Egitto (civiltà antica)
IndiceDescrizione generale
L'Egitto antico si formò in un'area singolarmente ben determinata: un profondo solco vallivo è tracciato, al margine orientale dell'altopiano sahariano, dal corso del Nilo che porta le sue acque dal cuore dell'Africa al Mediterraneo; l'ultimo tratto di questa valle costituisce l'Egitto propriamente detto e in quest'area nacque, già alla fine del Neolitico, una civiltà straordinaria che si sviluppò per circa tre millenni.
Egitto . Lista dei reproveniente dal tempio funerario di Ramesse II ad Abido (sec. XIII a. C. ; Londra, British Museum).
De Agostini Picture Library/G. Dagli Orti
Egitto . Il re Amenofi III raffigurato in un bassorilievo della tomba di Meneptah a Tebe (Il Cairo, Museo Egizio).
De Agostini Picture Library/G. Dagli Orti
Egitto . Seti I raffigurato in un rilievo della sala ipostila del tempio di Ammone a El-Karnak.
De Agostini Picture Library/G. Dagli Orti
Egitto . Rito di ""osirizzazione"" in un dipinto murale nella tomba di Tutankhamon nella Valle dei Re.
De Agostini Picture Library/G. Dagli Orti
Egitto . Rilievi del tempio funerario di Seti I ad Abido.
De Agostini Picture Library/G. Veggi
Egitto . Particolare del Libro dei Morti dell'architetto Kha (papiro; Torino, Museo Egizio).
De Agostini Picture Library/G. Dagli Orti
Egitto . Lo scriba, statua in calcare dipinto proveniente da Saqqâra.
De Agostini Picture Library/A. Dagli Orti
Egitto . Statua di Chefren proveniente da El-Gîza (Il Cairo, Museo Egizio).
De Agostini Picture Library/G. Dagli Orti
Egitto . Il tempio funerario della regina Hatshepsut (XVIII dinastia) a Deir el-Bahari.
De Agostini Picture Library/G. Sioën
Egitto . Il tempio di Karnak.
De Agostini Picture Library/G. Veggi
Egitto . Il tempio di Ramesse II ad Abu Simbel.
De Agostini Picture Library/G. Sioën
Egitto . Ingresso del ""piccolo tempio"" della dea Hathor (XIX dinastia) ad Abu Simbel.
De Agostini Picture Library/G. Veggi
Egitto . Veduta del tempio di Dendera.
De Agostini Picture Library/G. Veggi
Egitto . Il tempio tolemaico (323-30 a. C.) di Kôm Ombo.
De Agostini Picture Library/G. Veggi
Egitto . Danzatrici in un bassorilievo in calcare dipinto dalla tomba di Nekheptka a Saqqâra.
De Agostini Picture Library/G. Dagli Orti
Storia: dalle origini alle dinastie tinite (3200 a.C.-2778)
"Per le cartine storiche vedi il lemma dell'8° volume." Abbonda nell'antico Egitto la documentazione storiografica (liste di re, annali dei singoli faraoni, iscrizioni biografiche, stele commemorative, documenti amministrativi pubblici e privati, testi letterari), tuttavia il primo a porsi il compito di una narrazione coerente e completa delle vicende del suo popolo, nell'ambito e in funzione della cultura tolemaica, fu Manetone. A lui si deve la divisione dei periodi storici per dinastie, ossia per gruppi o famiglie di sovrani, in numero di 30 da Menes alla conquista di Alessandro Magno. Le fonti a disposizione sono spesso letterarie (dirette o indirette), ma grande peso ha anche la documentazione archeologica. Fonti diverse (da quelle cuneiformi alla Bibbia, alle fonti classiche) integrano i dati indigeni. I problemi di cronologia sono alquanto complessi poiché gli Egizi non datavano secondo un sistema assoluto, ma per anni di regno, ricominciando il computo a ogni nuovo sovrano. Il calcolo è reso possibile da liste di re che pure possediamo (quella già citata di Manetone, la pietra di Palermo, le liste di Saqqâra e Abido, il Papiro dei Re di Torino); ma lo stato delle fonti e il fatto che, specie in periodi di torbidi, più re regnarono contemporaneamente, rende assai complessa la ricostruzione di un quadro cronologico esatto. "Per la storia vedi le carte tematiche alla pagina 481 dell’8° volume." Tuttavia si conoscono tre date esatte, basate su osservazioni astronomiche, per i regni di tre faraoni: Sesostri III, Amenofi I e Thutmose III, e concordanze con altri avvenimenti del Vicino Oriente permettono il computo di datazioni assai probabili, anche se con qualche tratto di convenzionalità. L'inizio dell'età storica si situa intorno al 3200-3000 a. C. (o intorno al 2850 secondo la cosiddetta cronologia corta). In tale epoca, dopo un periodo su cui si è molto congetturato, ipotizzando regni del Nord e del Sud, dapprima divisi, poi unificati e di nuovo divisi, il regno del Sud, che aveva come capitale Hierakonpolis, conquistò il Nord, la cui capitale era Buto, unificando il Paese sotto l'autorità personale del sovrano. Le lotte per l'unificazione sono testimoniate da figurazioni più che da testi. Una mostra il re Narmer (generalmente identificato con il Menes di Manetone, unificatore dell'Egitto e fondatore di Menfi) con le due corone del Nord e del Sud, segno che l'unificazione è già avvenuta. Le prime due dinastie sono dette tinite (età tinita, 3000-ca. 2778) dalla capitale This, situata nei pressi di Abido, e hanno lasciato imponenti testimonianze archeologiche nelle tombe dei sovrani e dei loro familiari e seguaci rinvenute ad Abido e a Saqqâra. Per quanto le vicende e perfino l'ordine di successione dei sovrani presentino vaste zone di incertezza, si assiste in questo periodo al formarsi di uno Stato centralizzato, sottoposto all'autorità di un re-dio (gli competono infatti i titoli di “Horus” e “Le due Signore” che lo identificano appunto con queste divinità) coadiuvato da una già efficiente schiera di funzionari, il che permette la progettazione e l'attuazione di lavori a largo raggio, come lo scavo di canali e la costruzione di dighe, primo indispensabile passo verso l'ampliamento dell'agricoltura e la trasformazione dell'economia.
Storia: l'Antico Regno (2778 a.C.-2220 ca.)
Con la III dinastia si entra nell'Antico Regno (2778-2220 ca.) propriamente detto. Il passaggio pare non sia stato violento perché Gioser, il I re della III dinastia, è probabilmente figlio di Khasekhemui, ultimo faraone della II dinastia. La capitale passa a Menfi e l'organizzazione burocratica dello Stato si amplia con l'apparire di una nuova figura di funzionario, diretto coadiutore del sovrano, che poi si chiamerà tati (visir). Il regno di Gioser I sembra un momento fondamentale nello sviluppo della cultura egiziana, testimoniato dalle costruzioni in pietra della piramide a gradoni di Saqqâra. Più oscuri sono i regni dei successori. La IV dinastia inizia con Snofru, di cui si conoscono spedizioni in Libia, in Nubia e nel Sinai. I regni dei successori, Cheope, Chefren e Micerino, sono noti quasi esclusivamente attraverso le loro imponenti costruzioni funerarie, le piramidi di El-Gîza, che testimoniano di un'economia accentrata nelle mani del sovrano e di una sapiente organizzazione del lavoro collettivo. Le necropoli annesse alle piramidi ospitano mastabe di funzionari, spesso imparentati con il sovrano. I titoli e le funzioni mostrano come il potere sia fortemente accentrato e come quasi tutta la burocrazia ruoti, anche fisicamente, attorno al re. Un sistema così compatto non poteva durare a lungo: la IV dinastia finisce oscuramente e la V dinastia mostra i segni di una crisi ormai in atto. I primi tre sovrani della V dinastia (Userkaf, Sahura e Neferkara), secondo la leggenda, sono figli del dio Râ e della sposa di un sacerdote di Eliopoli e i loro successori, oltre ad avere nomi composti con Râ, portano tra i loro titoli quello di “figlio di Râ”, indicando con ciò una dipendenza dal Sole (prima erano invece identificati con il dio Horus e le due dee dinastiche). È questo un chiaro segno del potere che il clero (in questo caso il clero eliopolitano) va assumendo a fianco dell'autorità regale. Nello stesso tempo un altro elemento centrifugo si ha nelle grandi famiglie della nobiltà provinciale che si trasmettono ereditariamente, di padre in figlio, le cariche prima assunte per nomina regale. I sovrani della VI dinastia tentano di controllare questa spinta centrifuga, ma sono costretti continuamente a concessioni di autonomia politica e amministrativa verso il clero e le famiglie nobiliari. Il primo re di questa dinastia fu Teti, di cui non si sa molto; gli succedettero Userkara, Pepi I e i figli Merenra I e Pepi II. Quest'ultimo, salito al trono a 6 anni, regnò per ben 94 anni, ed è proprio sotto di lui che si compie la decadenza dell'Antico Regno. Nulla sappiamo di preciso sulle cause ultime della fine della dinastia, culminata in una rivoluzione sociale che traeva la sua origine da cause assai più antiche e di cui approfittarono i nobili provinciali per crearsi una loro autonomia nei paesi di origine.
Storia: il Medio Regno (2000 a.C.-1785)
Il I periodo intermedio (2220-2065 ca.) fu un'epoca dalle caratteristiche feudali, in cui l'Egitto appare frazionato in piccoli potentati autonomi foggiati sul modello della monarchia centrale. Intorno al 2300 a. C. una casata, stabilita in Eracleopoli, controlla la regione centrale (IX e X dinastia), ma viene poi a conflitto con i nomarchi di Tebe, finché, verso il 2065, un re tebano, Mentuhotep I (dell'XI dinastia), afferra di nuovo saldamente nelle sue mani l'Egitto unificato e dà inizio al Medio Regno (2000-1785 ca.). All'XI dinastia, dei Mentuhotep, succedette la XII, costituita dai membri di una famiglia di visir. Il primo sovrano è Amenemhat I, il cui regno finì bruscamente per una congiura di palazzo. Gli succedette il figlio Sesostri I che intraprese vaste conquiste in Nubia. Meno noti i regni dei successori Amenemhat II e Sesostri II. Sesostri III fu invece uno dei più grandi faraoni della storia egizia e il suo nome ricorre anche nelle leggende narrate dagli storici greci. Fece fortunate campagne in Palestina e in Nubia, dove stabilì fortezze. Il figlio Amenemhat III si occupò principalmente dello sfruttamento agricolo ed economico dell'Egitto, specie del Faiyûm. Sotto i successori Amenemhat IV e Sobekneferura (una regina) avviene una rapidissima decadenza che dà inizio al II periodo intermedio (1785-1580 ca.), periodo che presenta tuttora molti punti oscuri, a cominciare dalla sua durata che oggi è valutata intorno ai 200 anni in luogo dei 1583 dati da Manetone. L'Egitto appare di nuovo smembrato: nella regione tebana continua, almeno formalmente, la regalità indigena con la XIII e la XIV dinastia, mentre nel Delta iniziano, dapprima lentamente sotto forma di infiltrazioni e poi in forma sempre più violenta, le invasioni di popolazioni nomadi asiatiche, i cosiddetti Hyksos (principi dei popoli stranieri). Ben presto essi si stabiliscono in Avaris, nel Delta orientale, dove costruiscono una fortezza, spingendosi poi fino a Menfi, e a un certo momento fino a Gebelein, a sud di Tebe, forti del possesso di nuove armi, di cavalli e carri da guerra. Una volta sedentarizzati assumono usi e costumi degli Egizi e costituiscono delle vere e proprie dinastie (la XV e la XVI) con titoli e cerimoniale regali. Per un certo periodo vi furono rapporti di tolleranza reciproca con i Tebani, che avevano anch'essi costituito una dinastia, la XVII. Fu solo intorno al 1580 a. C. che si arrivò allo scontro diretto tra gli Hyksos e gli Egizi in grado ormai di far leva sul nazionalismo indigeno, mortificato dall'invasione. Uno dei re della XVII dinastia tebana, Seqnenra, probabilmente morì in battaglia (la sua mummia presenta un'ampia ferita alla fronte); il figlio Kamose continuò la lotta che fu portata a termine da Ahmose, il fondatore della XVIII dinastia. Costui assediò Avaris e la conquistò, inseguendo gli invasori fin nella Palestina meridionale.
