stàto (sostantivo)
IndiceLessico
sm. [sec. XIII; dal latino status -us, da stare, stare (fermo)].
1) Lo stare, lo star fermo; posizione di quiete: verbi di stato, quelli che esprimono una condizione di quiete, in contrapposizione ai verbi di moto; complemento di stato in luogo.
2) Modo di essere, condizione in cui si trova una persona o una cosa: lo stato della merce mi sembra soddisfacente; essere in buono, in cattivo stato; ridursi in uno stato pietoso; stato di salute di una persona; stato di conservazione di una cosa; guidare in stato di ubriachezza; antiq.: essere in stato di, essere in grado, nelle condizioni di fare qualcosa. In particolare, modo di essere della materia: stato amorfo, cristallino, colloidale, di aggregazione, stato solido, liquido, gassoso. Con accezioni specifiche: A) in fisica quantistica, stato quantico, l'insieme dei parametri atti a identificare un sistema fisico. B) In fisica, equazione di stato di una sostanza pura allo stato liquido o gassoso è l'equazione che lega le tre variabili pressione p, volume V, temperatura assoluta T: f(p, V, T)=0. Essa definisce lo stato fisico della sostanza e, per un gas perfetto, diventa, per una grammomolecola: pV=RT in cui R è la costante dei gas. Per gli stati di aggregazione della materia e per i passaggi di stato, vedi aggregazione. C) In metallurgia, stato di equilibrio di un sistema metallurgico, condizione nella quale le proprietà del sistema stesso non variano nel tempo e scambi molto piccoli di calore e di lavoro producono modificazioni pure molto piccole e invertibili invertendo il senso degli apporti esterni. Tali stati di equilibrio vengono generalmente studiati facendo riferimento ai cosiddetti diagrammi di stato.
3) Per estensione, modo di essere e di vivere degli uomini o degli animali: popoli che vivono ancora allo stato selvaggio; animali che vengono allevati allo stato brado; stato di natura, le condizioni di vita dei popoli primitivi. In particolare, condizione o situazione particolare, eccezionale in cui ci si viene a trovare: stato di emergenza; agire in stato di necessità; stato di guerra; stato di assedio.
4) Situazione contabile, economica, amministrativa: lo stato patrimoniale di un'azienda, di una famiglia; la ditta si trova in uno stato fallimentare. Anche condizione economica e sociale di un singolo individuo: migliorare il proprio stato; essere soddisfatti del proprio stato. Ant., le cose, i beni che si possiedono; patrimonio, ricchezza; potenza, dominio: “Quivi era un altro de' maliscalchi del re, il quale grande stato e molta famiglia teneva” (G. Boccaccio).
5) Condizione di una persona relativamente ai suoi rapporti con la famiglia, con la collettività, nell'ambito della sua professione: stato civile; stato nubile, coniugale, vedovile; stato religioso, stato laicale; essere in stato d'accusa, d'arresto; stato libero, la condizione di chi non è sposato; gli obblighi, i doveri del proprio stato, quelli che derivano dalla propria posizione nella società, in una collettività, dalla propria professione e simili; per estensione, documento che attesta una determinata posizione civile o giuridica di una persona in relazione a determinate esigenze sociali: stato di famiglia, dichiarazione rilasciata dall'anagrafe che attesta la composizione della famiglia di una persona.
6) In medicina, particolare condizione fisiologica o patologica: stato di debolezza, di ipertensione; stato agonico, letargico; stato di gravidanza o stato interessante, la condizione della donna incinta. In particolare, stato crepuscolare, condizione specifica di tipo semistuporoso che si riscontra di frequente prima delle crisi epilettiche. Per estensione, condizione psichica, spirituale, morale: stato d'animo; stato emotivo, di ansia; stato di grazia, nella teologia cattolica, condizione di chi è in grazia di Dio, senza peccato; fig., condizione di particolare euforia, efficienza, ispirazione.
7) Posizione sociale ed economica di una categoria di cittadini o individui; classe sociale, ceto: nascere di umile, di basso stato, da famiglia di umile condizione sociale; i tre stati, in passato, le classi in cui era tradizionalmente divisa la società, cioè nobiltà, clero e borghesia; quindi: il quarto stato, il proletariato; Stato Maggiore (spesso abbreviato in SM), in un comando di grande unità, organo moltiplicatore dell'azione di comando. Si articola in uffici che trattano le diverse branche: segreteria e statistica, personale e ordinamento, informazioni, operazioni e addestramento, servizi.
8) Unità politica sovrana costituita da un popolo organizzato sotto un governo e stanziato in un determinato territorio (per lo più con iniziale maiuscola): gli Stati dell'Europa, dell'America; la formazione degli Stati moderni; il territorio, i confini dello Stato; il capo dello Stato; le ferrovie dello Stato; di Stato, statale, detto di ente, servizio e simili che è diretto, gestito, finanziato dallo Stato: azienda di Stato; scuola di Stato. Per estensione, la forma di governo con cui un'unità statale si regge: Stato monarchico, repubblicano, democratico; Stato totalitario, in cui la vita dei singoli individui è totalmente subordinata agli interessi della collettività interpretati in genere da un partito unico al governo; Stato di diritto, quello in cui il governo stesso è vincolato alle norme giuridiche. Anche il territorio corrispondente a un'unità statale: risiedere dentro, fuori dello Stato; invadere, occupare, liberare uno Stato. In loc. particolari: uomo di Stato, chi partecipa attivamente alla vita politica di uno Stato, statista; affare di stato; colpo di stato.
Contabilità: lo stato patrimoniale
Lo stato patrimoniale di un'azienda è quel documento contabile dal quale si evince, in un dato istante, la situazione del capitale ancora a sua disposizione. Lo stato patrimoniale viene ottenuto in sede di chiusura della contabilità generale ed è composto da un settore finanziario, relativo alle poste aventi per oggetto denaro, debiti e crediti, e da un settore economico costituito da costi e ricavi non di competenza del periodo amministrativo oggetto di chiusura e, pertanto, da rinviare al futuro, quando rispettivamente saranno consumati e prodotti. La situazione del capitale scaturisce, nello stato patrimoniale, dalla contrapposizione fra attività, cioè componenti positivi di capitale, e passività, cioè elementi negativi di capitale. Nelle procedure fallimentari una terminologia frequentemente impiegata è quella di stato passivo, che indica il cumulo dei debiti, divisi a seconda del grado di priorità nell'eventuale soddisfacimento, relativi all'impresa fallita.
