriducibile dell'establishment moderato. Il governo doveva così affrontare la difficile congiuntura caratterizzata da forti cali in Borsa, contrazione degli investimenti privati accompagnata da fuga di capitali all'estero. Di questi elementi negativi si avvalevano gli avversari durante le elezioni parziali e amministrative del 1982, che ridimensionavano il PSF con l'avanzata del centrodestra di J. Chirac. Sconfitti nel 1986, i socialisti recuperavano due anni dopo, sull'onda della riconferma di Mitterrand alla presidenza della Repubblica. Si trattava, però, di un successo parziale, che veniva annullato nel 1993 quando i socialisti, anche a causa dei numerosi scandali in cui erano stati coinvolti, venivano nuovamente battuti alle elezioni dal blocco di centrodestra. Nel giugno del 1997, la sinistra francese, smentendo i sondaggi della vigilia, si affermava nelle elezioni politiche anticipate e costringeva il presidente conservatore Chirac a una complicata coabitazione con il socialista L. Jospin che, ceduta la segreteria del partito a François Hollande, formava un governo di “sinistra plurale” comprendente ministri di tutte le formazioni alleate (inclusi ecologisti e comunisti) e si impegnava subito sulle politiche dell'immigrazione e del lavoro, distanziandosi dal dogma liberista della flessibilità della manodopera e introducendo per legge la riduzione dell'orario di lavoro a 35 ore settimanali. Ma nonostante gli sforzi per sviluppare una politica innovativa, capace di conciliare identità socialista e modernizzazione, così come era stato affermato anche nel Congresso di Brest del novembre 1998, le elezioni presidenziali della primavera 2002 vedevano la dura sconfitta del candidato Jospin; la disaffezione degli elettori verso il partito veniva confermata dal successivo voto legislativo, che registrava un'altra netta perdita di consensi dei socialisti. Nel 2007, in seguito alla sconfitta della candidata socialista alle presidenziali Sègolene Royal, Hollande si dimetteva.
Scienze politiche: il partito socialista in Germania
Il partito socialdemocratico tedesco (Sozialdemokratische Partei Deutschland; SPD), nato nel 1875 dalla fusione del movimento marxista con quello lassalliano e indirizzato da K. Kautsky (Programma di Erfurt, 1891) sulla via parlamentare e riformistica, raggiunse nel 1912 il massimo successo col 35% dei voti e la maggioranza relativa al Reichstag, subendo però la scissione dei socialisti indipendenti e degli spartachisti (poi comunisti) dopo il voto favorevole ai crediti di guerra (1914). Forza politica e di governo di primo piano durante la Repubblica di Weimar, che la vide cooperare, sotto la guida di F. Ebert, P. Scheidemann, G. Noske ecc., con i partiti borghesi democratici, la SPD fu quindi schiacciata dall'avvento del nazismo. Risorta nel 1945 con alla testa K. Schumacher, accentuò il suo orientamento moderato nel 1959 (Carta di Bad Godesberg) e si insediò al potere nella Repubblica federale di Germania, con W. Brandt, a partire dal 1966, dapprima in coalizione con i democristiani e poi, dal 1969, con i liberali. Nel 1974 Brandt si dimetteva dalla cancelleria e gli subentrava H. Schmidt col quale, alla fine degli anni Settanta, cominciava a delinearsi la crisi della leadership governativa socialdemocratica della SPD. Cause principali del malcontento la politica governativa energetica (impianti nucleari) e l'installazione in Germania dei missili Cruise e Pershing 2 della NATO. Al Congresso della SPD di Monaco (maggio 1982) Schmidt decise un rimaneggiamento del proprio gabinetto, ma i liberali, forti della posizione di ago della bilancia parlamentare, preferirono allora accordarsi con la CDU-CSU per la creazione di una nuova coalizione governativa in preparazione di nuove elezioni che, tenute nel 1983, segnarono la sconfitta della SPD, penalizzarono i liberali e premiarono la CDU-CSU di H. Kohl; H. Schmidt lasciava la leadership del partito. Per un lungo periodo i socialisti tedeschi non riuscivano più a ribaltare il risultato elettorale, nemmeno in occasione delle prime elezioni