Storia: il Nuovo Regno (1580 a.C.-1085)
Si iniziava così, in questo clima di vittoria e nell'esaltata rinascita di uno spirito nazionale, il Nuovo Regno (1580-1085 ca.), uno dei periodi più floridi e fortunati dell'antico Egitto. La profonda crisi del II periodo intermedio non era però passata invano; gli Egizi cominciarono a rendersi conto che i territori a est dell'Egitto potevano costituire una minaccia e, per difendersene, occorreva attaccare e sottomettere le popolazioni siro-palestinesi nel loro stesso ambiente. Questa fu la politica attuata dallo stesso Ahmose e seguita dai suoi successori Amenofi I, Thutmose I e Thutmose II. Come prima conseguenza di queste campagne si ebbe in Egitto un afflusso di ricchezze che, unito alle aumentate conoscenze di popoli diversi, introdusse esigenze di lusso e di raffinatezza assieme a nuove credenze che cambiarono profondamente il modo di vivere. Una battuta di arresto in queste campagne asiatiche si ebbe sotto la regina Hatshepsut, ma il suo successore Thutmose III riprese con eccezionale vigore la politica espansionistica in Asia. Egli portò a termine 17 campagne militari, volte a riconquistare Siria e Palestina e a perseguire i Mitanni che fomentavano le rivolte fin oltre l'Eufrate. Queste campagne avevano scopo intimidatorio più che di vera e propria conquista: il faraone si accontentava infatti di assicurarsi la fedeltà dei capi dei Paesi vinti, attuando così una specie di protettorato. Tuttavia la fluidità del mondo asiatico, teatro di continue lotte locali e continuamente premuto da invasori provenienti da est (prima i Mitanni, poi gli Ittiti e più tardi gli Assiri, i Neobabilonesi e infine i Persiani) rese il sistema assai aleatorio e richiese continui interventi armati. Né si perse di vista la Nubia, che anzi venne annessa più strettamente e posta sotto l'autorità di un viceré, “il Figlio Regale di Kush”. A Thutmose III succedettero Amenofi II e Thutmose IV, sotto i cui regni cominciò a profilarsi in Asia la nuova minacciosa potenza degli Ittiti, che cozzando con i Mitanni indussero questi ultimi a riavvicinarsi all'Egitto. Amenofi III, figlio e successore di Thutmose IV, cercò di mantenere in pace l'impero, creando alleanze anche per mezzo di matrimoni con principesse straniere. Intanto all'interno andava sempre più affermandosi il potere del clero di Ammone, al cui tempio affluiva gran parte delle ricchezze asiatiche e nubiane. Intorno al 1350 la crisi scoppiò per opera di Amenofi IV, figlio di Amenofi III, sfociando in una rivoluzione religiosa che abolì tutti i vecchi dei riconoscendo come unico dio Aton, il “disco solare”. L'unico intermediario tra Dio e gli uomini divenne il sovrano stesso, ristabilendo così quella figura di re-dio, unico arbitro delle vicende umane, che dalla prima età menfita era andato perdendo ogni vitalità. Insieme venne esautorata anche la vecchia nobiltà, in quanto i funzionari erano di nomina regale e non legati alle vecchie famiglie (almeno formalmente). Il suo distacco dal passato è sottolineato dal cambiamento di nome, da Amenofi (Ammone è in pace) in Ekhnaton (Colui che è utile ad Aton), e dalla fondazione di una nuova capitale, Akhetaton (L'orizzonte di Aton). Ben presto tuttavia clero e nobiltà ripresero il sopravvento e lo stesso sovrano fu costretto a tentare una riconciliazione che però non valse a salvare la sua riforma. Alla sua morte gli succedette, forse solo per pochi mesi, Semenkhara, seguito poi da Tutankhamon. Dopo un breve regno di Ai, la XVIII dinastia terminò con l'ascesa al trono di Horemhab, un ex generale, proveniente da una famiglia di nomarchi, la cui attività fu volta soprattutto a esautorare le autorità provinciali restaurando il potere centrale assai provato dall'ultima crisi. La XIX dinastia, che con Ramesse I succedette senza scosse a Horemhab, portò al potere una famiglia di militari originaria del Delta. Essi mantennero la capitale a Tebe, ma nello stesso tempo conservarono legami assai stretti con la loro città di origine e, con fine intuito politico, affiancarono al dio nazionale Ammone i loro dei Seth (venerato a Tani), Ptah (il dio dell'antica capitale Menfi) e Râ (il potente dio di Eliopoli). Con ciò ottennero di poter controllare tutto il Paese dalla Vallata al Delta e insieme di limitare, senza troppo urtarne la suscettibilità, l'influenza del clero di Ammone. Il successore di Ramesse I, Seti I, contrastò vittoriosamente le ribellioni in Asia, fomentate dagli Ittiti, e le invasioni delle tribù ariane provenienti dalla Libia. La lotta contro gli Ittiti fu proseguita dal figlio Ramesse II, forse il più famoso dei sovrani egizi, che ebbe un regno lunghissimo e si segnalò soprattutto per la sua attività di costruttore. Ai primi anni del suo regno, intorno al 1294, risale la famosa battaglia di Qadesh contro gli Ittiti, che ebbe esito incerto anche se poi fu sfruttata da Ramesse, con abile propaganda, come una splendida vittoria personale. Il vero successo della battaglia si ebbe però nella stipulazione di un trattato di pace, suggellato da un matrimonio tra il faraone e la figlia del re degli Ittiti, in cui, oltre alla reciproca convivenza, i due popoli si impegnavano alla mutua difesa, soprattutto in vista di un nuovo pericolo proveniente da Oriente: gli Assiri. La situazione rimase stazionaria sotto il regno di Merenptah, che respinse energicamente dal suolo stesso dell'Egitto gli invasori Popoli del mare, provenienti dalla Libia: ma precipitò sotto gli ultimi sovrani della XIX dinastia. Un ultimo soprassalto di energica ripresa si ebbe sotto Ramesse III della XX dinastia che, ispirandosi alle imprese del suo omonimo predecessore, combatté e vinse i Popoli del mare e le tribù coalizzatesi sul fronte libico, ma la fine oscura del re, perito forse per una congiura di palazzo, dette il via alla decadenza. Ormai l'Egitto non poteva più contare sul suo isolamento, nuove forze entravano in gioco sconvolgendo gli antichi equilibri, armate potenti premevano sia da Oriente sia dal mare sia dalla Libia, fresche di nuove energie e dotate di armi più potenti. Era la crisi del passaggio dall'Età del Bronzo all'Età del Ferro e l'Egitto, privo di minerali utili e ancorato alle sue tradizioni ormai millenarie, restava al di fuori, sorpassato, mentre la sua stessa estensione e il tradizionale antagonismo tra Delta e Vallata ne impedivano un'efficace difesa. Gli ultimi re della XX dinastia, Ramesse IV-XI, sono comparse insignificanti.
Storia: la Bassa Epoca (1085 a.C.-332)
Verso il 1085 (Bassa Epoca, fino al 332 a. C.) il potere passò nelle mani di un sommo sacerdote di Ammone, Herihor, che, pur in presenza di una misera figura di re, Smendes (fondatore della XXI dinastia), assunse titoli regali. Vi furono così due capitali, una religiosa a Tebe e una politica a Tani, nel Delta, mentre le istituzioni si andavano sgretolando sotto la vana copertura di accademici orpelli. Si rappezzarono templi, si nascosero le mummie dei faraoni perché non si riusciva più a difenderle nelle loro tombe, si trafficava con i Paesi orientali, ma non si poteva impedire che i messi egizi venissero vilipesi in terra straniera. Nel frattempo mercenari di origine libica, prestanti servizio nell'esercito, si erano stabiliti a Eracleopoli e tra essi emerse una famiglia i cui membri assunsero cariche sacerdotali e civili finché, intorno al 950 a. C., uno di loro, Sheshonq, occupò il trono fondando la XXII dinastia che assunse i caratteri di una dittatura militare, avente come capitale Bubasti nel Delta. Sheshonq riprese anche le campagne in Asia, arrivando fino a Gerusalemme, di cui saccheggiò il tempio, e riuscì anche, per un certo tempo, ad assicurarsi un controllo sul clero di Ammone, creando una nuova figura sacerdotale da contrapporre al gran sacerdote di Ammone: la “Divina Adoratrice” o “Sposa del Dio”, scelta tra le principesse della famiglia reale. Ciò però non valse a frenare i torbidi e le divisioni interne, ormai troppo radicate nel Paese, al punto da dare di nuovo origine a una società di tipo feudale, che perdurò nelle dinastie XXIII e XXIV. La situazione si complicò con l'arrivo in Egitto di conquistatori nubiani (forse discendenti da sacerdoti egizi esiliatisi a Napata), con a capo Piankhy, figlio di Kashta. Egli penetrò in Egitto presentandosi come restauratore della genuina tradizione egiziana; se ne tornò quindi a Napata, lasciando a Tebe, in sua vece, un governatore. Le ribellioni ripresero, costringendo il fratello di Piankhy, Shabaka, a riprendere la lotta. A Shabaka succedettero Shabataka e poi Taharqa, sotto il cui regno gli Assiri invasero l'Egitto due volte (671 e 669), questa volta spingendosi fino a Tebe. Sotto Tanutamon, l'ultimo sovrano della XXV dinastia, gli Assiri conquistarono per la terza volta l'Egitto (664), respingendo la dinastia etiopica nel Paese d'origine, dove poi diede vita al regno meroitico. Nel 663 un principe di Sais, Psammetico, approfittando delle divisioni interne degli Assiri e forte dell'aiuto del re di Lidia Gige, che gli inviò mercenari greci e carii, riuscì a ristabilire l'unità interna dell'Egitto fondando la XXVI dinastia, l'ultimo periodo di fioritura dell'Egitto, in cui un cosciente ritorno alle tradizioni riportò nella letteratura e nell'arte i modi e il linguaggio dell'Antico e Medio Regno, vagheggiati come favolosa età dell'oro. I Greci penetrarono in Egitto come mercenari e mercanti, ampliando gli orizzonti della cultura indigena. All'esterno intanto la potenza neobabilonese si era sostituita a quella assira e con essa cozzarono Nekao, che fu sconfitto da Nabucodonosor, e Apries, che fu poi detronizzato dal suo generale Amasi. Il figlio di Amasi, Psammetico III, fu a sua volta sconfitto dal re persiano Cambise, che nel 525 invase l'Egitto, installandovi una satrapia. La XXVII dinastia di Manetone è appunto costituita dai sovrani persiani Cambise, Dario I, Serse, Artaserse, Dario II (423-404). L'Egitto fu reso di nuovo indipendente da Amirteo di Sais, l'unico re della XXVIII dinastia (404-398), e riuscì, pur con alterne vicende, a conservare la libertà per altre due dinastie indigene, la XXIX con capitale Sebennito e la XXX con capitale Mendes (entrambe nel Delta). Tuttavia nel 341 l'Egitto ricadde sotto il dominio persiano cosicché Alessandro Magno, quando nel 332 conquistò il Paese, apparve come un liberatore e fu proclamato “Figlio di Ammone” dall'oracolo dell'oasi di Sîwa.