Fisica atomica e nucleare
Lo stato stazionario è uno stato atomico o nucleare in cui non si verifica emissione spontanea di radiazione, anche se le particelle sono in moto relativo e l'emissione sarebbe attesa in base alle leggi dell'elettrodinamica classica. Gli stati stazionari, ipotizzati da N. Bohr nella sua teoria dell'atomo (1913), sono caratterizzati da un valore dell'energia , con n intero positivo, m massa atomica, e carica dell'elettrone, Z numero atomico e h costante di Planck. Fra gli stati stazionari quello cui corrisponde n=1 è detto stato fondamentale: esso è lo stato cui compete il valore algebrico minimo per l'energia Wn. È lo stato dinamico più stabile per l'atomo. Analogamente, nel caso nucleare, è lo stato caratterizzato dal valore minimo dell'energia dei nucleoni. Nel caso dell'atomo, gli stati corrispondenti a n=2, 3,... sono detti stati eccitati, perché hanno energia superiore a quella dello stato fondamentale che è il più stabile. Analogamente, nel caso del nucleo si dicono eccitati gli stati a energia superiore allo stato fondamentale. Sia l'atomo, sia il nucleo decadono da stati eccitati emettendo radiazione elettromagnetica. § Lo stato isomerico o stato metastabile è uno stato eccitato nucleare con vita media rispetto al decadimento γ che va da 10-10 s ad alcuni anni. Tali stati consentono l'esistenza di nuclei, detti isomeri, emettitori γ che sono isotopi e isobari contemporaneamente, ma con diverse proprietà radioattive. Lo stato isomerico di un nucleo è solitamente indicato con la lettera m associata al numero di massa (per esempio In113). § Stato virtuale, nella teoria di Bohr delle reazioni nucleari è lo stato del nucleo composto, risultante dall'assorbimento della particella proiettile nel nucleo bersaglio, quando tale stato ha una vita media almeno dell'ordine di 10-15 s.
Metallurgia
Le leghe metalliche sono in generale leghe di tre, quattro o più elementi, dei quali di solito uno è in tenore nettamente predominante e altri tollerati in piccoli tenori. I diagrammi di stato sono un utile metodo di rappresentazione che permette di seguire l'evoluzione della composizione delle leghe in funzione della temperatura, indicando le varie trasformazioni (cambiamenti di fase) e le quantità delle fasi presenti in condizioni di equilibrio termodinamico. Inoltre la conoscenza dei diagrammi di stato consente una razionale classificazione delle leghe e lo studio delle loro applicazioni, in relazione alla struttura e alle caratteristiche di impiego. È necessario precisare che i diagrammi di stato si riferiscono a condizioni di equilibrio proprie di un lentissimo raffreddamento: questo va tenuto presente nei casi pratici, dove tali condizioni di equilibrio possono non essere raggiunte, come avviene, per esempio, per il caso dei trattamenti termici degli acciai. Tra i diagrammi di stato binari relativi a leghe, quelli di maggiore interesse pratico sono il diagramma ferro-carbonio e il diagramma alluminio-rame. Diagramma di stato Fe-C: "Vedi la figura 1 a pagina 542 del XX volume." "Per la figura 1 vedi il lemma del 18° volume." si può immaginare il diagramma di stato metastabile ferrocementite, rappresentato con linea continua, e quello stabile ferro-carbonio (grafite), rappresentato con linee tratteggiate. Nel caso in cui sia impedita la formazione della grafite, anche in leghe con elevato tenore di carbonio (eventualmente per la presenza di elementi capaci di formare carburi o di entrare in soluzione solida nella cementite, come titanio, vanadio ecc.), si deve considerare il primo diagramma; viceversa, nei casi nei quali si raggiungano le condizioni di equilibrio stabile (tipico è quello di alcune ghise), o si abbia la formazione di grafite (eventualmente per la presenza di elementi cosiddetti “grafitizzanti”, come il silicio), è da prendere in considerazione il secondo. Tali diagrammi, che riportano sull'asse delle ascisse tenori crescenti di carbonio, sono limitati a sinistra dalla verticale del ferro puro e a destra dalla verticale della cementite, Fe₃C. La porzione del diagramma che interessa gli acciai è quella con tenori di carbonio inferiore a 2,06% mentre, per tenori maggiori, si entra nel campo delle ghise. Nel diagramma si notano: una trasformazione peritettica a 1493 ºC (C=0,18%); una trasformazione eutettica a 1147 ºC (C=4,3%); una trasformazione eutettoidica a 723 ºC (C=0,8%). La temperatura di quest'ultima è indicata con A₁, mentre quella variabile con il tenore di carbonio (linea GS), che corrisponde al limite inferiore del campo austenitico, viene indicata con A₃. L'intervallo tra i punti A₃ e A₁ è noto come intervallo delle temperature critiche di un acciaio ipoeutettoidico. Secondo la posizione del punto rappresentativo della lega ferro-carbonio allo stato ricotto, prescindendo dalla presenza di grafite nelle ghise e tenendo conto della trasformazione eutettoidica alla temperatura di A₁ e della diminuzione della solubilità del carbonio secondo la linea ES, si hanno a temperatura ambiente i seguenti costituenti strutturali: per un tenore di carbonio fino allo 0,8%, ferrite e perlite (miscela intima di laminette di ferrite e cementite); per un tenore di carbonio uguale allo 0,8%, perlite; per un tenore di carbonio compreso tra 0,8% e 2,06%, perlite e cementite secondaria; per un tenore di carbonio compreso tra 2,06% e 4,3%, perlite e ledeburite (miscela intima di austenite eutettica e cementite eutettica) trasformata e cementite secondaria; per un tenore di carbonio pari a 4,3%, ledeburite trasformata; per un tenore di carbonio superiore a 4,3%, cementite primaria e ledeburite trasformata. Il diagramma alluminio-rame "Vedi la figura 2 a pagina 543 del XX volume." "Per la figura 2 vedi il lemma del 18° volume." è relativamente semplice nelle due regioni adiacenti ai metalli puri alluminio e rame, mentre è notevolmente complesso tra il 15% e il 30% ca. di alluminio. Tuttavia, poiché le leghe di interesse applicativo sono quelle di alluminio con tenori di rame non superiori al 15% e quelle di rame con piccoli tenori di alluminio (bronzi all'alluminio), è opportuno rivolgere l'attenzione alle zone del diagramma più prossime alle due verticali. Dal lato rame si notano diverse soluzioni solide α, β, γ ecc. L'alluminio forma con il rame una soluzione solida α sostituzionale, limitata a destra da due campi di monovarianza α+β, α+γ₂. Si ha, poi, la soluzione solida β che occupa una regione limitata in basso dall'orizzontale eutettoidica a 565 ºC; qui subisce la trasformazione eutettoidica e pertanto in analogia alla fase γ del diagramma ferro-carbonio è temprabile con ottenimento di una struttura di tipo martensitico. Tralasciando i diversi campi intermedi passiamo direttamente al campo di esistenza della soluzione solida δ e all'ampia zona dell'eutettico tra δ e la soluzione K del rame nell'alluminio. Questa parte del diagramma è quella che più interessa le leghe di alluminio induribili per precipitazione. La linea che delimita il campo di esistenza della soluzione solida K e che rappresenta il limite di solubilità del rame nell'alluminio si sposta, a partire dal punto sull'orizzontale eutettica a 548 ºC avente un tenore di rame pari a 5,65%, verso l'asse dell'alluminio, avvicinandosi sempre più al diminuire della temperatura. È possibile, così, eseguire per leghe a tenore di rame minore del 5,65% la cosiddetta tempra di soluzione e il successivo indurimento di precipitazione, dato da un invecchiamento naturale o artificiale.