della Germania riunificata (1990). Nella seconda metà degli anni Novanta si assisteva tuttavia a una loro ripresa sotto la guida di O. Lafontaine, che proponeva una linea politica sul tipo di quella perseguita in Francia dal socialista Jospin. Un sostanziale cambiamento di linea si verificava però alla vigilia delle elezioni politiche del 1998 con la candidatura alla cancelleria di Gerhard Schröder (già leader socialdemocratico della Bassa Sassonia), fautore di una svolta moderata e centrista tale da rendere compatibile la difesa dello Stato sociale con il liberismo economico. Nella tornata elettorale, Schröder riusciva a imporsi su Kohl, ponendo fine alla lunga egemonia dei cristiano-democratici. La coalizione di governo, formata con i Verdi, inaugurava un programma di lotta alla disoccupazione, difesa dell'ambiente, riforma previdenziale e fiscale, impegnandosi tra l'altro a incentivare lo sviluppo dei Länder orientali, dove la delusione per i risultati economici dell'unificazione aveva favorito l'idealizzazione del passato regime e la crescita elettorale dei partiti neocomunisti. Tuttavia, dopo alcuni risultati positivi, l'indirizzo impresso dall'alleanza “rosso-verde” all'economia e al fisco sollevava le risentite resistenze degli industriali e della Banca centrale, mentre il governo s'indeboliva per le divergenze sull'utilizzo dell'energia nucleare, la tassazione energetica e le politiche sull'immigrazione sorte tra socialisti e Verdi sullo sfondo di una divaricante frattura degli stessi socialisti, già internamente divisi sull'opportunità o meno di alleanze con gli ex comunisti nelle regioni orientali. Si approfondiva così la spaccatura tra un'ala moderata, rappresentata dal cancelliere, e una di sinistra capeggiata da Lafontaine, vicino ai sindacati e incline a una maggiore equità fiscale. La frizione si trasformava in aperta rottura nel 1999, quando Lafontaine si dimetteva dalla carica di ministro delle Finanze e dalla presidenza del partito, lasciando quest'ultima allo stesso Schröder. Malgrado l'elezione in maggio a presidente della Repubblica del socialista Johannes Rau, le incertezze del governo subivano immediata sanzione elettorale con la perdita della maggioranza assolutadella coalizione al Bundersrat e il forte calo socialista alle elezioni europee di giugno e a quelle regionali e comunali di settembre. Ma, alla vigilia delle elezioni politiche del settembre 2002, Schröder recuperava consensi, riuscendo così a guidare alla vittoria la coalizione di centrosinistra e a mantenere la carica di cancelliere. Alle elezioni legislative del 2002 Schröder confermava la posizione di cancelliere, ma le tensioni create dall'operato del governo, impegnato a ridisegnare il sistema del welfare, all'interno del partito, inducevano Schröder, all'inizio del 2004, ad abbandonare la guida della SPD, alla quale veniva chiamato Franz Muentefering, capogruppo parlamentare, il quale si dimetteva nel 2005 e veniva sostituito da Matthias Platzeck. Nello stesso anno si svolgevano le elezioni legislative che venivano vinte dai cristiano-democratici, anche se con un margine ristretto, il che induceva la formazione di una Grosse Koalition tra CDU e SPD per governare. Nell'aprile 2006 Platzeck si dimetteva per motivi di salute e al suo posto veniva nominato Kurt Beck, primo vicepresidente del partito socialdemocratico. Alle elezioni politiche del 2009, con il 23,5% dei voti, la SPD registrava il peggior risultato elettorale del dopoguerra. Nello stesso anno veniva nominato presidente di partito Sigmar Gabriel, rimasto in carica fino al 2017, quando gli è subentrato Martin Schulz. Negli anni successivi alla guida del partito si sono succeduti Olaf Scholz (ad interim); Andrea Nahles (2018-2019); Manuela Schwesig, Mau Dryer e Thorsten Schafer-Gumbel (ad interim 2019); Mau Dryer (commissario ad interim 2019); Norbert Walter Borjans e saskia Esken (2019-in corso). Alle elezioni del settembre 2021 la SPD è risultata vincitrice con il 25,7% dei voti, registrando un incremento del 5,2% rispetto alle elezioni precedenti.