Storia: l'età greco-romana
Dopo la morte di Alessandro Magno, iniziò il regno dei sovrani tolemaici, nato dalla spartizione dell'impero di Alessandro tra i suoi generali (i diadochi) e dall'assegnazione della regione a Tolomeo Lago, che nel 304 vi assunse il titolo di re sull'esempio di quanto aveva fatto Antigono. La dominazione tolemaica rappresentò nel complesso un periodo di pace e di benessere e durò per tre secoli, fino al 31 a. C. I Tolomei, fin dai primi tempi della loro dominazione, cercarono di ingraziarsi la popolazione indigena proclamandosi eredi dei faraoni e assumendone tutto il cerimoniale, professando ossequio agli antichi dei (molti templi, tra i più importanti dell'Egitto, furono rifatti o costruiti ex novo in questo periodo) e creando addirittura divinità ibride come Zeus-Serapide, ma non arrivarono mai a fondere le due popolazioni. Si ebbero così due culture che vissero affiancate, senza amarsi e senza comprendersi: da una parte il mondo ellenistico che ha trovato in Alessandria la sua più brillante capitale, e dall'altra il mondo egiziano, sopravvissuto a se stesso e chiuso ormai in un accademico e bigotto isolamento. Dell'amministrazione faraonica, i Tolomei conservarono e potenziarono l'organizzazione burocratica, il sistema fiscale, il carattere ufficiale imposto anche alle trattative private con la stesura di contratti depositati presso un notaio. Vi sono notizie di rivolte, specie nella Tebaide, la regione più lontana dal potere centrale e in cui più viva restava la tradizione, specie sacerdotale, finché nell'84 a. C. Tebe fu distrutta da Tolomeo IX Latiro. Un tentativo di far leva sul nazionalismo più vasto fu compiuto dall'ultima regina d'Egitto, Cleopatra, l'unica che parlasse la lingua egizia, ma il suo sogno finì con la sconfitta di Azio. I Romani, conquistato l'Egitto, ne fecero una provincia a statuto speciale rispetto alle altre province dell'Impero, governata dagli stessi imperatori per mezzo di un prefetto di rango equestre. Inoltre il territorio era interdetto ai personaggi di rango senatorio. E gli imperatori, come già i Tolomei, si considerarono eredi dei faraoni e si fecero spesso rappresentare in abito e stile egizi, con il nome in geroglifici racchiuso in un cartiglio. Le istituzioni tolemaiche furono generalmente conservate e ci si appoggiò più all'elemento greco che a quello indigeno, tanto che, quando nel 212 Caracalla concesse la cittadinanza romana a tutti i cittadini dell'impero, gli Egizi, tranne i più illustri, ne restarono esclusi. Nei sec. I e II l'Egitto fu considerato “il granaio dell'impero” e da questa pesante situazione uscì fortemente impoverito, mentre sempre più si accentuava lo sfacelo delle classi abbienti, costrette a compiti amministrativi di cui dovevano sostenere anche le spese. Con la riforma dioclezianea l'Egitto venne diviso in tre province e venne a far parte della Diocesis Orientis governata da un prefetto avente sede in Antiochia. In questo periodo l'elemento ellenizzato, tranne che in Alessandria, andò perdendo la sua supremazia, mentre si fece strada di nuovo quello indigeno. Nello stesso tempo si andava sempre più diffondendo, specie tra gli indigeni, il cristianesimo e si sviluppava una nuova lingua erede dell'antico egiziano, ma scritta in caratteri greci: il copto. Tuttavia anche l'avvento del cristianesimo non placò le lotte civili; anzi, dapprima si ebbero le fanatiche persecuzioni degli ultimi pagani, poi le contese, sempre violente, tra melchiti e monofisiti in cui si rispecchiava forse la sempre viva tensione tra mondo alessandrino e mondo indigeno, contadino, il primo volto a raffinate speculazioni teologiche, mentre il secondo, più rozzo ed elementare, diede vita al fenomeno del monachesimo. Nel 451 la ribellione del patriarca Dioscoro, che, avendo accettato l'eresia monofisita, era stato condannato dal Concilio di Calcedonia, staccò definitivamente la Chiesa copta dall'autorità di Bisanzio, sanzionando un conflitto che era anche politico. Nel 616 i Persiani, guidati da Cosroe, invasero l'Egitto, tenendolo in loro potere fino al 628 e, dopo una brevissima riconquista bizantina, intervennero gli Arabi che nel 641 lo invasero al comando di ʽAmr ibn al-ʽĀṣ battendo i Bizantini a Heliopolis.
Religione: generalità
Per la difficoltà di ridurre la religione egiziana a un unico sistema organico, gli studiosi, partendo dai miti cosmogonici, vi hanno individuato tre complessi principali arcaici (a partire dal III millennio), collegati ad altrettante città e sedi di culto: Eliopoli (la “Città-del-Sole”), Menfi (la capitale dei costruttori di piramidi), Ermopoli (la “Città-di-Ermete”, ossia del dio egiziano Toth che i Greci identificarono con il loro Ermete). La cosmogonia eliopolitana ha per protagonista il dio Sole (Râ), la menfitica il dio Terra (Ptah, detto anche Ta-tenen, Terra-che-si-solleva, con allusione alla sua emergenza dal Nun, il caos acquatico primordiale), e l'ermopolitana un gruppo solidale di 8 dei (ogdoade) intesi come un'unica entità cosmogonica ripartita per 4 aspetti in 4 coppie (un dio e una dea per coppia): Nun e Nunet (l'acqua primordiale), Heh e Hehet (lo spazio infinito), Kek e Keket (le tenebre), Ammone e Amonet (ciò che è nascosto). Ogni mito, però, non ha valore a sé stante, perché, per esempio, l'ogdoade è un'emanazione di Râ. L'individuazione delle tre cosmogonie “fondamentali” non è utilizzabile nella ricerca di una forma religiosa che trascenda i singoli elementi, né questa forma religiosa sembra poter risultare dalle divinità dell'antico Egitto, perché anche in questo caso si è finito per assegnare singole divinità a singoli centri cultuali, spiegando poi la loro emergenza nella cultura egiziana con l'importanza politica assunta da quei centri nel corso del tempo; e, come per i miti cosmogonici, ci si è trovati di fronte a “sintesi” o “teocrasie” come quella di un Amon-Râ derivata dalla fusione del dio Râ di Eliopoli con il dio Ammone di Tebe. Anche in questo caso si ha una subordinazione delle concezioni divine a una forma religiosa che le trascende. Questa si fa intelligibile solo muovendo dalla concezione della regalità sacra, perché la regalità s'identifica con la forma religiosa egiziana: senza trascendere né esserne trascesa. Il che è bene espresso dal rito con cui il faraone, in quanto personificazione dell'Egitto stesso, adorava la propria immagine, come rappresentazione di tutta la sacralità. Quell'unità culturale che noi chiamiamo Egitto è sorta con la concezione della regalità (sacra): l'unificazione politica del Paese viene senza alcun dubbio attribuita all'istituto regale; non è assurdo, dunque, pensare che lo stesso istituto abbia acquisito l'unificazione culturale, e perciò anche religiosa, dell'Egitto. Quando si parla di religioni etniche, come fu l'egiziana, non bisogna attribuire a esse contenuti validi di per sé (siano miti cosmogonici o concezioni divine), ossia credibili in assoluto come verità di “fede”. In una religione etnica ogni contenuto (e quindi anche le cosmogonie e gli dei) contribuisce all'edificazione politico-sociale di quel popolo che ne è portatore, e va pertanto considerato esclusivamente alla luce di questo suo fine. Per l'Egitto l'istituto regale è la ragion d'essere del popolo egiziano, per cui la religione egiziana è e si esplica soltanto in sua funzione e quindi si può dire che ogni mito e ogni divinità, in Egitto, esistano e siano documentati in funzione del re. Sopra questa o quella cosmogonia c'è il mito del concepimento divino di ogni singolo re. Al di là della concezione eliopolitana del dio Râ, o di quella tebana del dio Ammone, o della teocrasia Amon-Râ, c'è l'idea che il faraone sia figlio di Amon-Râ. Si arriva a dire, come è documentato, che è il faraone a illuminare con i raggi solari, è lui a far germinare la terra, ecc., quasi che non ci fosse bisogno di un dio-sole, di un dio-terra, ecc. È in questo quadro che si spiegano le “sintesi” e le “teocrasie” e finalmente la famosa riforma “monoteistica” di Amenofi IV (1360-1340 a. C.), il quale, perseguendo una sua politica ordinatrice dell'impero egiziano, ha creduto di poter vanificare tutte le entità divine riducendole alla forma emblematica del “disco solare” (Aton). E il difetto di questa riforma – rilevabile a posteriori dalla sua sfortuna – non è nell'impossibilità di vanificare gli dei tradizionali, ma in una contraddizione interna: gli dei tradizionali non avevano una realtà culturale scindibile dalla regalità, e pertanto eliminandoli si minava alla base lo stesso istituto regale. Ossia: il re riformatore perdeva la capacità di fare la riforma. Del resto la riforma di Amenofi mirava alla costituzione di un organismo politico supernazionale, in cui il nuovo dio Aton doveva provvedere non soltanto agli Egizi ma anche alle altre genti dell'“impero”, e questa tendenza universalistica contrastava con la sostanza della religione etnica tradizionale. "Per approfondire Vedi Gedea Arte vol. 1 pp 140-145, 172-185" "Per approfondire vedi Gedea Arte vol. 1 pp 140-145, 172-185"
Religione: il mito di Osiride
Il complesso mitico-rituale del dio Osiride emerge tra gli altri culti in vista dell'individuazione di una realtà religiosa panegiziana. Ciò è possibile perché in questo complesso si cala completamente la sacralità dell'istituto regale; in esso si risolvono le contraddizioni inerenti alla condizione umana e mortale del faraone, chiamata a esprimere un'idea divina e immortale che la trascende. In altri termini: la vita del faraone che finisce con la sua morte è una “vicenda” che si svolge necessariamente sul piano della storia, mentre ciò che egli rappresenta (l'Egitto) deve essere un'entità sottratta al divenire storico, e quindi alla morte. C'è bisogno di un “superamento” della morte del faraone che assicuri continuità all'Egitto. Tale superamento, che in uno Stato moderno sarebbe ottenuto da una costituzione, nell'antico Egitto era ottenuto mediante il mito osirico. I protagonisti del mito sono: Osiride, figlio del dio-terra Geb e della dea-cielo Nut (intesi come principi cosmogonici assoluti); la sua sorella-sposa Iside; il fratello antagonista Seth; il figlio Horus. La vicenda mitica: Seth uccide Osiride e ne fa a pezzi il corpo; Iside ricompone il cadavere del marito e ha da lui un figlio, Horus; questi uccide Seth, vendicando il padre e sostituendolo sul piano della “vita”; Osiride continuerà a esistere ma sul piano della “morte”: diventerà il dio dei morti. In questo mito d'indubbie origini predeistiche (gli dei infatti dovrebbero essere immortali) si cala la sacralità del faraone “mortale” e “dio” a un tempo. Non si tratta dell'identificazione meccanica del faraone con Osiride, ma della fondazione dei valori della regalità mediante una “vicenda” mitica che la sottrae alla storia, liberandola della “vicenda” storica determinata dalla vita e morte di ogni singolo faraone. Soltanto alla sua morte il faraone veniva “osirizzato”, ossia, mediante un rito, identificato con Osiride; il suo successore, invece, assumeva il titolo di Horus. Iside in questo contesto è presente per il suo nome significativo: vuol dire “trono”. Quanto a Seth, la sua posizione è ambigua: sta probabilmente a rappresentare la “deperibilità” del faraone (e dunque la sua parte “cattiva”, non divina), su cui tuttavia Horus (ossia lo stesso faraone vivente) ha la meglio; ma è da notare che qualche re della II dinastia si fa chiamare Seth invece di Horus, il che sottrae Seth a un giudizio etico (il “nemico malvagio”) e lo riduce al ruolo di antagonista necessario allo sviluppo della vicenda mitica in cui deve calarsi la vicenda regale della morte e della successione al trono. Da notare infine che, oltre all'identificazione della regalità con il complesso osirico, si ha anche l'inverso, ossia l'identificazione di Osiride con la regalità: il dio nel mito era immaginato come un re dell'Egitto (il primo re) e, dopo morto, come il re dei morti. Rispetto a quel punto di partenza, per la comprensione della forma religiosa egiziana, che ci è parso essere l'istituto regale, Osiride dunque diventa necessario a differenza degli altri che sono soltanto contingenti. Se teoricamente il faraone può sostituire tutti gli dei settoriali o locali, altrettanto avviene per Osiride: se il faraone può sostituire un dio-sole e un dio-terra, Osiride si sostituisce, con il sistema delle “teocrasie”, nel campo d'azione del dio-sole Râ (formula: Amon-Râ-Osiride) e del dio-terra Ptah (formula: Ptah-Sokaris-Osiride). Il dio Toth di Ermopoli cede a Osiride il carattere di “incivilitore” o “fondatore della civiltà”, per ridursi a suo “scriba”. E si potrebbe continuare così, ma in sostanza Osiride, come il faraone, è l'Egitto stesso: la morte del dio è equiparata all'inondazione del Nilo; il rito che la evocava aveva luogo nell'ultimo mese della stagione dell'Inondazione; e nel primo giorno della stagione dell'Emersione, quando il suolo egiziano fecondato dal Nilo risorgeva a nuova vita, si erigeva la colonna djed (nella scrittura ideografica significante “stabilità”), che poteva essere intesa come la “colonna vertebrale di Osiride”. Quanto sopravvisse alla fine dell'Egitto dopo la sua ellenizzazione e la conquista romana fu proprio il complesso osirico; ma indice della nuova situazione (non c'era più l'istituto faraonico, né l'Egitto come entità politico-culturale) fu lo spostamento di importanza da Osiride a Iside, alla quale dea s'intitolarono i “misteri” (isiaci) sorti sul modello greco dei “misteri eleusini”. Il “superamento della morte” che Osiride prospettava al faraone si risolveva, a livello della gente comune, nella credenza in una vita oltretombale che non trova riscontro in alcuna delle antiche culture mesopotamiche e mediterranee. Le idee egiziane sull'oltretomba muovono dal riconoscimento di una parte indeperibile dell'uomo (le due “anime”: il ka, “forza vitale” che viene trasferita nell'immagine funeraria, e il ba, una specie di “doppio” che con la morte si libera dal corpo per la nuova vita), ma soprattutto si fondano sull'acquisizione al diritto di una vita oltretombale mediante una vita adeguata all'ordine costituito, un “ordine cosmico” personificato dalla dea Maat, il cui nome significa “verità” o “giustizia” (è un concetto intraducibile); in altri termini mediante la perfetta subordinazione al faraone che di quell'ordine è promotore e garante. Chi muore si presenta al giudizio di Osiride che commisura il suo cuore a Maat, mediante l'immagine di una pesa: se risulterà “giusto” sarà salvo, se “ingiusto” morrà una seconda volta e definitivamente. In Osiride, dunque, si risolve il problema della morte, non soltanto come superamento della contraddizione insita nell'istituto regale, ma anche della contraddizione insita nella condizione umana. Tutto ciò, ovviamente, nei limiti della condizione “egiziana”, perché essere Egizi significò in vita venire rappresentati da un faraone, e dopo la morte da Osiride.