Storia militare
I primi grandi condottieri che conferirono adeguata importanza al servizio di Stato Maggiore (SM) furono Gustavo Adolfo e Federico II e la loro iniziativa fu più tardi ripresa e perfezionata da G. Scharnhorst (durante le guerre napoleoniche) e da H. K. B. Moltke. Da allora ogni nazione ricorse al servizio di SM e si presentò con questa struttura al primo conflitto mondiale. L'esercito italiano ebbe un corpo di SM con proprio ruolo e fregio. Fu abolito nel 1943 in conseguenza delle clausole d'armistizio. Oggi le sue funzioni, a livello centrale e di grande unità, sono affidate a ufficiali in servizio di SM, in possesso del titolo di scuola di guerra e in seguito a esperimento giudicati idonei.
Diritto: concetti generali
Una comunità politica, rivolta a fini generali, un “ente sociale che viene a formazione quando, su un territorio determinato, un popolo si organizza giuridicamente sottoponendosi all'autorità di un governo”. Lo Stato si presenta quindi con tre elementi costitutivi: il territorio, che costituisce l'elemento materiale dello Stato; uno Stato senza territorio manca dell'elemento materiale e territoriale su cui esso può svolgere in concreto la sua attività; il popolo, che costituisce l'elemento personale dello Stato: dal punto di vista costituzionalistico, il popolo si presenta anche sotto il profilo del suo aspetto attivo, in riferimento cioè al corpo elettorale; il governo, che costituisce il centro del potere decisionale esecutivo dello Stato (art. 92, 93, 94 della Costituzione). Questi tre elementi costituiscono la struttura base di ogni Stato, indipendentemente dalle posizioni ideologiche che ogni Stato ritiene di assumere; in altri termini, sia gli Stati socialisti, sia quelli a struttura capitalistica hanno tutti questi elementi costitutivi che formano la struttura basilare di ogni Stato.
Diritto: lo stato civile
Lo stato civile è la situazione giuridica del cittadino nei confronti del suo stato di appartenenza così come risulta dai registri tenuti presso il suo comune. I registri dello stato civile sono tenuti in ogni comune e sono pubblici. Essi consistono nei registri di cittadinanza, di nascita, di matrimonio, di morte. Gli ufficiali dello stato civile devono rilasciare su richiesta gli estratti o i certificati e devono compiere per gli atti loro affidati le indagini chieste dai privati. Ufficiale dello stato civile è il sindaco. Egli può peraltro delegare le sue funzioni a uno o più consiglieri comunali o, in mancanza, a persone che abbiano i requisiti per la nomina a consigliere comunale. Per gli atti di nascita e di morte e per la richiesta di pubblicazione di matrimonio possono essere delegati il segretario comunale o altri impiegati del comune. L'ufficiale dello stato civile riceve gli atti che riguardano lo stato civile e ha il compito di custodire e conservare i registri e gli atti che vi si riferiscono. Gli atti dello stato civile fanno prova fino a querela di falso per ciò che il pubblico ufficiale attesta che sia avvenuto alla sua presenza. Se i registri sono andati distrutti o sono smarriti o inesistenti, o quando per qualsiasi causa, non dipendente da dolo del richiedente, manca in tutto o in parte la registrazione dell'atto “la prova della nascita o della morte può essere data con ogni mezzo”.
Diritto canonico
In diritto canonico, lo stato religioso è la condizione delle persone che vivono in comune in modo stabile e che tendono alla perfezione cristiana, mediante l'adempimento dei voti di obbedienza, di castità perfetta e di povertà, emessi in un istituto approvato dall'autorità ecclesiastica. I suddetti voti devono essere pubblici, ossia ricevuti in nome della Chiesa da un superiore determinato. La scelta dello stato religioso dev'essere pienamente libera; non è valida, quindi, tale scelta se determinatada vis o metus, ovvero da dolo. L'autore della coercizione o dell'inganno a tal fine rivolto è punito con la scomunica ipso facto.
Filosofia
Il problema dell'elaborazione di una compiuta teoria dello Stato ha dominato il pensiero giuridico e politico sin dall'antichità. Di fronte al puro fatto dell'esistenza fattuale di organizzazioni politico-sociali come lo Stato, si è sempre presentato il bisogno di darne una giustificazione e una spiegazione, di elaborare una teoria organica, anche se diversa secondo le varie concezioni filosofiche, ma sempre tale da comprenderne la natura e il carattere e da individuarne le note concettuali specifiche. Il problema della possibilità di una reale conoscenza filosofica della natura dello Stato, e insieme e soprattutto della fondazione filosofica di uno Stato ideale e perfetto appare per la prima volta con la Repubblica di Platone; e l'ideale della fondazione di uno Stato perfetto, modellato una volta per sempre su di una data concezione della natura umana, si è ripresentato più volte nella storia del pensiero (da R. Bacone a T. Moro, da T. Campanella a Morelly, ai socialisti utopisti), sino al concetto hegeliano dello Stato, che vedendo in esso un momento del divenire dello spirito oggettivo – momento della vita dell'universale – vi scorge una realtà oggettiva e assoluta, che sta più in alto di tutto ciò che è singolo, empirico e contingente. Dopo G. W. F. Hegel, tuttavia, tutti i pensatori che si sono occupati di questo problema hanno avuto il dubbio che potesse essere data davvero una teoria scientifica dello Stato e che l'indagine intorno a esso e alla sua natura non fosse piuttosto compito specifico della scienza giuridico-politica. In particolare, è stato detto che un'indagine filosofica – e non puramente politica – della natura dello Stato non può, alla fine, andare esente da considerazioni di ordine valutativo che un'indagine politica deve lasciare da parte, sviluppando un discorso oggettivamente scientifico. In realtà, da questo punto di vista, si tratta di accettare il carattere empirico dello Stato, come società concretamente e politicamente organizzata in una vasta area geografica ed economica, ma insieme di poterne dare un adeguato concetto giuridico. Si pone tuttavia sempre agli studiosi, anche da questo punto di vista, il problema dell'individuazione corretta del giusto ambito in cui questo discorso va svolto, e di quali ne siano le note caratteristiche: di qui i forti scontri che, pur accettando tutta la nozione di Stato come concetto giuridico, hanno avuto e hanno tuttora tra di loro le diverse scuole, soprattutto quella normativista e quella istituzionalista. In particolare, l'opera di H. Kelsen (si veda soprattutto la fondamentale Teoria generale del diritto e dello Stato), operando un'universale traduzione dei concetti politici e dei principali fondamenti di teoria dello Stato in termini di teoria e di concetti giuridici – e giustificando e chiarendo quanto ogni teoria statica della politica non aveva mai saputo chiarire compiutamente, cioè la trasformazione interna, graduale o violenta di un ordinamento politico statuale, nei termini di una trasformazione delle sue strutture giuridiche –, ha operato la più solida e convincente sintesi tra filosofia giuridica e dottrina dello Stato. La teoria dello Stato come organismo o istituzione di natura eminentemente giuridica permette, in ogni caso (oltre a evitare idealizzazioni spesse volte deteriori e pericolose), di non ridurne il concetto a un determinato territorio, a una determinata società, classe, razza o estensione e struttura di governo (come invece avviene in ogni impostazione nazionalistica): tutte note importanti per la definizione del concetto di Stato, ma non decisive, in quanto possono trovare la loro unificazione e convalida solo nel concetto dello Stato come ordinamento giuridico, sovrano e indipendente anche se, come auspica e teorizza il moderno diritto internazionale, legato da vincoli giuridici alle altre comunità statuali in un riconoscimento comune. Per una compiuta disamina della natura dello Stato è poi necessario indagarne l'origine (che oggi la scienza politica individua più nel consenso dei membri di una comunità, rifiutando le vecchie ipotesi contrattualistiche) e i fini. Così è sempre aperto il discorso sulla natura e sui limiti della sovranità dello Stato, nonché sui suoi poteri e funzioni, con l'ormai classica tripartizione, operata per la prima volta dal Ch. Montesquieu, tra i tre poteri (legislativo, esecutivo, giudiziario).