Scienze politiche: il partito socialista in Grecia
Costretti alla clandestinità dalla dittatura dei colonnelli, i vari gruppi di ispirazione socialista furono riorganizzati da A. Papandrèou in un partito unitario, il PASOK (Movimento Socialista Panellenico), che nelle elezioni politiche del 1981 conquistava la maggioranza assoluta, dando modo al suo leader Papandreu di formare un governo esclusivamente di socialisti. Confermato il successo nel 1985, i socialisti greci venivano però sconfitti nelle elezioni del 1990. Estromesso per tre anni dal governo, nelle consultazioni del 1993 il PASOK riconquistava la maggioranza parlamentare riportando Papandreu alla guida del Paese. Alle successive elezioni europee i socialisti perdevano però terreno, riuscendo comunque a mantenere le loro posizioni nonostante gli scandali che avevano coinvolto Papandreu, all'inizio del 1996 dimessosi per motivi di salute e morto poi nell'estate seguente. Gli succedeva, anche nella guida del partito, Kostas Simitis, confermato nella sua leadership alle elezioni svoltesi quello stesso anno. La politica economica del nuovo governo socialista riusciva a portare la Grecia nei parametri per la moneta unica europea pur provocando il malcontento degli strati sociali meno abbienti, capitalizzato dai conservatori alle consultazioni amministrative del 1998 e a quelle europee del 1999. Malgrado le difficoltà interne, tuttavia, gli interventi del governo di Simitis su disoccupazione e privatizzazione delle imprese statali consentivano l'accoglimento della richiesta greca di entrare nell'Unione Europea. La conseguente, anche se non scontata vittoria elettorale dei socialisti, seppur di stretta misura, permetteva a Simitis di formare un nuovo governo, più sensibile alle esigenze dei ceti medi.
Scienze politiche: il partito socialista in Norvegia
Il socialismo si diede per la prima volta un'organizzazione politica autonoma nel 1887, creando il partito laburista norvegese (Det Norske Arbeiderparti; DNA), dove erano forti le influenze teoriche della socialdemocrazia tedesca, superate verso la fine del secolo con l'elaborazione di un “programma agrario” che riconosceva il diritto degli agricoltori alla proprietà privata della terra. Cominciarono allora nel partito e nella Federazione Sindacale Norvegese (fondata nel 1889) le lotte tra le opposte tendenze dei riformisti gradualisti e dei rivoluzionari, che, dopo la vittoria della rivoluzione bolscevica, riuscirono a prevalere nel partito. In conseguenza questo partito fu l'unico ad aderire alla III Internazionale, seppure per breve durata, visto che già nel 1923 abbandonò il Komintern non senza aver prima subito la scissione interna dell'ala destra che nel 1921 costituì il Partito Socialdemocratico Norvegese del Lavoro. Gli anni fra il 1923 e il 1927 (quando i due partiti si unificarono) segnarono così un periodo di crescente disorientamento nella socialdemocrazia norvegese, perché, mentre dal punto di vista teorico (attraverso l'attività del gruppo di intellettuali “Hot Dag” e di A. Bull) il gruppo laburista insisteva su concezioni massimalistiche e antiparlamentari espresse con un linguaggio estremistico barricadiero, all'atto pratico non sapeva scegliere una decisa strategia rivoluzionaria dopo aver reso impraticabile ogni ipotesi riformista. Nel 1928 fece fallire il primo tentativo governativo socialista nel Paese; ma la crisi economica e la disoccupazione di massa verificatesi agli inizi degli anni Trenta costrinsero i laburisti a un profondo ripensamento, mettendo capo al nuovo programma del 1933, dove si fissavano obiettivi politici da raggiungere attraverso un'azione parlamentare potenziata e mirando a consolidare l'attività economica del Paese mediante una pianificazione delle risorse, un intervento pubblico nei settori produttivi di base e una più equa ridistribuzione del reddito. Salito al potere con questo programma nel 1935, il partito laburista vi rimaneva ininterrottamente, esclusa una parentesi dal 1981 al 1984 quando gli subentrava un governo di centrodestra. Tornato nuovamente al potere con il governo di Thornbjorn Jagland, il partito affrontava alla metà degli anni Novanta il problema della disoccupazione, percentualmente alta in un'economia allora fiorente. Nel 1997, pur vincendo le elezioni, non poteva però evitare la formazione di un esecutivo di minoranza centrista guidato dal cristiano-popolare Kjell Magne Bondevik. Dopo la caduta di Bondevik (marzo 2000), i laburisti tornavano al governo con Jens Stoltenberg, favorevole a un riavvicinamento all'Unione Europea, ma erano sconfitti dal voto elettorale dell'autunno 2001, che premiava la destra.