Religione: panorama spazio-temporale delle divinità egiziane
In epoca preistorica è già attestata la credenza in una vita ultraterrena, accompagnata al culto di animali, di piante e di oggetti. Lo zoomorfismo è una caratteristica costante della religione egiziana (in genere, corpo umano e testa di montone, di vacca, di falco, di cane, d'ibis, ecc.), a ricordo forse di antichi culti totemici. Tra la fine della preistoria e l'inizio dell'età storica il panorama delle divinità offre già un quadro completo e ben individuato nelle singole località: a Elefantina, nella estremità meridionale del Paese, era venerato Khnum, dio dalla testa d'ariete, con le compagne Satis e Anuki; a Edfu un dio-falco, Horus; a el-Kab la dea-avvoltoio Nekhbet; a Hieraconpolis un altro Horus; a Hermonthis un altro dio-falco, Month; altri dei-falchi avevano un proprio culto in altre città della Vallata e del Delta; a Koptos aveva il proprio culto un dio antropomorfo e itifallico, Min, datore di fecondità e protettore delle vie carovaniere; a Dendera era venerata la dea-giovenca Hathor, connessa con Horus: dea celeste e funeraria, presiedeva all'amore e alla guerra, mutevole nell'aspetto di donna o di vacca; ad Abido era fiorente il culto alla dea Khenty-Amentyw, con aspetto di cane; ad Akhmin ricompare il dio Min; ad Asyût, Anubi, il curatore dei cadaveri, e Upuant, la guida dei morti, entrambi con aspetto canino; a Ermopoli dominava il saggio Toth, distributore della sapienza e dio della scrittura e della luna, con aspetto di babbuino o d'ibis; nel Faiyûm, zona di laghi, era venerato il dio-coccodrillo Sobek; Menfi onorava Ptah, dio creatore, assieme alla sposa Sechmet e al figlio Nefertum; a Sais, la dea Neith in forma umana; a Buto, una dea-serpente; a Busiride, prima Anegti e poi Osiride; a Sebennito, gli dei Shu e Tefnut; a Behbet, Iside; a Mende, un dio-ariete; a Bubasti, la dea-gatta Bastit; al confine orientale il dio-falco Sopdu. All'inizio dell'epoca storica, per il fenomeno del sincretismo, diverse divinità s'identificarono fra loro scambiandosi aspetto, attributi e funzioni oppure costituendosi in triadi a carattere familiare: si ebbero così la triade menfita formata da Ptah, Sechmet e Nefertum; la tebana con Ammone, Mut e Khonso; quella più diffusa e popolare di Osiride, Iside e Horus, presente ancora in epoca tarda. Sorgevano frattanto i grandi sistemi teologici, fondati su divinità a carattere universale e raccolte in gruppi: la Grande Enneade con il dio primordiale Aton, da cui sono generati Shu (l'aria) e Tefnut (l'umidità); da questi nascono Geb (la terra) e Nut (il cielo), che a loro volta generano Osiride, Iside, Seth e Nefti. Secondo il sistema teologico di Ermopoli, da un originario caos acquatico sono generate quattro coppie di dei: i maschi-serpenti e le femmine-rane; dalla stessa acqua s'innalza un primo coacervo di terra, nido di un misterioso uovo, dal quale nasce il sole. Di ben diverso valore speculativo è la teologia menfita, che dice il mondo opera della parola creatrice di Ptah. Miti e leggende accompagnano l'evoluzione religiosa: di questi è tipico il ciclo di Osiride. Un altro ciclo si formò attorno a Râ, dio del sole, signore del mondo. La purezza della religione egiziana fu contaminata, all'inizio del Nuovo Regno, dai culti di divinità asiatiche, fra cui principali quelli a Qadesh, Reshef e Astarte; nel contempo, come antidoto alle difficoltà del vivere quotidiano, la devozione del popolo s'indirizzò verso divinità minori e locali, come Bes, Toeri e Mert-Seger, oppure rielaborò il culto d'Iside e di Osiride fuori degli schemi ufficiali e con forti connotazioni patetico-umane; frequente si fece pure il ricorso agli oracoli e ai sogni per ottenere un responso diretto dalla divinità o per avere una rapida giustizia dove la burocrazia religiosa era troppo lenta o inefficace. Questo processo si accentuò nella Bassa Epoca con l'affermazione di culti locali e la loro contemporanea degradazione fino a formulazioni abnormi. Nel periodo tolemaico il sincretismo completò la contaminazione della religione egiziana in un forzato connubio con gli dei greci: tipico è il dio Serapide, nuova forma di Osiride-Api. Il cristianesimo spazzerà via con la sua foga giovanile gli antichi dei: nel 391 venne bruciato il Serapeo di Alessandria e nel sec. VI chiuso il tempio di File, ultimo rifugio della religione egiziana.
Diritto
In mancanza di raccolte giuridiche, la sola fonte che fornisca qualche indizio sull'esistenza di leggi è lo storico Diodoro Siculo. Questi ipotizza che già Menes abbia legiferato, ma è fortemente improbabile che si trattasse di leggi scritte; nel corso del primo millennio a. C. si sarebbero avute diverse codificazioni: Bocchoris (720-715), Psammetico I (663-609), Amasi (569-526). La notizia sembrerebbe confermata da reperti nella tomba di Rekhmara, visir dell'Alto Egitto durante la XVII dinastia, raffiguranti quaranta rotoli di papiro, che ragionevolmente dovrebbero contenere testi di leggi. Un decreto penale di Horemhab sopra una stele di El-Karnak fa pensare che leggi scritte esistessero almeno dalla XIX dinastia. Di estremo interesse sono i papiri che, avendo conservato numerosi atti della prassi, consentono di ricostruire alcuni aspetti del diritto privato, seppure con discontinuità: molto rari per l'epoca più antica, abbondano nei tempi più recenti e sono redatti in lingua demotica.
Ordinamento giuridico e istituzioni
Il faraone riuniva sotto la sua autorità l'Alto e il Basso Egitto incarnandosi nelle loro divinità principali. Nel campo amministrativo le più importanti funzioni furono dapprima esercitate da un visir (tati, l'uomo per eccellenza) che, dietro investitura faraonica, aveva il potere di “dare leggi, conferire cariche, accertare i confini per distinguere un possessore da un suo vicino” (secondo alcuni studiosi una sorta di cesaropapismo). Con il tempo però si accentuò la tendenza ad affidare specifiche competenze a un certo numero di alti funzionari: tesoriere, cancelliere, economo, archivista. L'importanza della burocrazia, e in particolare degli scribi, si accrebbe durante il Nuovo Regno, tanto che alcuni parlano di “socialismo di Stato”: il territorio era diviso in 42 nómoi, ognuno retto da un nomarca, e comprendente città e villaggi con propri capi, assistiti da notabili locali, che avevano funzioni amministrative e giudiziarie. I rapporti tra il faraone e i nomarchi furono, durante i secoli, più volte turbati dalle tendenze separatistiche di questi ultimi. Altrettanto complessi furono i rapporti tra il faraone e l'aristocrazia sacerdotale che cercò sempre di esercitare una notevole influenza politica mediante la conferma oracolare della legittimità del faraone, contro la tendenza della corte a confinare i sacerdoti a esclusive funzioni religiose. Non è possibile accertare l'esistenza di schiavi durante l'Antico e Medio Regno, anche se è probabile che in quell'epoca i prigionieri di guerra fossero utilizzati come schiavi pubblici. È invece accertata l'esistenza di schiavi privati durante il Nuovo Regno. Appare certo che lo schiavo potesse compiere atti giuridici: agire contro il padrone, possedere un piccolo patrimonio e crearsi una famiglia. § Per quanto concerne l'organizzazione familiare, i documenti relativi all'Antico Regno ce ne presentano uno stadio già sviluppato: spiccato era l'individualismo, con conseguente limitazione della potestà paterna e dell'autorità maritale, per cui tanto la moglie quanto i figli godevano di propria capacità giuridica. Il matrimonio era su base prevalentemente monogamica, ma esisteva anche la poligamia. Durante il Nuovo Regno i mutamenti economico-sociali affermarono nella struttura familiare la responsabilità del padre o, in sua mancanza, del figlio maggiore. Egli rispondeva, dinanzi al faraone, del lavoro imposto alla famiglia e dell'esecuzione delle prestazioni relative: tale fenomeno determinò l'accentuarsi dell'autorità paterna. Un ritorno all'individualismo, con caratteri ancora più marcati, si ebbe durante l'epoca saitica in cui si ristabilì la piena parità giuridica fra gli sposi. Per contrarre matrimonio era ora indispensabile il consenso degli sposi e la donna poteva disporre dei suoi beni e aveva, al pari del marito, il diritto di divorziare: in questo caso ella riprendeva la sua dote e il marito era tenuto a consegnare i propri beni ai figli nati dal matrimonio. Il problema successorio trova gli studiosi ampiamente divisi riguardo sia alla successione ab intestato sia a quella testamentaria. Nel primo caso, la differenza fondamentale è tra chi sostiene la successione del figlio più anziano e chi afferma l'uguale posizione di tutti i figli, escludendo ogni privilegio. È possibile che entrambe le ipotesi siano valide con riferimento a diversi contesti socio-economici; nel secondo, pare debba escludersi l'esistenza del testamento vero e proprio: esistevano invece atti inter vivos in cui una parte o tutti i beni del disponente erano assegnati a una o più persone; il documento, quasi certamente, era trattenuto dal disponente fino alla sua morte, come garanzia. Durante il Nuovo Regno, l'“erede” diveniva tale soltanto se provvedeva alla sepoltura del defunto. Questa specie di testamento scomparve nel corso del I millennio a. C. Un soggetto poteva trasferire la proprietà di tutti o parte dei suoi beni, di solito immobili, a sacerdoti che provvedessero a tutto quello di cui il disponente abbisognasse dopo la sua morte. § Riguardo alla proprietà fondiaria, teoricamente la terra era di proprietà del faraone che poteva concederla in godimento a templi o a privati; in realtà, accanto al dominio prevalente del faraone, pare esistesse anche la proprietà privata: infatti, fin dall'Antico Regno, i documenti ci informano di privati che disponevano liberamente delle loro terre; nei periodi feudali, la terra si concentrò nelle mani di pochi grandi proprietari. Almeno fino alla XVIII dinastia l'obbligazione contrattuale si costituiva mediante un giuramento (contratto formale) o l'accettazione di una controprestazione (contratto reale). Il giuramento veniva prestato dalle due parti: l'una asseriva di aver eseguito la prestazione, l'altra prometteva di eseguire la controprestazione. Dalla XIX dinastia, il giuramento comparve sempre meno frequentemente, finché, alla fine del Nuovo Regno, non risultò più necessario.