Sociologia: generalità
Una prima esplicita definizione sociologica del problema dello Stato moderno è presente in M. Weber, che collega sovranità territoriale (della nazione), istituzioni politiche di governo, monopolio della violenza legittima (attraverso la forza militare, la gestione dell'ordine pubblico, il potere sanzionatorio della giustizia). Solo lo Stato, in una società moderna, possiede tutte queste prerogative e dispone di un apparato amministrativo capace di soddisfare le complesse esigenze operative che ne derivano. La sovranità dello Stato, perciò, ha una precisa base territoriale e tende a concentrarsi in istituzioni politiche (per esempio il Parlamento), giuridiche e giudiziarie, militari e finanziarie specializzate, ma tendenzialmente unitarie. L'ottica weberiana è, come si può constatare, quella dello Stato liberale di diritto, astensionista nella sfera economica e organizzato attorno a una forte e autorevole burocrazia pubblica. In questo senso, lo Stato appare al sociologo tedesco agli inizi del sec. XX come la vera e propria incarnazione della razionalità burocratica che informerebbe di sé, come principio costitutivo, l'intera società moderna. Ai nostri giorni, il pur articolato modello weberiano deve fare i conti con la realtà nuova dello Stato emerso dall'esperienza dei totalitarismi di massa fra le due guerre e con lo sviluppo di un diffuso sistema di sostegno ai gruppi sociali meno favoriti (Stato sociale o Welfare State). T. Parsons ha proposto una lettura modellistica delle funzioni sociali assolte dallo Stato nelle società industriali. Allo Stato spetterebbero, cioè, essenzialmente compiti di mantenimento e preservazione dell'equilibrio più complessivo della società, collocandosi nella sfera del sottosistema di goal-attainment (perseguimento di finalità socialmente condivise). Un teorico del pluralismo democratico, come H. Laski – fedele all'ispirazione antistatalistica e all'esaltazione dei corpi intermedi (strati sociali autonomi, associazioni volontarie) proprie della cultura politica anglosassone – ha cercato di ridimensionare il ruolo dello Stato a quello di associazione funzionale, spogliata della sacralità etico-ideologica conferitagli per esempio dalla filosofia classica tedesca. Non molto lontana dalle tesi pluralistiche è la posizione di G. Gurvitch, fautore di uno Stato minimo, erogatore di servizi di pubblica utilità, ma tendenzialmente sottratto a compiti egemonici sul resto della società. In anni più recenti, l'eccezionale sviluppo delle prestazioni richieste allo Stato e il rischio di un suo collasso da sovraccarico di domanda hanno portato studiosi di indirizzo neosistemico, come il tedesco N. Luhmann, a teorizzare l'esigenza di una riduzione della complessità del sociale, che dovrebbe anzitutto manifestarsi come depotenziamento delle funzioni assolte dallo Stato. Questa linea di pensiero – coerente con l'ondata politica neoliberista degli anni Ottanta (si pensi all'esperienza dei governi Thatcher in Gran Bretagna o della presidenza Reagan negli USA) – è stata duramente contrastata da sociologi e politologi più sensibili alle ragioni della solidarietà e dell'equità sociale. Anche studiosi di orientamento radicale (C. Offe, J. O'Connor, lo stesso J. Habermas) hanno però sottolineato il rischio di una crisi di legittimità, o di razionalità, delle istituzioni pubbliche, connesso all'abnorme carico fiscale prodotto dai crescenti costi finanziari dello Stato sociale.
Sociologia: lo Stato sociale
Il tema dello Stato sociale – o meglio il tema della crisi di questo – è sin dalla fine degli anni Settanta l'oggetto principale di analisi istituzionale e politologica nell'ambito delle scienze sociali occidentali. Non si tratta, come avviene ed è avvenuto per questioni assai più circoscritte al dibattito accademico, di una qualche moda intellettuale. In realtà, la definizione-ridefinizione dello Stato sociale chiama in causa consolidati paradigmi politici, etici, economici e culturali. Il problema insiste nella sfera politica, ne impone una radicale ritematizzazione, ne scompone gli equilibri ideologici e strategici costruiti in quasi un secolo di democrazia del welfare. Mette in luce, inoltre, non solo le ragioni del mutamento e/o adattamento del paradigma e delle culture sociali di riferimento, ma anche le profonde differenze che, nei diversi contesti nazionali, hanno condotto alle osservabili configurazioni dei sistemi di welfare. Sullo sfondo, perciò, si staglia una grandissima questione che accomuna contesti storicamente diversificati. È quella degli effetti istituzionali del mutamento sociale connesso al progressivo passaggio alle cosiddette società postindustriali. R. Castel (1995) ha parlato, in proposito, di “metamorfosi della questione sociale”, volendo significare con questa formula sinteticamente efficace che in gioco non sono più soltanto equilibri finanziari, compatibilità economiche (i costi dello Stato sociale) o strategie politiche degli attori coinvolti. Al contrario, sono i termini strutturali e culturali della nuova questione sociale che vengono evocati con crescente perentorietà dagli studiosi, ma anche da quei politici che, ovunque, si cimentano con onestà di intenti nella rielaborazione delle coordinate intellettuali, ideali e operative del problema. In primo piano ci sono dunque i contesti nazionali, i loro assetti normativi, le dinamiche di cambiamento che li investono con maggiore o minore forza. Il caso italiano, come si avrà modo di argomentare, è di particolare interesse, perché chiama in causa non solo la necessaria trasformazione del welfare, sulla falsariga di quanto sta avvenendo nella quasi totalità dei sistemi politici nazionali dell'Occidente, e non solo dell'Occidente, bensì anche i ritardi, le contraddizioni e le “perverse eredità” di uno Stato sociale che si è configurato in origine prevalentemente in termini assistenziali. Per mettere ordine nella complessa dinamica storico-politica che deriva dall'intreccio di un problema a valenza universale – la ridefinizione di ruoli e funzioni del welfare in connessione con il cambiamento della stessa struttura sociale – e di specifiche situazioni nazionali, caratterizzate da differenti modalità di genesi e di sviluppo dello Stato sociale, sarà utile ripercorrere a grandi linee le nozioni teoriche e le configurazioni sociali che sottostanno al paradigma, evitando indebite interpretazioni o arbitrarie generalizzazioni. Lo Stato sociale può essere considerato come un insieme di interventi pubblici connessi al processo di modernizzazione, i quali forniscono protezione sotto forma di assistenza, assicurazione e sicurezza sociale, introducendo, fra l'altro, specifici diritti sociali nel caso di eventi prestabiliti, nonché specifici doveri di contribuzione finanziaria. Questa definizione, formulata da uno studioso italiano, M. Ferrera (1993), integra e completa definizioni proposte, a livello