Scienze politiche: il partito socialista in Russia
In Russia il socialismo si sviluppò tramite la diffusione delle idee populiste, ma presto il movimento venne contestato dai primi nuclei marxisti, che ebbero il loro più agguerrito portavoce in G. V. Plechanov, il quale preconizzava l'esigenza di una forte affermazione del programma socialista nel processo di industrializzazione di un Paese come la Russia dove il predominio dell'economia agricola era considerato la principale causa di arretratezza delle masse. Due furono i partiti socialisti che sorsero e si affermarono in Russia con autonomi programmi e diversificate strategie di lotta: il Partito Socialista Rivoluzionario e il Partito Socialdemocratico Operaio Russo. Il primo venne costituito nel 1901 con la fusione di diversi gruppi e circoli anarchici e populisti, diretti da V. Černov, N. Avksentev e A. R. Gotz. Ebbe come organi ufficiali i periodici Russia rivoluzionaria e Corriere della Rivoluzione Russa. Ispirato a idee populiste e revisioniste, non rinunciò ad attuare anche una politica terrorista, che portò all'assassinio del granduca Sergio e di tre ministri degli Interni. I contrasti interni provocarono una prima scissione in concomitanza con i moti rivoluzionari del 1905 (vedi rivoluzione) e l'ala destra costituì il Partito Socialista Popolare del Lavoro. I due partiti si schierarono, nel corso della prima guerra mondiale, su posizioni nazionaliste e, nel 1917 (Rivoluzione di febbraio) appoggiarono il governo provvisorio di A. Kerenskij. Dopo la Rivoluzione di ottobre si determinò una seconda spaccatura e l'ala sinistra costituì il Partito Socialrivoluzionario di sinistra, che appoggiò il governo dei bolscevichi. Nel febbraio 1918, in disaccordo sulle condizioni di pace, i socialisti rivoluzionari si staccarono dai bolscevichi e nel luglio cercarono di impadronirsi con la forza di Leningrado. Fallito il tentativo, il partito perse ogni potere e finì con lo scomparire. Molto più importante è il ruolo politico e storico assolto dal Partito Socialdemocratico Operaio Russo, che era nato a Minsk nel 1898 ed era subito diventato un vivacissimo centro di idee, dove si scontravano diversi gruppi di ispirazione marxista. Soprattutto dopo il 1903, al suo interno operarono due correnti: sulla sinistra i bolscevichi e sulla destra i menscevichi. A capo dei primi si impose V. Lenin. La lotta tra le due correnti, divise soprattutto sulla tattica da seguire per raggiungere l'obiettivo della dittatura del proletariato, ossia se puntare subito, come volevano i bolscevichi, sull'alleanza fra operai e contadini, oppure passare, come reclamavano i menscevichi, attraverso la fase preliminare della rivoluzione borghese, si concluse con la decisione della corrente leninista (1912) di operare in piena autonomia, rompendo ogni rapporto con la corrente menscevica e scegliendo l'unica strada della lotta aperta contro lo zarismo, per preparare la rivoluzione proletaria che la portò poi a capeggiare la vittoriosa Rivoluzione d'ottobre (1917), evolvendosi poi nel Partito Comunista Russo Russo (1918).