Scienza e tecnica
La documentazione pervenutaci relativa all'antica scienza egiziana, sviluppatasi fino al sec. XII a. C., attesta la sostanziale assenza di un metodo realmente speculativo nell'affrontare i problemi di ordine scientifico. La scienza, infatti, fu appannaggio esclusivo dei sacerdoti che se ne servivano a scopi politici e religiosi mentre agli scribi era lasciato il compito di trasmettere un corpus di nozioni tecnico-scientifiche indispensabili per la risoluzione di problemi quasi identicamente ricorrenti, fra cui primario fu quello dell'utilizzazione delle piene periodiche del Nilo. Per la matematica, il più importante dei papiri ritrovati, detto Rhind, fu compilato da uno scriba di nome Ahmes nel 1660 a. C. ca., ma riproduce un documento di epoca molto anteriore. Esso comprende 84 problemi che esemplificano i metodi di calcolo utilizzati dagli Egizi. Il sistema numerico era decimale, ma non era noto il valore posizionale di una cifra, e venivano utilizzate solo frazioni a numeratore uno, a eccezione di 2/3. Il carattere pratico si manifesta anche per la geometria, sviluppata soprattutto in funzione dell'agrimensura e della costruzione di edifici; essa si limitava a regole apprese empiricamente per calcolare la superficie di alcune figure e anche di solidi. Notevole è il fatto che per il calcolo della circonferenza veniva applicato un valore di 3,1604, cioè assai prossimo a quello di π. Le osservazioni astronomiche sono documentate dalle iscrizioni e raffigurazioni del cielo dipinte sui sarcofagi; da queste si ricava che gli Egizi dividevano le stelle della fascia equatoriale in trentasei gruppi, ognuno dei quali, quando sorgeva all'orizzonte immediatamente prima dell'alba, indicava l'inizio di un periodo di dieci giorni. L'anno aveva inizio al levare eliaco di Sothis, o Sirio, la stella che appare in corrispondenza delle periodiche inondazioni del Nilo, e il calendario comportava 12 mesi di trenta giorni ciascuno, cui venivano aggiunti 5 giorni supplementari che corrispondevano alle feste delle principali divinità. La medicina raggiunse un livello notevole anche se fu intimamente legata a concezioni religiose e quindi accompagnata a pratiche magiche; fiorì anche, accanto alla medicina sacerdotale, una pratica medica popolare, professata da personaggi simili agli uomini-medicina tipici della cultura africana. Famoso è il processo di mummificazione che ha conservato fino a noi i corpi dei faraoni e dei nobili delle più antiche dinastie egizie. Nel papiro chirurgico di Smith (1700 a. C.), si trovano 48 precise descrizioni anatomiche e sintomatologiche seguite da prescrizioni e chiarimenti complementari. Nel papiro medico di Ebers, compilato nel 1600 a. C., si trova la descrizione di ben 47 malattie con i sintomi del caso seguiti da una diagnosi e da una prescrizione che attesta il buon livello raggiunto dalla farmacopea fondata su una profonda conoscenza della botanica e dell'erboristeria. In architettura e in idraulica furono raggiunti grandiosi risultati grazie soprattutto all'elevata abilità manuale di una mano d'opera a basso costo (servitù del tempio, schiavi); furono così realizzate le piramidi, che richiedevano il trasporto e la squadratura di enormi massi, e la canalizzazione del Nilo, senza impiegare strumenti meccanici più complessi della leva, del rullo e del piano inclinato. Per quanto riguarda le applicazioni tecniche, l'Egitto contava su una fiorente metallurgia, soprattutto dell'oro, su una produzione rilevante di ceramica, vetreria, tessuti, oggetti in legno, generi alimentari conservati, produzione spesso basata sul lavoro “a catena” sia di schiavi sia di liberi (si passava, con una serie di operazioni manuali “specializzate”, dalla materia prima al prodotto finito). Ciò favorì le ricerche sui materiali che, unitamente a quelle sulle proprietà di erbe e composti naturali, vengono considerate come le prime elementari nozioni di chimica. Pur avendo notevoli commerci con l'estero, anche con i Paesi delle coste etiopica (il paese di Punt) e sudarabica, la tecnica navale egiziana non fu brillante, limitandosi ad adattare per i trasporti di mare le imbarcazioni usate per la navigazione fluviale.
Lingue e scritture
I quesiti posti in Egitto dall'apparire di una lingua scritta all'alba del III millennio a. C. sono di molteplice natura e concernono la lingua, la scrittura come sistema funzionale e la scrittura come rappresentazione grafica. Queste tre componenti, nel corso della loro lunga storia, seguono vicende disuguali anche se in certa misura tra loro corrispondenti. In Egitto fin da principio è attestata una sola lingua nazionale, chiamata appunto “egiziano”. Essa costituisce gruppo a sé stante all'interno della famiglia camitosemitica, accanto a cuscitico, berbero e semitico (rapporti sono stati riscontrati anche con lingue negre). Storicamente non consta che essa fosse imposta al Paese da un popolo invasore. Siccome fino al sopravvento della lingua degli invasori arabi, che avvenne dopo il sec. X dell'era volgare, la lingua egiziana rimase il principale veicolo di cultura in Egitto per quattro millenni, essa subì modificazioni significative nella struttura e nel lessico, producendo varie lingue successive che stanno tra loro in rapporto genetico. Queste trasformazioni comportano il passaggio da una fase sintetica a una fase spiccatamente analitica. Dalla lingua più anticamente attestata, detta antico egiziano, si passa gradualmente al medioegiziano o egiziano classico, completamente formato già verso il 2100 a. C. In questo idioma furono composte le maggiori opere letterarie, religiose e scientifiche, ed esso fu adoperato fino a quando si scrisse in geroglifici, come lingua dotta e sacra dell'Egitto. La parlata usata dal popolo continuò tuttavia in rapida evoluzione e ricevette dignità ufficiale con la “rivoluzione” di El Amârna (1300 a. C.). Tale favella, il neoegiziano o egiziano tardo, presenta caratteri profondamente analitici e una forte penetrazione di parole straniere, secondo una tendenza che continua in demotico (attestato dal 600 a. C.) e in copto (dal sec. III d. C.). La lingua copta, espressione anche dell'Egitto cristiano, è differenziata in parecchi dialetti, in ordine di tempo: akhmimico e subakhmimico, fayumico, saidico, bohairico, l'ultimo dei quali è la lingua liturgica della Chiesa copta. Delle lingue straniere parlate in Egitto solo alcune hanno lasciato tracce: l'accadico, come lingua diplomatica del II millennio a. C.; l'aramaico, usato dalle colonie semitiche al tempo dell'impero persiano; il cario, proveniente dall'Anatolia; soprattutto il greco, che con i Tolomei divenne lingua dell'amministrazione. § La scrittura indigena dell'Egitto è un'invenzione originale della fine del IV millennio a. C. Pur nella sua complessità offre una serie di accorgimenti che la rendono logica e funzionale e ha subito nel tempo solo trasformazioni secondarie, benché da essa si sia probabilmente sviluppata l'idea dell'alfabeto in Asia. Il principio consiste nel combinare rappresentazioni di cose e di suoni. Vige un criterio di semplificazione e di economia, sia nel disegno delle forme, sia nell'adozione di segni diacritici, sia nell'esclusione delle vocali dalla lettura delle parole. Si ottengono così solo schemi consonantici, accompagnati da segni che non si leggono, ma precisano sia il senso sia il suono dei vocaboli (determinativi). Ogni parola tende a un'ortografia costante; tuttavia il mutare della lingua porta alla preferenza di grafie storiche o pseudoetimologiche (tipiche del neoegiziano e del demotico). È da menzionare anche l'uso dei segni con valori segreti (criptografia). Il sistema dura vitale fino in età romana, ricreando al suo tramonto nuovi numerosi usi e forme di segni (tolemaico). La lingua copta si scrive invece con un alfabeto greco, ma presenta un fonetismo fortemente alterato. § La scrittura egizia disegna i suoi simboli o “geroglifici” copiandoli dal mondo della valle del Nilo, con una sensibilità estetica che si mantiene attraverso tutte le età, pur con gusto e stile diversi. Accanto alle forme figurate per la scrittura corrente si adattano fin dalle origini forme semplificate, dette ieratico. Nello stesso tempo la scrittura amministrativa evolve verso criteri di assai maggiore semplicità e sbocca nel demotico. Nei primi secoli della nostra era, dopo vari tentativi, l'alfabeto greco fu definitivamente adattato per scrivere la fase linguistica nota come copto. In rarissimi casi la scrittura egizia fu adoperata per lingue diverse dall'egiziano. Solo tardi le scritture geroglifica e demotica furono adattate dalla civiltà meroitica, che adopera un numero limitato di segni con valori alfabetici. Sull'argomento si vedano anche le voci Deir el Medina, óstraka, papiro, scriba.
Letteratura: generalità
Le lingue dell'Egitto sono tutte attestate in forma letteraria, in un continuo accrescimento di esperienze e di moduli che portano al loro alto perfezionamento. La conservazione delle opere è però casuale e con ingenti lacune, per la deperibilità dei materiali (papiri, pergamene, óstraka, epigrafi); inoltre solo una parte di esse è realmente documentata nel periodo che le produsse, ma l'indagine storica consente spesso una datazione attendibile. Si può infatti seguire l'evoluzione dei diversi generi nel corso delle età e quasi sempre risalire alla loro origine, a causa della precoce invenzione della scrittura. La letteratura dell'antico egiziano raggiunge già una notevole varietà di modelli. Oltre agli scritti di carattere religioso, che sono i più diffusi e riprendono in parte tradizioni preistoriche (Testi delle Piramidi), risalgono all'Antico Regno, anche se spesso trasmessi da copie posteriori, scritti morali (genere sapienziale, che culmina nelle Massime di Ptahhotep), scientifici (testi medici), speculativi (Teologia Menfita), naturalistici e geografici (rappresentazioni del mondo e della fauna nel tempio solare di Niuserrê; liste di domini funerari), giuridici (decreti regali e contratti privati), storici (costituiti soprattutto da autobiografie di personaggi, ma anche da cronache ufficiali come gli Annali della Pietra di Palermo), narrativo-dialogici (brevi scenette di genere raffigurate nelle tombe). Resoconti di viaggi ed esplorazioni in Asia e in Africa sono riportati dalle biografie di Weni e dei principi di Elefantina.