internazionale, nell'ultimo quarto di secolo appunto per racchiudere, nell'ambito di un'etichetta onnicomprensiva, la molteplicità e varietà di interventi che compongono lo Stato sociale. In essa, la determinante dello Stato sociale viene individuata nel processo di modernizzazione; gli scopi vengono identificati nella protezione tramite assistenza, assicurazione e sicurezza sociale; la protezione, a sua volta, viene intesa come prestazione strategica, garantita dalle istituzioni pubbliche, che dà corpo a diritti sociali a cui si accompagnano doveri fiscali. Il processo di modernizzazione ha accompagnato la trasformazione dei sistemi economici e sociali, dal modello agrario-rurale a quello industrial-manifatturiero, per orientarsi poi sempre più verso il terziario. Lo Stato sociale nasce e si afferma di pari passo con la trasformazione dei sistemi economici e sociali per offrire tutele che nelle società tradizionali venivano prevalentemente fornite nell'ambito della famiglia o di gruppi sociali intermedi (il clan, la tribù, il villaggio, il borgo), tra i quali le associazioni mutualistiche hanno avuto un ruolo molto importante. I “diritti” o “titoli” sociali, e i corrispettivi oneri contributivi e/o fiscali, rappresentano un elemento connotativo essenziale delle specificità di uno Stato sociale e svolgono, quindi, nei suoi confronti un ruolo analogo a quello che i diritti di cittadinanza hanno rispetto all'appartenenza a uno Stato-nazione. Nell'ambito dello Stato sociale, l'“assistenza” comprende gli interventi a carattere condizionale volti a rispondere in modo mirato a specifici bisogni individuali oppure a categorie specifiche di bisogni. L'“assicurazione” sociale ha natura obbligatoria e si articola nell'erogazione di prestazioni standardizzate in base a diritti-doveri individuali (come il pagamento dei contributi) e secondo modalità istituzionali chiaramente definite. La “sicurezza sociale”, asse portante dell'intero regime di welfare, si rappresenta come uno schema di protezione caratterizzato da copertura universale. Essa, cioè, è estesa a tutta la cittadinanza, prevede prestazioni uguali per tutti, senza differenziazione d'accesso in campo sanitario e a montante fisso, oppure con caratteristiche fortemente redistributive, in quello pensionistico. In questa chiave, si comprende perché le scienze sociali postbelliche abbiano individuato nella formazione e nello sviluppo dello Stato sociale la manifestazione più esemplare dell'universalismo politico.
Sociologia: lo Stato sociale-cenni storici
In una prospettiva storico-cronologica, la genesi dello Stato sociale può essere retrodatata alla stagione della rivoluzione industriale. Infatti, anche se a rigore l'intervento pubblico a fini sociali, principalmente per alleviare condizioni drammatiche di bisogno, risale nella sua forma regolamentare addirittura al sec. XIV, le prime leggi organiche sono le Poor Laws sull'assistenza ai poveri, emanate in Gran Bretagna nel 1834 in parallelo con l'emigrazione dalle campagne alle città e l'urbanizzazione che caratterizzano il sorgere dei primi massicci insediamenti manifatturieri. Le Poor Laws erano a carattere “universalistico” in quanto rivolte a tutti coloro che, in base ai criteri vigenti, venissero classificati come poveri. In esse si stabiliva una disciplina in base alla quale, in nome e per conto dello Stato, la pubblica amministrazione si impegnava a offrire, a carico della fiscalità generale, ricovero a tutti i poveri impossibilitati all'autosussistenza. Le condizioni poste ai beneficiari erano precise e attenevano alla sfera del controllo sociale (si ricordi che è di questo contesto temporale l'emergere del dibattito sulle classi pericolose). I poveri assistiti dovevano attenersi alle regole vigenti nelle case di lavoro e sottostare, pena la perdita della tutela, a severi codici regolamentari e comportamentali. In nuce, quindi, alla prestazione-sussidio (il ricovero) veniva collegata una controprestazione a carattere partecipativo (l'accettazione delle regole delle case di lavoro). Tale principio diventerà, progressivamente, uno dei tratti su cui si fonda lo Stato sociale, anche se con il tempo prevarrà una dimensione negoziale – quantità e qualità delle prestazioni erogate verranno contrattate da attori sociali collettivi (come i sindacati) – del tutto assente nelle prime esperienze assistenzialistiche e paternalistiche. In Germania, Paese considerato di tarda industrializzazione rispetto alla Gran Bretagna, lo Stato sociale assunse caratteristiche differenti da quelle che abbiamo chiamato propriamente “universalistiche”. Nell'ultimo scorcio del sec. XIX (tra il 1889 e il 1894) vennero introdotti, in via normativa, schemi di assicurazione obbligatoria (contro la vecchiaia e la invalidità, contro le malattie, contro gli infortuni) rivolti a proteggere i lavoratori del settore manifatturiero. Tali schemi erano a carattere attuariale; il rischio veniva ripartito fra tutti coloro che avessero uno status “particolare”, per lo più occupazionale, e le prestazioni erogate erano commisurate ai contributi versati e ai profitti che si ottenevano dall'accantonamento di detti contributi. Aveva origine, quindi, un modello “particolaristico” di Stato sociale in cui le spettanze non rivestono carattere di universalità per tutti i cittadini, ma sono collegate a uno status “particolare”. Nel corso dell'ultimo secolo, la copertura dello Stato sociale è stata gradualmente estesa in tutti i Paesi a economia di mercato. Nell'accezione più ampia, inclusiva quindi delle varie forme di ammortizzatori occupazionali (sussidi di disoccupazione, cassa integrazione guadagni, attività convenzionate a favore di fasce escluse dal mercato del lavoro, ecc.), lo Stato sociale assorbe, mediamente, il 18% del PIL dei Paesi europei e il 12% di quelli dell'America Settentrionale e dell'Estremo Oriente. Vincoli di finanza pubblici sempre più severi si frappongono però a un'ulteriore espansione dello Stato sociale. Sul piano dell'analisi finanziaria, per esempio, studi recenti comparati del Fondo Monetario Internazionale suggeriscono che, al di là di un certa soglia, la spesa pubblica in generale – e segnatamente la spesa pubblica per lo Stato sociale – presenta rendimenti decrescenti, pur facendo intervenire nella valutazione di rendimento indicatori legati all'utilità sociale delle misure adottate. Infine, i modelli di Stato sociale ispirati a sistemi di produzione industriale con una larga quota di lavoratori dipendenti e un rapporto percentuale molto elevato fra lavoratori attivi e lavoratori in pensione mal si adattano a sistemi di produzione in cui predominano la piccola e media impresa e il lavoro autonomo e in cui, a ragione delle dinamiche demografiche, il rapporto tra attivi e pensionati diminuisce rapidamente. In tutti i Paesi industrializzati, quindi, è in atto un ripensamento degli obiettivi e degli strumenti dello Stato