Scienze politiche: il partito socialista in Spagna
Il PSOE (Partido Socialista Obrero Español, fondato da P. Iglesias Posse nel 1879) è stata una delle forze politiche di maggiore rilievo della tragica Repubblica spagnola (1931-39), durante la quale alcuni suoi leader storici (F. Largo Caballero, I. Prieto ecc.) furono esponenti del governo e protagonisti della resistenza armata contro il franchismo. Conclusa la guerra civile, il PSOE, diretto da R. Llopis, insieme agli altri rappresentanti in esilio del sindacato UGT, dei partiti socialisti autonomi basco e catalano, nonché di ulteriori formazioni democratiche antifranchiste, ha costituito un'Unione delle forze democratiche e ha partecipato al governo repubblicano spagnolo in esilio, cercando al tempo stesso di mantenere vivi i contatti con l'opposizione clandestina interna spagnola. Dopo la morte di Franco (1975) il PSOE, guidato dal 1974 al 1998 da F. González, tenne nel 1976 a Madrid il suo primo congresso nella legalità dal tempo della guerra civile. Fusosi nel 1978 con l'altra formazione socialista (PSP, Partito Socialista Popolare) il PSOE, già forte dei successi conseguiti nelle elezioni del 1977 e 1979, vinse le elezioni del 1982, e il suo leader F. González Marquez divenne capo del governo, carica nella quale era riconfermato in forza delle elezioni del 1986 e 1989. Nel 1991 il Partito dei Lavoratori fondato dall'ex segretario comunista S. Carrillo confluiva nel PSOE, ma successivamente i socialisti venivano coinvolti in alcuni scandali, cosa che indeboliva il radicamento del partito nella società spagnola. Nonostante la perdita della maggioranza assoluta, alle elezioni del 1993 il PSOE si riconfermava tuttavia prima forza politica del Paese. Negli anni Novanta, comunque, la Spagna non rimaneva estranea a quello che si andava configurando come vero e proprio declino del socialismo europeo e dopo una lenta, ma costante, erosione di consensi, i socialisti spagnoli erano costretti a subire il successo delle forze moderate e di destra (1996), guidate da J. Aznar. La crisi veniva confermata dai negativi risultati delle elezioni locali del 1999, anche se parzialmente mitigata dal buon esito di quelle europee dello stesso anno. Le consultazioni legislative dell'anno successivo confermavano però la vittoria della destra che, per la prima volta dal ritorno del regime democratico, conquistava la maggioranza assoluta in Parlamento. Questa pesante sconfitta dimostrava che il programma socialista, ispirato al modello della “sinistra plurale” francese, non aveva persuaso la stessa base elettorale storica del partito, in gran parte astenutasi dal voto, né l'elettorato giovanile, per lo più estraneo ai tradizionali valori di equità sociale della sinistra. La difficile ma necessaria opera di rinnovamento del PSOE si avviava comunque nell'estate del 2000 con le dimissioni del leader Joaquin Almunia davanti al congresso del partito.
Scienze politiche: altri partiti socialisti in Europa
Irlanda. D'ispirazione socialista, il partito laburista irlandese (The Labour Party), fondato nel 1912 da J. Connolly e J. Larkin, è il più vecchio partito dell'isola e l'unico precedente all'indipendenza. Ampiamente nazionalista, dal 1948 è ripetutamente entrato in coalizioni con il Fine Gael e negli anni successivi (1994-1997) anche con il Fianna Fail. Dall'inizio degli anni Ottanta si è distinto come partito dei giovani e dei progressisti grazie alla leadershipdi D. Spring, che ha rivestito cariche di vice primo minstro (1982-87) e ministro degli Esteri. Il maggior risultato i laburisti irlandesi lo hanno conseguito nel 1990 con l'elezione alla presidenza del Paese del loro candidato, M. Robinson. Ma sono poi stati sconfitti alle consultazioni politiche del 1997, alle quali si erano presentati in coalizione con la Sinistra Democratica (ex comunisti).§ Paesi Bassi. Nei Paesi Bassi il partito laburista (PvdA, Partij van de Arbeid) fu riorganizzato negli anni Sessanta del sec. XX da J. Den Uyl. Sotto la sua guida conseguì un primo successo alle elezioni legislative del 1969, confermandosi formazione di maggioranza relativa alle successive consultazioni del 1973 e del 1977. Den Uyl, primo ministro dal 1973 al 1977 di un gabinetto di centrosinistra (laburisti, cristiano-democratici), nonostante la vittoria elettorale del 1977 dovette cedere il potere a una coalizione di centrodestra. Sconfitti alle elezioni del 1981, i laburisti olandesi riuscivano gradualmente a migliorare le loro posizioni, ma tornando al governo solo nel 1989 in coalizione con i cristiano-democratici. La