Letteratura: il periodo classico
Il periodo considerato classico già dagli Egizi appartiene all'egiziano medio (dal 2100 a. C.), che sopravvisse in certi usi fino alla scomparsa dei faraoni quando da lungo tempo tale lingua era desueta, e nel quale furono tradotte e commentate anche opere del periodo precedente (testi religiosi, Massime di Ptahhotep, il Trattato di Chirurgia del papiro Smith). Tale fase è contraddistinta da una grande produzione letteraria di ispirazione multiforme. Continua una massiccia composizione di testi religiosi e funerari (i Testi dei Sarcofagi) che incorporano inni, rituali, formule magiche, drammi sacri. La forma drammatica è conservata anche dal Cerimoniale per l'Intronizzazione di Sesostri I e dal Mito di Osiride, celebrato durante le feste di Abido. Si diffonde la narrativa con opere di vigore stilistico (Avventure di Sinuhe e Racconto del Naufrago; la collana di leggende storiche contenuta nel papiro Westcar, per citare le più famose), non senza rapporti con l'attitudine alla descrizione che si sviluppa in parecchie autobiografie private e con un intento propagandistico. Infatti alla letteratura pessimistica causata da un periodo torbido intorno al 2200-2100 a. C., con opere complesse aventi diversi tratti comuni (Suicida,Canto dell'Arpista,Ammonimenti di Ipu), subentra dopo il rafforzamento dello Stato una direttiva politica, in forma morale (Insegnamento per Merikara), polemica (Insegnamento di Amenemhat I), profetica (Profezia di Neferti), celebrativa (Panegirico regale; inni vari), satirica (Insegnamento di Kheti), che si manifesta anche nelle opere di intento più genericamente narrativo e retorico. Fra queste ultime, i discorsi dell'Oasita facondo, di Sisobk, di Khakheperrasonb. Lo sforzo di educare una classe di amministratori comporta sia iniziative di propaganda (il già menzionato Insegnamento di Kheti, o Satira dei Mestieri) sia la creazione di un genere didascalico, rappresentato da sussidiari scolastici (Libro della Kemit) come da opere enciclopedico-lessicografiche (gli Onomastica), in cui si codifica la tendenza a classificare e catalogare, che è propria di varie attività fin dall'Antico Regno. Impulso ricevono pure l'epistolografia e la storiografia, individuabile in sezioni limitate delle opere politiche e narrative (perciò sempre ispirata dal faraone) e in taluni resoconti schematici (Annali di Thutmose III). Circa la forma, si suppone un largo uso di prosa cadenzata, oltre a una certa varietà di espedienti retorici (allitterazioni, parallelismi, antitesi), spinti talora al virtuosismo (inni redatti come cruciverba). L'esposizione avviene in prima e in terza persona; il dialogo è alla base del testo del Suicida e delle Azioni drammatiche. La letteratura scientifica è presente con trattati vari di medicina (papiri Smith ed Ebers principalmente), veterinaria (papiro di Illahun), calcolo e geometria (papiri di Mosca e Rhindi). Sotto forma specialmente figurata si possono menzionare saggi di scienze naturali (zoologia, botanica, mineralogia). Questa letteratura, tutta documentata per il Medio Regno, fu ulteriormente arricchita nelle età successive, anche se con l'influsso della parlata neoegiziana.
Letteratura: le opere in lingua neoegiziana
La letteratura in lingua neoegiziana nasce in circostanze in cui si vuol dare un volto popolare agli scritti pubblicati. Il primo monumento in tal senso sono le stele di Kamose che narrano la cacciata degli Hyksos (1580 a. C.), riproponendo il Racconto di gesta del re, tema che ebbe singolare fortuna nel Nuovo Regno. Del neoegiziano si serve poi largamente l'Età di El Amârna (1300 a. C.) per diffondere le nuove dottrine religiose (Inno ad Aton), di impostazione universale e naturalistica. Presto appaiono opere narrative in una lingua carica di reminiscenze medioegiziane (I due fratelli, Il principe predestinato), e si conoscono opere in egiziano classico tradotte in neoegiziano, come le Massime di Any e il Rituale per sconfiggere il Maligno. Particolare rilievo assumono in neoegiziano il poema epico (Poema di Qadesh), la lirica (canti d'amore “nel giardino”, “in riva al fiume” e altri; inni religiosi), la pedagogia (antologie scolastiche dette Miscellanee per il carattere eterogeneo; nuovi Onomastica o Elenchi di cose; esercizi didattici documentati dagli scavi di Deir el Medina; costituzione di un canone di scrittori). Continua la diffusione della magia con ricche collezioni di formule profilattiche e di amuleti (le più celebri sono nei papiri di Torino, di Leida e di Londra), l'oniromanzia (papiro Beatty III), i calendari dei giorni fasti e nefasti (papiri al Cairo e Londra), gli oracoli. Rimangono diversi rituali per il culto di vari dei nei propri edifici, e una massa di papiri che accompagnavano le mummie nella tomba o Libro dei Morti. La mitologia si esprime in forma narrativa (Racconto di Horus e Seth), nasce l'allegoria (Racconto di Verità e Menzogna) e l'apologo (Giudizio del corpo e della testa); la favola esiste solo in forma figurata. Le composizioni scribali aggiungono esempi di epistolografia e di satira (Epistola satirica). La cronografia è documentata dal Canone dei Re conservato a Torino. Compilazioni geografiche si ricavano da indizi indiretti (per esempio: liste delle città e dei paesi dell'ecumene; registri di catasto in documenti amministrativi come il papiro Wilbour; descrizioni di luoghi particolari in varie occasioni (Avventure di Wenamon). Si hanno carte geografiche (miniere del Wadi Hammamat in un papiro di Torino; topografia dell'Oltretomba, come l'Amduat; mappamondi primordiali) e raffigurazioni astronomiche nei soffitti delle tombe dei re. Si descrivono le prime istituzioni politiche (Discorso per l'insediamento del visir). Si intuisce un vario interscambio con la civiltà asiatica, che continua nella letteratura demotica. Nella mitologia e nella magia fanno apparizione divinità e culti siriani (leggende di Astarte e di Anat); nel campo del diritto è da menzionare il trattato internazionale stipulato da Ramesse II con gli Ittiti; nel genere morale si riscontrano relazioni fra le Massime di Amenemope e i Proverbi di Salomone; il Poema di Qadesh e le Avventure di Wenamon sono frutto di esperienze comuni ad altri popoli mediterranei; vi è più tardi influsso mesopotamico nell'astrologia (presagi ricavati dalle eclissi).
Letteratura: la letteratura demotica e templare
Nella letteratura demotica (dal 500 a. C.) si continua l'ispirazione civile, dove spiccano i due generi della sapienza e della narrativa. Mentre la prima rifà schemi antichi (Insegnamento di Ankhsheshonq), la seconda assume ora l'aspetto di cicli ricchi e complessi, che mostrano talora il romanzo in una forma perfetta (Petubasti e Setne). Ma il periodo demotico è distinto da un cospicuo numero di documenti legali (testamenti, compravendite) dei quali son pervenuti interi archivi che permettono di ricostituire il diritto civile. Si è anche annunciata la scoperta di un codice di leggi. Si allargano anche gli studi grammaticali, con paradigmi di forme, che avevano già fatto la prima apparizione nel Nuovo Regno. In demotico sono infine opere religiose, funerarie, magiche, pseudostoriche (Cronaca demotica). Contemporaneamente la cultura templare continua ad utilizzare l'egiziano classico nel tentativo di dare una sintesi finale ai riti (nei templi tolemaici e romani, in cui compare anche qualche allusione alla chimica, nella preparazione di ricette), alle tradizioni religiose locali (trattati di topografia cultuale), in cui si avverte a volte anche una più larga visione del mondo (Racconto della Principessa di Battriana), alla storia e alla cronografia (la Storia dell'Egitto, in greco, di Manetone), persino alla scrittura (liste di geroglifici, con un'eco in Orapollo). Manca tuttavia una creatività originale e le tradizioni letterarie sono destinate all'oblio. Nell'anima popolare, pur nel contesto della mutata cultura copta, si conserverà l'inclinazione al romanzo, costituita dai frammenti del Romanzo di Alessandro e dalRomanzo di Cambise, così come riappariranno in testi gnostici e cristiani alcuni tratti dell'immaginazione antica.
Letteratura: l'età cristiana
La narrativa egizia di età cristiana continua l'inclinazione indigena per il romanzo (Ciclo di Petubasti) e ci è documentata da scarsi resti, attestati soltanto in copto (Romanzo di Cambise), tradotti in greco (come l'introduzione alla Storia di Imhotep del papiro di Ossirinco), oppure in greco e in copto come il Romanzo di Alessandro. Questo nulla ha a che vedere con i Fatti di Alessandro attribuita a Callistene, ma fu redatto in ambiente alessandrino del sec. III d. C. ed ebbe vastissima risonanza. Delle varie traduzioni dal greco (armena, siriaca, araba, etiopica, latina, ecc.) che sono note, rimangono alcuni fogli relativi a una recensione copta, che conserva episodi originali, quali le imprese in Elam e in Persia o lo stratagemma della finta morte del conquistatore. Il racconto prescinde dalla verità storica e geografica (Alessandro appare come figlio del faraone Nectanebo), contiene varianti e contraddizioni e attinge largamente al meraviglioso, onde il successo della saga, nonostante la povera qualità letteraria.
Arte: l'età predinastica e arcaica
La storia dell'arte egiziana è una disciplina relativamente recente. È solo a partire dai primi decenni dell'Ottocento che Champollion, il decifratore dei geroglifici, ponendosi in aperto contrasto con le affermazioni di Winckelmann e dei suoi stessi contemporanei che definivano “curiosità” i prodotti artistici dell'Antico Egitto, osava affermarne la grandezza. Da allora gli studi e le scoperte hanno grandemente arricchito la nostra valutazione critica con l'apporto di una straordinaria quantità e varietà di materiale che le favorevoli condizioni climatiche hanno contribuito a conservare. Si tratta di materiale generalmente ben datato, grazie alle iscrizioni che quasi sempre accompagnano ogni categoria di monumenti. È tuttavia un'arte sostanzialmente anonima (pochi sono i nomi degli artisti e quasi sempre non connessi con le loro realizzazioni) e di cui si ignorano in genere i fondamenti teorici, contrariamente a quanto avviene, per esempio, per la storia dell'arte greca e romana. Tralasciando i manufatti di età predinastica, che pure raggiungono livelli di notevole raffinatezza nell'industria ceramica e litica (culture di El-Badâri e di Naqâda), all'inizio dell'epoca storica le più importanti testimonianze figurative sono quelle stesse che ci forniscono i dati per la ricostruzione degli avvenimenti. Si tratta di teste di mazza e di tavolozze in scisto (analoghe a quelle che venivano usate per stemperare il belletto, ma aventi qui la funzione di offerta rituale) su cui sono raffigurati gli avvenimenti che portarono all'unificazione dell'Egitto. Tali la mazza del Re Scorpione e la paletta di Narmer in cui si trovano, già mature, alcune delle convenzioni e dei motivi tipologici che continueranno poi lungo tutta la storia dell'arte egizia: la rappresentazione del corpo umano come complesso di elementi frontali e laterali, l'uso di registri per indicare valori spaziali, il gusto della composizione ritmica, i canoni di misura che regolano le proporzioni delle figure. Dell'architettura di quest'epoca, trattandosi in genere di costruzioni in mattoni crudi, poco è rimasto. Le tombe e i cenotafi (Menfi e necropoli di Abido) dei sovrani e dei grandi funzionari sono già chiaramente scandite nei due elementi che saranno sempre caratteristici della sepoltura egizia: l'infrastruttura destinata a contenere il cadavere e il suo corredo e a essere chiusa definitivamente dopo il funerale, e la sovrastruttura con il luogo per l'offerta, accessibile ai vivi. Nelle tombe più ricche la sovrastruttura ha un muro perimetrale a nicchie che risale forse a modelli mesopotamici. L'ultimo frutto dell'impostazione narrativa arcaica si ha nel complesso funerario di Gioser a Saqqâra, la cosiddetta piramide a gradoni. Qui per la prima volta la tomba regale viene nettamente differenziata da quella dei funzionari, con l'adozione di una sovrastruttura composta da più mastabe sovrapposte (tombe a tumulo rettangolare, a pareti rastremate), che sarà l'antecedente tipologico della piramide. Intorno sono vari edifici che riproducono in pietra quelli più antichi di canne, legno e mattoni crudi ove avvenivano le cerimonie del culto, specie quelle volte a esaltare il re-dio. "Per approfondire Vedi Gedea Arte vol. 1 pp 146-149" "Per approfondire Vedi Gedea Arte vol. 1 pp 146-149"
Arte: l'Antico Regno (2778 a.C.-2220 ca.)