sociale. I modelli di welfare, come si è accennato, possono infatti grossolanamente essere distinti in modelli prevalentemente “universalistici” e in paradigmi più orientati in senso “particolaristico-occupazionale”. Nel primo caso, le spettanze sono dirette tendenzialmente a tutti i cittadini. Nel secondo i benefici sono prevalentemente (anche se non esclusivamente) articolati e commisurati in relazione al loro vigente o pregresso status occupazionale. In molti Paesi si sono adottati modelli misti, orientati, nei loro tratti fondanti, verso una delle due principali categorie. Nelle classificazioni più recenti, per esempio, la Finlandia, la Danimarca, la Norvegia e la Svezia vengono individuati come Paesi a Stato sociale “universalistico puro”, mentre il Canada, la Gran Bretagna e la Nuova Zelanda come Paesi a Stato sociale “universalistico misto”. Di converso, la Francia, il Belgio, la Germania e l'Austria sono considerati come Paesi a Stato sociale “particolaristico-occupazionale puro”, mentre la Svizzera, l'Italia, i Paesi Bassi e l'Irlanda come Paesi a Stato sociale “particolaristico-occupazionale misto”. A queste classificazioni, basate sulle caratteristiche della normativa in materia di pensioni e di sanità, si sottraggono due importanti Paesi: gli Stati Uniti e l'Australia. In essi, infatti, lo Stato sociale è molto meno sviluppato che nelle altre realtà industrializzate a economia di mercato; negli Stati Uniti, per esempio, manca una copertura sanitaria e le prestazioni in questo campo sono molto limitate e rivolte soltanto ai poveri e agli anziani, mentre in Australia le pensioni pubbliche (peraltro a livelli molto bassi) sono esclusivamente riservate a chi risulti del tutto privo di mezzi propri di sostentamento.
Sociologia: lo Stato sociale-la situazione italiana
Nell'assetto italiano, sino alla riforma delle pensioni contenuta nella legge 3345 del 1995, lo Stato sociale è stato caratterizzato da un misto di frantumazione particolaristico-occupazionale (in materia di pensioni) e di copertura universalistica (in materia di sanità). Dopo la riforma, si può dire che si vadano via via estendendo e rafforzando quelle caratteristiche “universalistiche” che attengono al modello fondativo del welfare continentale europeo, inficiate nel caso italiano da diffuse pratiche assistenzialistiche, e talora apertamente clientelari. Occorre, perciò, concentrare rapidamente l'analisi sullo specifico contesto italiano. Per quanto controversa sotto il profilo storiografico, possiamo datare la genesi di un primo embrione di welfare nazionale a cavallo tra la fine del sec. XIX e l'inizio del XX. Il modello di riferimento assunto dai poteri pubblici del nuovo Stato unitario ricalca gli schemi di assicurazione obbligatoria che negli anni precedenti erano entrati in vigore in Germania e in Francia. Anche dal punto di vista della configurazione dello Stato sociale, insomma, si manifesta la dinamica di mimesi e conflitto che accompagna la stagione politica postunitaria. Fra i fautori di una strategia di nazionalizzazione ispirata al modello inglese e le fazioni francofile e anglofile si istituisce un precario equilibrio (quello che A. Gramsci individuerà come espressione politica della crisi di egemonia della borghesia nazionale) che porta alla definizione di un modello ibrido, ma appunto prevalentemente orientato all'esempio continentale (meglio, alle due esperienze continentali più prontamente e strutturalmente recepibili dalla burocrazia pubblica italiana). Negli anni immediatamente successivi la prima guerra mondiale, peraltro, venne più volte proclamato in modo stentoreo un indirizzo di governo orientato verso un'idea di Stato sociale fondato sul principio dell'“assicurazione globale”, quanto meno in materia pensionistica. Nella pratica di governo e nella stessa cultura collettiva, invece, il modello “particolaristico-occupazionale” restò fortemente radicato e venne ulteriormente accentuato dalla seconda metà degli anni Venti, in linea con gli obiettivi e i principi del corporativismo fascista. Ne derivarono, per un verso, una forte segmentazione categoriale – con trattamenti anche marcatamente differenziati da un settore lavorativo all'altro – e, per un altro, una curvatura assistenzialistica alimentata dalle ragioni del consenso politico al regime. Due tratti costitutivi del welfare italiano, questi, che si ripresenteranno nel secondo dopoguerra, in relazione alla configurazione politico-sociale della nascente democrazia repubblicana. In particolare, le dinamiche di scambio politico incentivate dal Party Government e la crescente influenza di attori collettivi, come i sindacati dei lavoratori, orientati alla difesa e all'espansione di varie forme di tutela sociale, concorreranno a incrementare la curvatura particolaristica dello Stato sociale. Tra il 1945 e il 1978, anno di istituzione del servizio sanitario nazionale, la politica legislativa italiana in materia è stata caratterizzata da ambiziosi tentativi di riforma volti a superare il modello “particolaristico-occupazionale” e a introdurre elementi “universalistici” sempre più marcati. Questo ha generato inevitabilmente resistenze e conflitti tra le categorie che avrebbero subito svantaggi dal cambiamento e quelle a cui invece sarebbero risultati benefici, delicati e instabili compromessi distributivi, realizzazioni incomplete e per molti aspetti contraddittorie. In effetti, mentre da un lato si tentava di attutire gli aspetti “particolaristico-occupazionali” del sistema pensionistico, da un altro si metteva in piedi un insieme di ammortizzatori occupazionali che si ispiravano, invece, proprio alle dimensioni più esacerbate di tale Stato sociale “particolaristico-occupazionale”. Lo Stato sociale, tuttavia, presentava in Italia una caratteristica che lo distingueva da quello degli altri principali Paesi industrializzati e che venne accentuata, non ridotta, dalla svolta verso modelli “universalistici”. Essa consisteva, e in gran parte continua a consistere, nel fatto di erogare le proprie prestazioni tramite una pubblica amministrazione molto inefficiente sotto il profilo dei principali parametri di rendimento. Spesso, infatti, anche prestazioni istituzionalmente dovute risultano dipendere da fattori non istituzionali, quali il tempo imprevedibile e aleatorio di smaltimento delle procedure burocratiche. Di qui un potente fattore degenerativo dell'intero sistema che ha favorito la percezione come favore personale di diritti universalmente riconosciuti e alimentato, perciò, estese sacche di clientelismo e persino di corruzione amministrativa. Per questo motivo, nella classificazione dei vari tipi di Stato sociale, effettuata dall'Istituto Universitario Europeo (1994), il caso italiano viene connotato come “particolaristico-clientelare”. Un tentativo di trasformazione operativa e di mutamento culturale venne perseguito con l'ipotesi di una riforma