coalizione portava avanti una politica ecologica e di spiccato laicismo che, seppure non condivisa dall'elettorato moderato, premiava alle elezioni del 1994 il partito laburista, che, guidato da Willem Kok, formavano per la prima volta dopo molti anni un governo privo della partecipazione dei cristiano-democratici. Per quanto i buoni risultati raggiunti, soprattutto nlla lotta alla disoccupazione, fossero ancora premiati alle consultazioni elettorali del 1998, la nuova alleanza formata con i liberali incontrava difficoltà per divergenze sulle politiche sociali. dell'immigrazione e fiscali, conducendo già nel 1999 alle dimissioni di Kok e inaugurando una fase di instabilità temporaneamente risolta col ritorno dello stesso Kok al governo; le elezioni del 2002 registravano però una dura sconfitta per i laburisti, che perdevano la guida politica del Paese a favore delle formazioni di centrodestra. § Portogallo. Dopo uno stentato avvio nei primi anni del sec. XX, costretto alla clandestinità durante la dittatura di A. Salazar e M. Caetano, il Partido Socialista portoghese (PS) tornò alla ribalta politica del Paese a seguito della cosiddetta “Rivoluzione dei garofani" che il 25 aprile 1974 abbattè la dittatura fascista e ottenne un forte successo nelle consultazioni elettorali del 1975 e 1976, raggiungendo la maggioranza relativa dei suffragi (35%). Attestato su posizioni politiche di centrosinistra e con una chiara vocazione europeistica, il PS, sotto la direzione del suo leader M. Soares, uscì sconfitto dalla consultazione elettorale del 1979, ma si aggiudicò la vittoria nelle elezioni del 1983. Sconfitti nei successivi confronti elettorali (1985, 1987, 1991), i socialisti portoghesi tornavano al potere nel 1995 e, l'anno successivo, veniva eletto capo dello Stato J. Sampaio, già sindaco di Lisbona ed ex segretario del partito. Il consenso goduto nel Paese dai socialisti era ulteriormente confermato nelle elezioni locali del 1997, nelle quali ottenevano il 38,3% dei voti. Con il governo di António Guterres, i socialisti, grazie alle privatizzazioni e a una politica di flessibilità del mercato del lavoro, potevano condurre il Paese ad aderire all'Unione Economica e Monetaria europea, sostenuti in questo caso dai socialdemocratici, del resto coinvolti in tutte le più importanti scelte governative. Malgrado qualche scacco del governo, che nel 1998 vedeva respingere per via referendaria la legalizzazione dell'aborto e un progetto di regionalizzazione dell'amministrazione territoriale, il tentativo della destra di sfruttare questi squilibri falliva nel 1999 sia alle elezioni europee, sia a quelle legislative, quando neppure l'opposizione moderata dei socialdemocratici e dei liberali, coalizzati nell'Alternativa Democratica, riusciva a battere il PS. Tuttavia crescenti segnali di disaffezione verso il governo e critiche alla direzione del partito alimentavano un profondo malessere dei socialisti portoghesi, culminato nel 2000 nell'abbandono del PS da parte di membri autorevoli. La dura sconfitta dei socialisti alle elezioni amministrative dell'autunno 2001, che sarebbe stata confermata dall'esito del voto politico dell'anno successivo, induceva Guterrez a dimettersi dalla carica di premier e ad abbandonare la segreteria del partito. § Svezia. Il Partito Socialista Democratico del Lavoro Svedese (SAP, Sveriges Socialdemocratiska Arbetareparti) fu fondato nel 1889 per iniziativa di una preesistente Unione socialdemocratica, che ne abbozzò un programma ispirato alle teorie marxiste allora dominanti. Ben presto, tuttavia, prevalse la componente sindacale impegnata in un piano rivendicativo salariale e di progressive conquiste politiche e civili nell'ambito legalitario e parlamentare. Allontanata la frangia dissidente di sinistra, la linea ufficiale del partito uscita vincente al Congresso del 1897 finiva per svuotare di contenuto rivoluzionario la formula marxista della lotta di classe. Propenso fin quasi dagli esordi a trasformarsi in una forza politica parlamentare non contraria alla proprietà privata dei mezzi di produzione, ma incline a un suo controllo e a una pianificazione pubblica, lo sviluppo della socialdemocrazia svedese è stato rapido: dal primo seggio parlamentare nelle elezioni del 1896, nel 1911 aveva già 64 rappresentanti e nel 1914, con 87 deputati, era diventato il partito più forte, preparandosi ad assumere il potere nella primavera del 1917, quando si verificò la scissione del Partito Socialista di Sinistra, una formazione effimera che aderì alla III Internazionale, per poi rientrare nel partito