Nell'età menfita, soprattutto durante la IV dinastia, l'impulso accentratore della regalità divina produsse anche nelle arti i suoi frutti. Il linguaggio formale, dettato dagli artisti della capitale, diventa sommamente stringato, intellettuale, tendente a un'impassibile geometria. Il monumento tipico dell'epoca, la piramide (di cui gli esempi più famosi sono le tre piramidi di Cheope, Chefren e Micerino a El Gîza può servire da paradigma per questa concezione. Essa forse deriva tipologicamente e concettualmente dalla piramide a gradoni, ma in realtà se ne distacca profondamente. Si ha qui e nei templi annessi, come nelle mastabe dei funzionari, un'architettura volta a creare forme geometriche pure, prive di interesse per gli spazi interni che si riducono a piccoli vani, quasi scavati nell'interno di una roccia. La medesima concentrazione e lo stesso rigore stilistico si osservano nella scultura a tutto tondo e nel rilievo. Le statue dei sovrani e dei funzionari della IV dinastia non indulgono a ricerche descrittive o espressive; l'individualità del personaggio rappresentato non è quasi mai affidata ai dati fisiognomici, ma ad altri elementi: il nome scritto, le caratteristiche tipologiche del volto, dell'atteggiamento o dell'abbigliamento. Perfino le statue dei sovrani, come quelle di Chefren e di Micerino, pur nella presenza di alcuni dati fisiognomici, sono più astratte idealizzazioni che veri ritratti. Fanno eccezione solo alcune mirabili realizzazioni alle quali sarebbe difficile negare il carattere di ritratto: la statua di Hemiunu (Hildesheim, Museo) e il busto di Ankhhaf (New York, Metropolitan Museum). Si vedano invece per confronto le due statue in calcare dipinto di Rahotep e Nofre al Cairo. Durante la V e VI dinastia questo rigore si allenta, in coincidenza con il rinascere delle spinte centrifughe da parte degli ambienti provinciali. Qui le vecchie tradizioni che non si erano mai spente, pur sotto l'influsso delle scuole della capitale, riprendono vigore, senza abbandonare le conquiste stilistiche dell'epoca precedente, e introducono nuova linfa vitale nell'astratto tessuto del rigorismo menfita. Vi è un'aspirazione all'individualità che nella statuaria produce alcuni mirabili capolavori quali lo Scriba del Louvre e lo Scekh el-Balad, e nella figurazione piana dà origine agli splendidi rilievi che ornano gli ambienti interni delle mastabe: scene di caccia, pesca, allevamento del bestiame, offerte funerarie. Simile interesse narrativo si ha in alcune statuette di personaggi deformi e di servitori intenti a macinare il grano o a fare la birra, in cui la rottura degli schemi tradizionali sarà fecondo germe di rinnovamento per le realizzazioni future. Nell'architettura si abbandona l'astrattezza geometrica in favore di un più sciolto articolarsi delle strutture e degli elementi che le compongono. Le piramidi regali più piccole hanno templi funerari in cui colonne a capitello floreale si sostituiscono ai nudi pilastri del tempio di Chefren e le pareti sono ravvivate da rilievi. Anche le mastabe dei funzionari vengono scavate all'interno per creare le stanze per il culto e la camera per la statua (serdāb). I templi dedicati al culto solare riprendono forse modelli arcaici, incentrati su un pilastro all'aperto circondato da un cortile, di cui il più imponente doveva essere il santuario di Eliopoli. Il tempio di Abū Gurāb, costruito da Neuserra, è l'unico di cui si possa ricreare l'aspetto, mentre scarse tracce si hanno di quello di Userkaf. Nel periodo intermedio il processo di allentamento della tensione menfita per opera degli ambienti provinciali giunge alle sue estreme conseguenze. Le botteghe provinciali, abbandonate a se stesse, senza la possibilità di innestare le proprie esperienze su una solida cultura formale, raggiungono talvolta risultati felici per vivacità e freschezza di ispirazione, ma nella maggior parte dei casi si hanno soltanto conquiste casuali o informi abbozzi. Così per esempio nelle figurazioni piane si abbandona la rigida composizione a registri per una più istintiva visione spaziale, senza però riuscire a concretare queste esperienze in un coerente linguaggio formale (decorazioni nelle tombe del Medio Egitto a Beni Hasan, Asyût, Nağ el Deyr; nel sud a El Muʽalla, a Gebelein; e, sul confine meridionale, vicino ad Aswân). "Per approfondire vedi Gedea Arte vol. 1 pp 130-132" "Per approfondire Vedi Gedea Arte vol. 1 pp 130-132"
Arte: il Medio Regno (2000 a.C.-1785 ca.)
È solo con l'inizio del Medio Regno e con la riconquista dell'unità nazionale che queste esperienze vitali, confluendo nuovamente sul filone tradizionale, diventano linguaggio stilistico. Il primo importante monumento risale appunto al riunificatore dell'Egitto, Mentuhotep I ed è il suo tempio funerario a Deir el-Bahari. Qui una piccola piramide si innalza su un basamento a due ordini circondato da porticati, e un altro porticato trasversale dà accesso agli ambienti funerari scavati nella montagna. Vi si sentono le esperienze dell'architettura menfita e insieme dell'architettura funeraria provinciale, con le sue tombe scavate nella roccia, ma rinnovate da un'esigenza di rendere più mossi gli spazi. È ancora un'architettura di soli esterni, ma sentiti in modo assai diverso dalla lineare purezza menfita. Anche le statue del fondatore, completamente avvolte in un bianco mantello, nella loro voluta rozzezza appaiono programmaticamente perentorie, nell'intento di affermare la riconquistata regalità. La XII dinastia si mantiene in questa linea, ponendosi con ancor maggiore coerenza alla riconquista della tradizione. I sovrani adottano di nuovo la piramide come sepoltura (anche se con assai minore impiego di mezzi), ma di essa, e in genere dell'architettura di quest'epoca, poco è rimasto. Dei templi divini, per la maggior parte distrutti per far luogo a edifici più recenti, restano un piccolo tempio a Medinet Madi nel Faiyûm e un sacello per la barca sacra a El-Karnak (ricostruito da blocchi reimpiegati in un pilone del tempio di Karnak), aventi entrambi una pianta assai semplice: santuario a tre celle preceduto da un atrio con colonne quello di Medinet Madi, padiglione periptero quello di El-Karnak. La statuaria dell'inizio della dinastia ricalca, forse un po' freddamente, i moduli menfiti (come le statue di Sesostri I da el-Lisht) e il linguaggio formale si fa più caldo e spontaneo solo verso la fine della dinastia e particolarmente nei ritratti di Sesostri III e Amenemhat III, in cui i volti dei sovrani appaiono, in contrasto con le serene e idealizzate immagini del re-dio menfita, emaciati, affaticati e oppressi dal peso del potere e delle responsabilità. Nel rilievo e nella pittura, che da questo momento vanno acquistando sempre maggiore importanza, prevale l'interesse narrativo, il gusto di riprodurre avvenimenti notevoli e atipici, come il trasporto di un colosso e l'arrivo di tribù asiatiche che è pretesto a un gioco di colori. "Per approfondire Vedi Gedea Arte vol. 1 pp 133-134" "Per approfondire Vedi Gedea Arte vol. 1 pp 133-134"
Arte: il Nuovo Regno (1580 a.C.-1085 ca.)
Con la XVIII dinastia l'Egitto, reduce dalla vittoria sugli Hyksos, avanza in Asia e ne riporta ricchezze che vengono distribuite tra le diverse classi della popolazione. L'allargarsi del numero dei fruitori del prodotto artistico fa sì che questo tenda a trasformarsi in prodotto di artigianato, sia pure di altissimo livello, che si avvale di tecniche raffinate e di una lunga tradizione, cui si aggiunge una sensibilità per il decorativo propria dell'arte siro-palestinese. La capitale è trasferita a Tebe, luogo di origine della dinastia e sede di culto del dio nazionale, Ammone, considerato patrono della rinascita e delle feconde conquiste asiatiche, e al quale i sovrani dedicano templi grandiosi. Sulla riva orientale del Nilo, dove aveva sede la città, si sviluppano i due templi monumentali di El-Karnak e di Luxor che, iniziati dai primi sovrani della XVIII dinastia, continueranno poi a essere ampliati in tutte le epoche successive. In essi lo spazio e l'architettura non sono più forme geometriche impenetrabili, ma insiemi articolati in cui si può entrare, muoversi, in cui luci e ombre vivificano interno ed esterno ormai concepiti come un tutto unico. Tra gli edifici più notevoli, il cosiddetto “salone delle feste” di Thutmose III, a pianta basilicale, con il tetto a due livelli sostenuto da colonne a forma di pali da tenda, e il nucleo del tempio di Luxor, dovuto ad Amenofi III, in cui il cortile è preceduto da un grande corridoio a colonne. Sulla riva occidentale, invece, sorgono le necropoli in cui le tombe regali, per maggiore sicurezza, sono nascoste nelle viscere della montagna (Valle dei Re e Valle delle Regine), mentre i templi funerari, prima connessi con il sepolcro, e ora totalmente scissi, sorgono nella parte pianeggiante al di qua della catena libica. Capolavoro dell'epoca è il tempio di Hatshepsut, dovuto all'architetto Senmut (uno dei pochi di cui si conosca il nome), costituito da terrazze porticate a livelli successivi, innalzantisi per mezzo di rampe fino all'alta parete rocciosa che sovrasta la regione ed entro la quale si scavano gli ambienti del santuario. L'architettura si inserisce con grande eleganza nell'ambiente naturale, sull'esempio certo del precedente tempio di Mentuhotep che sorge accanto, ma con un'audacia innovatrice ancora maggiore. La scultura, il rilievo e la pittura dell'inizio della dinastia riflettono appieno le ricerche di eleganza formale. Un linguaggio più sciolto si ha nella pittura, ampiamente usata nella decorazione delle tombe, che spesso trova accenti di estrema freschezza e vivacità, specie quando riesce a liberarsi dalle pastoie della tradizione e delle scene prefissate e inventa particolari inediti, con una tecnica di pennellata sciolta e vivace, senza linea di contorno. In questo mondo elegante e composto, di grazia sorridente, piomba la violenza della rivoluzione amarniana che, specie all'inizio, nei colossi e nei rilievi di El-Karnak, rovescia programmaticamente e provocatoriamente ogni ricerca di eleganza, accentuando in senso espressionistico tutte le spiacevolezze del modello che è, in questo caso, il faraone stesso. A El Amârna, la nuova capitale fondata in onore del disco solare, il linguaggio si fa più misurato senza però abbandonare quella ricerca della Maat (la verità) che è alla base di tutta la riforma di Ekhnaton. C'è l'esigenza di rappresentare la vita nel momento in cui si sta svolgendo, nel suo movimento, nel suo variare, e perciò con il gusto del particolare, delle forme sgraziate in contrapposto all'ideale bellezza dei modelli precedenti. Il faraone demiurgo diventa il soggetto principe, non più ritratto aulicamente sul trono, ma colto nelle situazioni quotidiane, mentre accarezza la sposa Nefertiti o tiene amorosamente in collo le figliolette o piange disperato la morte di una di esse. Il linguaggio formale è qui incentrato su ricerche luministiche; la luce crea la forma e la fa mutare volta a volta secondo il punto di vista da cui la si osserva. Basti osservare la mirabile serie di sculture trovate nello studio dello scultore Thutmose. Con l'abbandono di El Amârna e la rinuncia agli ideali religiosi che ne erano a fondamento, anche la violenza rivoluzionaria del linguaggio artistico cade a favore di una vera e propria restaurazione, che però non potrà eliminare le conquiste ormai raggiunte: una maggior libertà nelle raffigurazioni, l'abbandono degli schemi e un ritmo sempre più narrativo e quotidiano, sia che si raffiguri il sovrano nell'intimità sia che vengano narrate le sue imprese guerresche, come nei rilievi di Ramesse II e III, con le scene della battaglia di Qadesh e delle lotte contro i Popoli del mare, veri manifesti propagandistici destinati a tutto il popolo. Si sviluppa in quest'epoca la pianta del tempio che diventerà canonica: pilone, cortile porticato, ipostila (sala a colonne), vestibolo, santuario. L'esterno è un nudo muraglione, animato sulla facciata dalla presenza del pilone, costituito da due alte torri rastremate ai due lati della porta; l'interno intende mostrare la sempre maggiore sacertà dei luoghi man mano che si avanza verso il sacrario, diminuendo gli spazi e accentuando le ombre. Si rovesciano qui i rapporti architettonici dell'età menfita: là si era trattato di un'architettura solo di esterni, qui invece è quasi esclusivamente l'interno che appare degno di attenzione. Vi è anche in quest'epoca uno straordinario gusto del colossale, sia nella scultura sia nell'architettura, che trova il suo apice in Ramesse II, infaticabile costruttore, e nel suo successore e imitatore Ramesse III. Al primo risalgono, tra l'altro, la grande sala ipostila di El-Karnak, il Ramesseo (il suo tempio funerario) e i due templi di Abu Simbel; al secondo il tempio fortezza di Medinet Habu (tempio funerario cinto da un muro con torri e ornato da monumentali figurazioni a rilievo) e il tempio di Khonsu a El-Karnak. "Per approfondire Vedi Gedea Arte vol. 1 pp 135-138" "Per approfondire Vedi Gedea Arte vol. 1 pp 135-138"
Arte: dalla Bassa Epoca (1085 a.C.-332 ca.) all'Epoca Greca (332 a.C.-30 ca.)