complessiva, modellata chiaramente su principi “universalistici”. Dalla fine degli anni Settanta assistiamo a un defatigante confronto – spesso approdato a parziali e provvisorie soluzioni di compromesso (soprattutto in materia di sanità e previdenza pensionistica) – fra difensori intransigenti dell'intangibilità dei connotati del welfare italiano e sostenitori dell'indilazionabilità dell'innovazione. Nei fatti, per conservare la nostra chiave di lettura, si è sviluppato un complesso e faticoso percorso per ridurre il divario tra la natura “universalistica” dello Stato sociale e quella sostanzialmente “particolaristico-occupazionale” del sistema previdenziale. Tuttavia, da un lato, l'inefficienza della gestione burocratica ha frequentemente vanificato parte dei benefici attesi dallo Stato sociale e, dall'altro, vincoli sempre più severi alla finanza pubblica hanno reso obiettivamente sempre più difficili politiche di espansione ed estensione delle prestazioni. All'inizio degli anni Novanta, le spese per lo Stato sociale assorbivano oltre il 45% della spesa pubblica corrente e più del 50% delle entrate; ove le spese per lo Stato sociale fossero state indirizzate esclusivamente al 25% delle famiglie italiane ai più bassi livelli di reddito ne sarebbe risultata una sovvenzione annua di 80 milioni per famiglia; infine, i quattro quinti circa delle spese pubbliche per lo Stato sociale erano a favore degli anziani, mentre negli altri Paesi europei tale proporzione non supera la metà. Nella prima metà degli anni Novanta, dunque, è iniziato un processo di inevitabile riassetto dello Stato sociale. Esso ha comportato non solo vaste riforme della previdenza in senso “universalistico”, e insieme rivolte a riequilibrare contributi e prestazioni, ma anche una revisione dello Stato sociale nella sua configurazione amministrativa e gestionale, per renderne gli interventi più selettivi in base alle fasce di reddito e alle tipologie di prestazione. Molto poco è stato fatto, invece, in materia di ammortizzatori occupazionali. La rimodulazione, tentata nella X legislatura per cercare di renderli più efficienti e più efficaci, è stata in gran misura vanificata nella XI e, soprattutto, nella seconda metà della XII legislatura da misure che hanno aumentato il particolarismo e la discrezionalità amministrativa nell'erogazione delle singole provvidenze. Come negli altri Paesi industrializzati, il futuro dello Stato sociale in Italia dipende dalle soluzioni che si vorranno e potranno dare a tre grandi tipologie di problemi: a) equità dello scambio fiscale, cioè tra risorse e prestazioni; b) equità dello scambio tra generazioni; c) equità di opportunità. Perché la condizione relativa all'equità dello scambio fiscale venga soddisfatta, è necessario che il costo dello Stato sociale, in termini fiscali o parafiscali, non divenga troppo oneroso per quei cittadini sottoposti a prelievo tributario e contributivo. Per soddisfare criteri minimi di equità fra le generazioni, in presenza di un crescente squilibrio demografico a favore delle classi di età più anziane, occorre riuscire a provvedere a un'adeguata tutela delle generazioni uscite dal mercato del lavoro e ad assicurare, nel contempo, alle generazioni future trattamenti che tali generazioni considereranno “equi” alla luce di quelli che esse sono chiamate a garantire alle generazioni precedenti. Infine, in termini di pari opportunità, bisognerà ribadire categoricamente la norma etica dell'uguaglianza delle regole stabilite e applicate nei confronti di tutti i cittadini. Mentre quest'ultimo principio è di competenza esclusiva dello Stato, che deve concretamente affermarlo in sede di produzione legislativa, è difficile vedere come, alla luce dei vincoli di finanza pubblica e delle inefficienze della pubblica amministrazione, le altre due istanze possano venir garantite dalla sola mano pubblica.
Sociologia: lo Stato sociale-il dibattito teorico
Nel futuro dello Stato sociale avranno un ruolo crescente le forme di tutela su base mutualistica, articolate a seconda delle esigenze specifiche delle categorie, nonché finanziate e gestite dalle categorie medesime. In uno dei suoi ultimi lavori, il premio Nobel per l'economia James Meade ha delineato una “società dove si vive bene” (Agathotopia) in cui lo Stato sociale ha una base “universalistica” a carico della fiscalità, ma si differenzia poi secondo regole mutualistico-cooperative. In tal modo, si supererebbe anche la contrapposizione tra i due principali modelli di Stato sociale. Ciò comporta inevitabilmente un ruolo crescente per la cooperazione e chiama in causa il ruolo dei poteri locali. Lo Stato sociale non ha rappresentato soltanto il prodotto di un insieme combinato di politiche pubbliche, condizionate – come si è detto – dai contesti politici di riferimento e dalla maggiore o minore disponibilità di risorse finanziarie. In qualche modo, inculcando nei cittadini una filosofia dei diritti e delle opportunità, il welfare ha finito per rappresentare anche una vera e propria manifestazione ideologica, un crinale storico e culturale che ha separato a lungo le culture solidaristiche da quelle ispirate a un più rigido liberismo. Il welfare è stato anche accusato, infatti, di essere una filiazione dello statalismo – inteso come primato delle politiche pubbliche redistributive – e persino uno strumento di nuove forme di controllo sociale. Per tutte queste ragioni non può stupire che la sociologia politica e la ricerca sulle politiche pubbliche si siano cimentate con particolare fervore nella definizione di modelli di Stato sociale e si siano impegnate, a partire dalla fine degli anni Settanta, nello studio dei suoi possibili punti di crisi. I paradigmi teorici che hanno ispirato, in sede internazionale, le più compiute analisi del sistema di welfare, sono riconducibili a tre principali filoni interpretativi. Il primo rinvia alla classica analisi di T. H. Marshall sui diritti di cittadinanza. Il suo Citizenship and Class (1950) costituisce il primo sicuro punto di partenza della ricerca contemporanea sullo Stato sociale, quello che ha in qualche modo tematizzato il problema nella sua connessione con la struttura di classe delle società industriali postbelliche. Marshall inaugura un'indagine a largo raggio sull'espansione dei diritti di cittadinanza e sulle loro implicazioni sociologiche. Agli occhi del sociologo britannico, che pure concede ben poco agli apparati teorici del marxismo, la formazione di un regime di welfare rende evidente una contraddizione insanata delle società capitalistiche. Tale contraddizione risiede in una frattura: quella che oppone la democrazia e l'egualitarismo realizzati dalle istituzioni nella sfera civile e politica alla mancanza di democrazia e all'ineguaglianza inevitabilmente prodotte dal sistema economico. Il suo entusiasmo riformistico per le conquiste sociali garantite dal welfare è stato oggetto di non