accettandone sia la piattaforma ideologica sia gli obiettivi tattici e strategici. Frattanto, nel 1920, il Partito Socialdemocratico del Lavoro svedese, guidato da H. Branting, formava il primo governo composto esclusivamente da suoi rappresentanti e avviava un programma di incisive riforme economiche e sociali proseguito (salvo il 1926 e il 1932) nel corso dei ministeri di P. A. Hansson, T. Erlander e O. Palme. Dopo il clamoroso crollo del partito (1976) che portò alla formazione di una serie di governi moderati liberalconservatori, la socialdemocrazia riconquistava la maggioranza nelle elezioni del 1982, 1985 e 1988, ma veniva nuovamente battuta dai conservatori nel 1991. Tornati tuttavia al potere nel 1994, sotto la guida di G.Persson, i socialdemocratici s'impegnavano in una politica di grande rigore economico, riducendo il disavanzo pubblico e mantenendo basso il tasso dell'inflazione. Anche a causa di queste severe scelte, la popolarità del partito si logorava nuovamente, toccando il minimo storico alle elezioni legislative del 1998, nelle quali conservava comunque il primo posto tra i partiti svedesi. Persson poteva così continuare a dirigere l'esecutivo dando vita a un governo minoritario e concludendo un'alleanza con la sinistra ex comunista e con i Verdi, rivelatasi in contrasto su numerosi punti programmatici. Altrettanto faticoso il cammino verso l'Europa: le divisioni esistenti in proposito in seno al governo, agli stessi socialdemocratici e nell'intero Paese premiavano infatti alle elezioni per il Parlamento europeo (1999) il partito liberale, capofila degli euroscettici. Nel 2000 il congresso socialdemocratico scioglieva tuttavia ogni ambiguità sull'Unione Monetaria e Monetaria europea, pronunciandosi a favore dell'adesione per via referendaria. § Svizzera. In Svizzera, dal 1959, il partito socialista (Parti Socialiste Suisse) è al governo in una coalizione che comprende anche i partiti radicale, cristiano-democratico e Unione democratica di centro.
Scienze politiche: il partito socialista in Asia
In Asia il socialismo approdò in virtù di tre mediatori: la Gran Bretagna, gli Stati Uniti e i Paesi Bassi. La prima ebbe il suo maggior influsso in India, dove nel 1890 sorse un circolo fabiano angloindiano. Immigrati olandesi nel 1914 fondarono in Indonesia l'Associazione Indiana Socialdemocratica. In Giappone, sull'onda delle idee di giustizia sociale diffuse da missionari statunitensi, e in forza di una crescente propaganda sostenuta da intellettuali e lavoratori che avevano fatto le loro esperienze a San Francisco, tornando poi in patria, venne fondato nel 1901 il Niohnshakai-Tō (o Partito Socialista Giapponese), a opera di S. Katayama e I. Abe. Sciolto nel corso della seconda guerra mondiale, il partito fu ricostituito nel 1946 e mostrò subito la sua grande vitalità. Nonostante al suo interno siano presenti due componenti (una rigidamente marxista, l'altra riformista) e sebbene nel 1961 si sia costituito un partito socialdemocratico, il Partito Socialista Giapponese ha mantenuto sino agli anni Novanta il ruolo di maggior forza di opposizione. Sotto l'influenza giapponese nacque, nel 1911, il Partito Socialista Cinese, che ebbe però vita assai breve per l'accesso di correnti fortemente differenziate, che nel giro di pochi anni aprirono la via a movimenti socialisti autonomi.
Scienze politiche: il partito socialista in Africa
In Africa il socialismo apparve dapprima come imitazione dei movimenti politici e culturali di origine inglese. Il South African Labour Party, per esempio, nacque a Città del Capo nel 1907. Particolare sviluppo dei partiti socialisti si ebbe dopo il secondo conflitto mondiale in conseguenza del processo di decolonizzazione. Proprio per il carattere non uniforme di questo processo, così come per la variegata composizione etnico-culturale, per la presenza di strutture sociali arcaiche, ma anche per le differenziazioni religiose, i partiti socialisti di questo continente hanno assunto caratteristiche peculiari da nazione a nazione, anche se non è del tutto arbitrario parlare di un socialismo africano. Un impulso allo sviluppo di partiti socialisti è stato anche causato dal confronto Est-Ovest che proprio in Africa ha avuto momenti di alta tensione. L'aiuto fornito dall'URSS ad alcuni regimi o anche a movimenti di liberazione, ha portato alla formazione di partiti socialisti fortemente caratterizzati in senso marxista-leninista. Una tendenza, questa, che si è venuta esaurendo alla fine degli anni Ottanta parallelamente al processo di dissoluzione dell'Unione Sovietica.