Il periodo di decadenza seguito alla morte di Ramesse III è caratterizzato dalla produzione su larga scala di statuette di bronzo, tra cui emerge quella ageminata d'oro, d'argento e di elettro della “Divina Adoratrice” Karomama (ora a Parigi, Louvre). Intorno al 725 una dinastia nubiana penetra in Egitto con il proposito di restaurarvi la vera tradizione egizia. Così, di fronte alle ormai stremate raffinatezze delle dinastie XXI-XXIV, si riafferma, durante la XXV dinastia, una rude vigoria che ha i suoi modelli nelle età più antiche, con un senso un po' esteriore della forza che si esprime con teste tonde e corpi pesanti, e un nuovo amore per il ritratto. Queste tendenze sono portate avanti dalla XXVI dinastia saitica, che ancora più scolasticamente si rifà ai modelli dell'Antico e Medio Regno. Si ripetono tipi, abbigliamenti, atteggiamenti ormai abbandonati da secoli, con un gusto per la perfezione tecnica, per l'impiego di materiali difficili da lavorare (pietre dure, come il basalto, raggiungono la levigatezza del bronzo). L'ultimo periodo della storia egiziana, quello della dinastia tolemaica (323-30 a. C.), vede coesistere due culture che non riescono a fondersi. Alessandria diventa centro brillantissimo di cultura ellenistica, mentre nel resto del Paese continua stancamente la cultura indigena. Vi furono tentativi di compromesso tra le due arti, specie nei primi momenti, come nella tomba di Petosiri a Ermopoli, ma non ebbero seguito. Statue di Tolomei o di imperatori romani in costume egiziano sono sovente ibridi fastidiosi. Gli unici accenti di credibilità si hanno in alcuni ritratti, dove le esperienze dell'età saitica si fondono con quelle dell'ellenismo, creando un tipo che, pur restando nell'ambito dell'ellenismo, ha un suo proprio accento che lo differenzia da quello degli altri Paesi ellenizzati. E sempre nel campo del ritratto si avranno nella tarda età romana i cosiddetti ritratti del Faiyûm, dipinti su tavole o anche su tela e posti sul volto del morto. L'arte più propriamente indigena continua anch'essa con un accentuarsi di ricerche luministiche e un farsi più sensuale delle forme. Statue e rilievi di questo periodo hanno un'accentuata unità stilistica, tanto più notevole quanto più l'elemento indigeno va perdendo importanza politica. E tuttavia a quest'epoca di sfacelo risalgono alcuni tra i templi meglio conservati dell'Egitto, estrema concessione dei regnanti alla religione e alle tradizioni nazionali. La pianta è ormai codificata nella successione dei suoi elementi, si moltiplicano cripte e corridoi nascosti a rendere sempre più chiusa e soffocata in se stessa una religione ridotta a pratica cultuale, e anche i rilievi che ornano le pareti e le colonne hanno ormai riferimento soltanto al culto. Tra gli esempi più straordinari si ricordano i templi di Dendera di Kôm Ombo,, di Edfu, dell'età tolemaica; quello di Kalabsha dell'età augustea e soprattutto il mirabile complesso degli edifici di File, cui Traiano aggiunse l'elegante chiosco. Con la diffusione del cristianesimo ha inizio nel sec. IV una nuova fioritura artistica nell'Egitto cristiano, che trova la sua splendida stagione nell'arte copta, sviluppatasi tra il sec. V e il VI. "Per approfondire Vedi Gedea Arte vol. 1 pp 138-139" "Per approfondire Vedi Gedea Arte vol. 1 pp 138-139"
Musica
Antichissime sono le testimonianze della civiltà musicale dell'Egitto, il solo Paese che narri la storia completa della sua musica dai tempi primitivi a oggi. Gli scavi nelle necropoli hanno accertato infatti la presenza di un'attività musicale già nel periodo predinastico. Di origine magica e totemica, la musica liturgica era amministrata inizialmente da sacerdoti-musici e fu probabilmente solo vocale fino al Nuovo Regno, poi entrarono nel tempio gli strumenti (il sistro, strumento egiziano per eccellenza, il flauto, l'arpa, il doppio clarinetto, la lira, il tamburo, il liuto e il doppio oboe, quindi campane e campanelle di bronzo e il trìgonon greco) e al culto parteciparono anche donne musiciste. Anche la musica di corte era rigorosamente organizzata; si conosce inoltre l'esistenza di musica profana, al di fuori della corte, e di varie accademie musicali femminili. Nulla sappiamo invece delle melodie; non è rimasta traccia di notazione musicale e solo gli strumenti rivelano che la musica egiziana dovette conoscere gamme a intervalli ampi, come anche sistemi esotici cromatici. Certamente la cultura musicale egiziana esercitò influssi rilevanti sulla formazione di quella greco-romana. Nel periodo ellenistico, subita la cultura greca, Alessandria ne divenne centro universale, importante poi per il primo cristianesimo e per la prima liturgia musicale cristiana (vedi copti). Qui la tecnica scoprì il primo organo (l'idraulo di Ctesibio) e la musicologia fece la somma delle sue ricerche (Claudio Tolomeo, sec. II d. C.).
Danza
Numerose sono le testimonianze sulla danza nell'antico Egitto. Al pari della musica, essa aveva carattere sia sacro sia profano. Una placca eburnea predinastica riproducente un faraone nell'esercizio di una danza sacra, la rituale “corsa attorno al muro” propria della cerimonia d'incoronazione e, ancora, le molte immagini di danzatrici riprodotte in affreschi e bassorilievi sepolcrali – con le quali figurano le direttrici della danza nell'atto di imprimere la giusta cadenza tramite un battito di mani o uno schioccare di dita – oltre ad attestare l'importanza rituale della danza egizia, documentano la ricchezza e la varietà delle danze eseguite: lente e vivaci, acrobatiche ed erotiche, con costumi ridottissimi o arricchiti nelle varie epoche da veli, monili, elaborate parrucche. Resta notizia di grandi trattenimenti organizzati dalle più importanti amministrazioni signorili, nei quali la danza era sempre presente: sembra, inoltre, accertato anche l'uso di “quadri viventi”, specie nel Medio Regno. Anche il popolo accedeva alla danza nelle grandi festività, con danze rituali (per esempio, quelle in onore della dea Hator), agresti o guerresche.
Teatro
Nell'Egitto antico il teatro rimase confinato entro i limiti del tempio o nelle immediate vicinanze e costituì con la danza, che però sussisteva anche come attività autonoma, una componente delle azioni drammatiche che si svolgevano durante celebrazioni religiose, riti funebri, ecc. Forme di spettacolo predilette erano pure le competizioni sportive di lottatori (a corpo libero o armati di bastoni), tenute anche davanti al faraone e alla sua corte. Il teatro drammatico vero e proprio si esprimeva con un tipo di rappresentazione abbastanza simile ai misteri medievali dell'Occidente europeo, in cui si raccontavano miti come, per esempio, quello di Osiride, secondo quanto testimoniato dalla cosiddetta Stele di Shabaka, recante il testo di un libretto che serviva da guida al regista per lo svolgimento scenico dello spettacolo. Sembra comunque che il grosso pubblico potesse assistere soltanto alle parti più propriamente narrative della vicenda, mentre quelle di carattere esoterico erano riservate agli iniziati. Sono stati inoltre ricostruiti (soprattutto per merito dell'egittologo francese Étienne Drioton) testi di altri antichissimi drammi (XVIII o XIX dinastia), quali un superspettacolo sacro per le feste del dio Horo e una vera e propria moralità. Inoltre si conservano testimonianze di un teatro popolare di saltimbanchi o simili, totalmente indipendente dal culto e dalla corte.
Per la storia
J. A. Wilson, The Burden of Egypt, Chicago, 1951; Sir A. Gardiner, Egypt of the Pharahos, Oxford, 1961; Autori Vari, in Cambridge Ancient History, vol. I-II, Cambridge, 1962-65; E. Drioton, J. Vandier, Les Peuples de l'Orient Méditérranéen, II, Parigi, 1962; S. Donadoni, Le fonti indirette della storia egiziana, Roma, 1963; C. Aldred, Gli Egiziani, tre millenni di civiltà, Roma, 1988.
Per la religione
J. Vandier, La religion égyptienne, Parigi, 1944; J. Cerny, Ancient egyptian religion, Londra, 1953; B. De Rachewiltz, Introduzione allo studio della religione egiziana, Roma, 1954; S. Donadoni, La religione dell'Egitto antico, Milano, 1955; idem, La religione dell'Egitto antico: Testi, Bari, 1959; S. Morenz, Aegyptische Religion, Stoccarda, 1960; F. Cimmino, Akhenaton e Nefertiti, Milano, 1987.
Per la scienza e la tecnica
Glanville (a cura di), L'eredità dell'Egitto, Milano, 1953; De Rachewiltz, Vita nell'antico Egitto, Firenze, 1958; F. Aborio Mella, L'Egitto dei faraoni. Storia, civiltà, cultura, Milano, 1989.
Per la scrittura
K. Sethe, Das hieroglyphische Schriftsystem, Lipsia, 1935; P. Lacau, Sur le système hiéroglyphique, Il Cairo, 1954; L. Cottrell, Leggere il passato, Milano, 1974; W. Warburton, Scrittura e civiltà. Saggio sui geroglifici egiziani, Ravenna, 1986; S. Pernigotti, Leggere i geroglifici, Casalecchio di Reno, 1988.
Per la lingua
A. Erman, H. Grapow, Wörter buch der ägyptischen Sprache, Lipsia-Berlino, 1925 e segg.; A. Erman, [Agyptische Grammatik, Berlino, 1928; idem, Neuägyptische Grammatik, Lipsia, 1933; E. Edel, Altägyptische Grammatik, Roma, 1955; G. Lefebre, Grammaire de l'égyptien classique, Parigi, 1955; P. E. Cleator, Lost Languages, Londra, 1959; R. O. Faulkner, A Concise Dictionary of Middle Egyptian, Oxford, 1962; A. Gardiner, Egyptian Grammar, Londra, 1968; P. Du Bourguet, Grammaire égyptienne, Lovanio, 1971.
Per la letteratura
S. Donadoni, La letteratura egizia, Firenze, 1967; E. Bresciani, Letteratura e poesia dell'Egitto antico, Torino, 1970; S. Donadoni, Testi religiosi egizi, Torino, 1970; Autori Vari, Letteratura e poesia dell'antico Egitto, Torino, 1990.
Per l'arte
H. Schaefer, Amarna in Religion und Kunst, Lipsia, 1921; H. Schaefer, W. Andrae, Die Kunst des Alten Orients, Berlino, 1925; G. Farina, La pittura egiziana, Milano, 1929; I. Noshy, The Arts in Ptolemaic Egypt, Oxford, 1937; C. Aldred, Old Kingdom; Middle Kingdom, New Kingdom Art, in “Ancient Egypt”, 3 voll., Londra, 1949-51; S. Donadoni, Arte egizia, Torino, 1955; W. S. Smith, The Art and Architecture of Ancient Egypt, Harmondsworth, 1956; W. Wolf, Die Kunst Aegyptens. Gestalt und Geschichte, Stoccarda, 1957; H. Schaefer, Von [Agyptischer Kunst, Wiesbaden, 1963; A. M. Donadoni Roveri, E. Leospo, A. Roccati, Splendori dell'antico Egitto, Novara, 1981; J. Baines, J. Malek, Atlante dell'antico Egitto, Novara, 1985.