poche contestazioni teoriche ed empiriche. Alla sua visione dello Stato sociale come strumento di solidarietà e di preservazione della legittimazione politica delle istituzioni è stata contrapposta, specialmente negli anni della controffensiva liberista (il reaganismo nordamericano e il thatcherismo britannico fra gli anni Settanta e Ottanta), una puntigliosa e aggressiva rappresentazione degli effetti socialmente distorti e della crescente inefficienza delle sue prestazioni. In realtà, per Marshall lo Stato dovrebbe limitarsi a erogare quel sostegno minimo che, in relazione ai bisogni collettivi, può garantire a tutti i cittadini un decoroso accesso alla sfera pubblica, creando le premesse per quella partecipazione non subalterna alla stessa vita politica in cui consiste, in un'ottica di liberalismo progressivo, l'essenza della democrazia. Un secondo approccio canonico alla problematica del welfare risale alla scuola struttural-funzionalistica e al suo principale esponente, il sociologo statunitense T. Parsons. Nella sua rappresentazione sistemica delle relazioni sociali, ispirata alla prioritaria esigenza di garantire l'ordine e l'equilibrio tanto all'interno della sfera politica quanto di quella economica, Parsons teorizza un intervento pubblico capace di sviluppare e adattare continuamente strategie di regolazione. Allocando e redistribuendo risorse, controllando e smorzando le tensioni più acute derivanti dal disagio economico, promuovendo riforme compatibili con i valori condivisi e le disponibilità finanziarie delle comunità interessate, lo Stato può sperare di prevenire il conflitto, o quanto meno di depotenziarne gli effetti virtualmente devastanti. All'ispirazione parsonsiana è riconducibile una lettura più critica del welfare contemporaneo, come quella avanzata fra i Settanta e gli Ottanta dallo studioso tedesco N. Luhmann, che invoca un radicale ridimensionamento dello Stato sociale e, per questa via, una progressiva “riduzione della complessità” che affligge le società neoindustriali, oppresse da burocrazie pubbliche ipertrofiche e da costi insostenibili. Una critica all'etica e alla pratica del welfare, simmetrica e speculare a quella avanzata dalla sociologia conservatrice, è a lungo venuta anche dal terzo principale filone, quello marxista. In particolare i critici neomarxisti attivi nel secondo dopoguerra hanno sottolineato soprattutto il ruolo ideologico dello Stato sociale. A loro parere, esso fornirebbe legittimazione al dominio capitalistico, impronterebbe le relazioni sociali alla filosofia della mediazione fra soggetti caratterizzati da profonde asimmetrie di potere, alimenterebbe una forma sottile quanto pervasiva di controllo sociale, discriminando a discrezione delle classi dominanti fra i potenziali beneficiari delle prestazioni sociali. Per converso, alcuni indubbi vantaggi derivati anche alle classi lavoratrici nel loro insieme – come nel caso dell'istruzione obbligatoria e dell'assistenza sanitaria – vengono rivendicati come conquiste della pressione esercitata dalle organizzazioni operaie, spesso duramente contrastate dalle borghesie nazionali. In tempi recenti, anche il movimento femminista ha sollevato non poche critiche alla configurazione dello Stato sociale come strumento di riproduzione delle diseguaglianze di sesso e ha contemporaneamente rivendicato le origini storiche del welfare ad associazioni per i diritti delle donne attive già prima del 1945. Fra questi, soprattutto la Women's Labour League e la Women's Cooperative Guild avrebbero svolto un'essenziale opera di sensibilizzazione sociale e politica, propedeutica alla campagna d'opinione che condurrà in Gran Bretagna al Rapporto Beveridge (1942). Questo “sacro testo” dei sostenitori del welfare conteneva, però, non poche sopravvivenze di discriminazione sessuale: le donne coniugate non potevano godere dei benefici dell'assicurazione nazionale; i trattamenti previdenziali venivano intestati al capofamiglia (marito, padre); la definizione dei principi di “assistenza comunitaria” risultava, a parere dei movimenti femministi, un eufemismo per “lavoro domestico femminile”, privo di adeguate garanzie economiche e normative. Al di là delle controversie sui tratti genetici e le contraddizioni dello Stato sociale, non c'è dubbio che la sua crisi esploda alla fine degli anni Settanta come effetto dei costi crescenti indotti dal mutamento sociale. Le domande collettive che si indirizzano al welfare nelle società più sviluppate comportano una dispendiosa differenziazione e riqualificazione dei servizi erogati. Il prolungamento della vita media induce una rilevante pressione sul sistema pensionistico e previdenziale, caposaldo dello Stato sociale. La crisi fiscale che ne deriva alimenta una contestazione sempre più aggressiva da parte di forze politiche e movimenti d'opinione anche ideologicamente eterogenei. Per conservatori e neoliberisti, l'abnorme espansione del welfare comprimerebbe l'iniziativa privata e produrrebbe la proliferazione di una vasta burocrazia pubblica parassitaria. Per molti critici radicali, viceversa, lo Stato sociale produrrebbe nuove forme di controllo sugli individui e di discriminazione fra gruppi di integrati e aree di esclusi. Certamente si può sostenere che, malgrado l'ampiezza e la profondità della crisi, il sistema di welfare è sostanzialmente sopravvissuto sino alle soglie del Duemila in tutti i Paesi tecnologicamente avanzati e si è affermato come principio di regolazione sociale in quelli emergenti del Terzo Mondo. Le riforme avviate dai governi liberisti un po' in tutti i contesti nazionali dell'Occidente sviluppato ne hanno però cambiato configurazione e struttura. Quasi ovunque si sono ridotti i trasferimenti di spesa a fini sociali concessi direttamente dallo Stato. In molti casi sono state introdotte forme di gestione delle prestazioni orientate al mercato o comunque sottoposte a più rigorose verifiche di rendimento. Si sono affermati principi ispirati alla distinzione fra assistenza e previdenza nel regime pensionistico e in quello sanitario, con lo sviluppo di forme di assicurazione integrativa a carico dei lavoratori. Scuole, università e ospedali sono stati incoraggiati a sperimentare l'autogestione amministrativa e finanziaria. I finanziamenti pubblici si sono rivolti preferibilmente a organizzazioni private o volontarie operanti in regime di convenzione e sottoposte a più rigorosi vincoli normativi. Spese giudicate improduttive, o amministrate con eccessiva discrezionalità da enti e burocrazie locali, sono state spesso drasticamente decurtate. La struttura fondante del sistema sembra però essere riuscita a sopravvivere tanto alla obiettiva crisi delle risorse quanto alla contestazione ideologica che ne è derivata. La sfida degli anni a venire appare sempre più chiaramente quella della riforma e della riarticolazione, piuttosto che della demolizione, dello Stato sociale.