Scienze politiche: il partito socialista negli USA
Il primo partito statunitense affermatosi su scala nazionale fu il Socialist Labor Party (SLP), fondato nel 1874, come sviluppo del “partito dei lavoratori” nato a New York qualche tempo prima. Impostato negli anni Novanta del secolo su un programma rigorosamente marxista, sotto la guida di D. De Leon, subì però l'abbandono nel 1899 della corrente più moderata, che confluì nel Socialist Democratic Party (SDP). Da allora il SLP cominciò il suo declino, benché sia comunque riuscito, nel corso degli anni, a mantenersi in vita con un esiguo numero di seguaci. Nel 1901 il SDP, che aveva un discreto seguito nel movimento sindacale (malgrado la prevalenza di esponenti del mondo intellettuale), insieme ai moderati usciti dal SLP dette vita al Socialist Party (SP), sotto la guida di E. V. Debs, dal 1900 al 1912 candidato senza successo alle elezioni presidenziali. Liberatosi nel 1919 dei radicali, che passarono al comunismo, il SP seguì una linea di cauto riformismo. Guidato da N. Thomas, per sei volte candidato alla presidenza dal 1928 al 1948, il SP finì per ridursi a un piccolo raggruppamento del tutto marginale, specie dopo il successo del New Deal.
Scienze politiche: il partito socialista in America Latina
Nell'America Latina come altrove il socialismo si è diffuso parallelamente al processo di industrializzazione e all'arrivo di grossi nuclei di immigrati. Nel 1896 in Argentina nacque il Partido Socialista Obrero, che nel 1958 diede vita a due formazioni autonome: il Partido Socialista Argentino e il Partido Socialista Democratico. A sua volta dal primo, nel 1961, si staccò la corrente della Izquierda Nacional e nel 1962 sorse anche il Partido Socialista Argentino de Vanguardia, con una maggiore caratterizzazione di sinistra. In Uruguay, un forte partito socialista si affermò nel 1912, nello stesso anno in cui un analogo movimento si estendeva anche in Brasile e in Cile, dove nel 1933 si costituiva il Partido Socialista Chileno, che doveva propugnare una drastica politica di collettivizzazione dei mezzi di produzione. Correnti interne portarono alla costituzione del Partido Socialista Popular, ma successivamente S. Allende ottenne di riunire i due partiti, nel 1957, sulla base di un comune programma capace di realizzare alcuni obiettivi a forte contenuto rivoluzionario e altri di indipendenza nazionale. L'alleanza dei socialisti cileni con altre formazioni di sinistra (Unidad Popular) portava lo stesso Allende alla presidenza della Repubblica nel 1970: un'esperienza tragicamente interrotta dall'assassinio dello stesso nel corso del colpo di stato di A. Pinochet nel 1973. Terminata la dittatura, nel corso degli anni Novanta i socialisti partecipavano alla coalizione di centrosinistra vincitrice delle elezioni politiche e presidenziali. Come in Cile, anche in altri Paesi latinoamericani i partiti socialisti si sono trovati tra gli anni Settanta e Novanta del Novecento a dover resistere alle dittature e spesso, anche dopo il ritorno della democrazia, a doversi confrontare con un tessuto sociale frammentato, fatto di miseria e gravi squilibri di reddito, ma anche in rapida trasformazione, e con ritornanti espressioni di populismo, come nel caso argentino, o di autoritarismo, come in Perú.
Scienze politiche: il partito socialista in Oceania
In Australia e in Nuova Zelanda si è affermato un tipo di socialismo di ispirazione laburista sull'esempio del movimento inglese. Già verso la fine del sec. XIX W. G. Spence e W. Lane fondarono la Labour Electoral League, che nel 1901 assunse il nome di Australian Labour Party, unificando i piccoli movimenti che si erano andati diffondendo già prima dell'unità del continente. Un iter quasi identico si è verificato in Nuova Zelanda, dove nel 1900 fu costituito un Socialist Party e dove nel 1916 il New Zeland Labour Party riuscì a unificare i piccoli partiti di ispirazione socialista. In ambedue questi Paesi i laburisti hanno sviluppato un forte radicamento sociale affermandosi più volte come forza di governo.
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