Geografia

Il maggiore oceano della Terra ; compreso tra le coste orientali dell'Asia e dell'Australia e quelle occidentali dell'America, si estende dalle regioni artiche a quelle antartiche su una superficie di 179.700.000 km², pari a ca. il 50% della superficie totale dei mari e al 35% dell'intera superficie terrestre: supera quindi la superficie complessiva di tutte le terre emerse. Per i limiti tra le acque del Pacifico e quelle degli altri due oceani, vedi Atlantico e Indiano. Il Pacifico si allunga dallo stretto di Bering all'Antartide per ca. 15.000 km e presenta tra Panamá e la penisola di Malacca una larghezza massima di oltre 20.000 km. Ca. l'8% della sua area complessiva è costituito da bacini dipendenti, tutti, tranne il golfo di California, distribuiti lungo le articolate coste occidentali (Mare di Bering, Mar di Ohotsk, Mar del Giappone, Mar Giallo, Mar Cinese Orientale, Mar Cinese Meridionale, Mar delle Filippine, Mar di Sulu, Mar di Celebes, Mar delle Molucche, Mare di Ceram, Mar di Banda, Mar di Giava, Mar di Flores, Mar di Sawu, Mar degli Arafura, Mar dei Coralli, Mar di Tasman) e separati dall'oceano aperto da una serie di archi insulari e isole (Aleutine, Curili, Arcipelago Giapponese, Ryūkyū, Taiwan, Filippine, isole dell'Indonesia e della Melanesia). Numerosissime sono le isole distribuite nel Pacifico centrale; sono di natura vulcanica e spesso ospitano strutture coralline: si presentano disposte per lo più secondo l'allineamento di lunghe dorsali sottomarine di cui rappresentano le parti emergenti. La profondità media delle acque del Pacifico è di 4049 m; le maggiori profondità si toccano nelle numerose fosse che bordano verso l'oceano gli archi insulari prima menzionati o le coste dell'America Meridionale: la massima profondità finora registrata compete all'abisso Vitjaz, 11.022 m, nella fossa delle Marianne, 350 km a SW dell'isola di Guam, raggiunta direttamente dal batiscafoTrieste II nel 1960 e confermata dai rilievi della nave statunitense Spencer F. Baird nel 1962.

Morfologia

Il bacino del Pacifico è circondato da una cintura orogenetica che nel corso dell'eone fanerozoico è stata attiva tanto durante il Paleozoico quanto durante l'intero ciclo orogenetico alpidico; attualmente questa fascia, nota come cintura o anello di fuoco, è sede di notevoli manifestazioni vulcaniche e sismiche. Il risalire di questa cintura orogenetica al Paleozoico aveva contribuito ad avvalorare il concetto che il Pacifico fosse un elemento strutturale permanente della superficie terrestre, ma le scoperte di questi ultimi anni hanno modificato sostanzialmente tale veduta: la conformazione attuale del Pacifico così come quella degli altri oceani non è che l'espressione momentanea del processo dinamico che coinvolge l'intera crosta terrestre. I campioni e i dati raccolti recentemente nel quadro dello studio sistematico dei fondi oceanici, grazie soprattutto all'apporto fornito dalla nave oceanografica Glomar Challenger che ha consentito il prelievo a grande profondità di carote, hanno inequivocabilmente indicato che i fondali più antichi risalgono al Giurassico e al Cretaceo. Anche per il Pacifico, seppur non per tutto il bacino nei suoi limiti geografici, è possibile riconoscere i tratti strutturali già illustrati per l'Atlantico. L'area del Pacifico è distinguibile infatti in due domini fondamentali grazie alla cosiddetta linea andesitica, che separa appunto l'area del Pacifico centrale, caratterizzata da un vulcanesimo basaltico di tipo atlantico, da quella circumpacifica, particolarmente estesa sul lato occidentale, caratterizzata da rocce delle serie calciche e alcalicalciche come basalti toleitici, daciti e andesiti, espressione di un vulcanesimo indicato poco felicemente come di tipo pacifico mentre sarebbe più esatto definirlo peripacifico. La linea delle andesiti corre a ridosso delle coste americane, mentre si allontana molto da quelle asiatiche e australiane, correndo lungo la penisola di Kamčatka, le isole Curili, l'Arcipelago Giapponese, e toccando le isole Marianne, Caroline, Marshall, Tonga, Kermadec e la Nuova Zelanda. È l'area oceanica racchiusa dalla linea delle andesiti, il Pacifico centrale, che presenta come già ricordato strutture analoghe a quelle riscontrabili nell'Atlantico. Anche se non in posizione mediana, esiste una grande dorsale, quella del Pacifico orientale o est-pacifica, che dal golfo della California si dirige verso SW: sul suo allineamento si trovano le isole Galápagos e l'Isola di Pasqua; la dorsale est-pacifica si collega tramite la dorsale pacifico-antartica e quella delle Macquarie alla dorsale orientale dell'Oceano Indiano. Dalla dorsale est-pacifica si stacca la dorsale cilena che consente di distinguere un bacino del Pacifico orientale e un bacino del Pacifico antartico. Dorsali minori con caratteristiche ancora enigmatiche si staccano dalla dorsale est-pacifica nell'ambito del bacino del Pacifico orientale: sono le dorsali Tehuantepec, Coco, Carnegie e Nazca. Sia la dorsale est-pacifica sia la vasta zona del Pacifico al largo delle coste nordamericane sono interessate da notevoli, lunghissime fratture trasversali, con andamento secondo i paralleli. Le principali zone di frattura sono, da N a S, quelle di Mendocino, di Murray, di Molokai, di Clarion, di Clipperton, delle Galápagos, dell'Isola di Pasqua, Challenger, Fernández e di Eltanin. La restante area del Pacifico centrale presenta un andamento molto più movimentato, essendo percorsa da numerose dorsali generalmente orientate in direzione NW-SE; numerose cime di queste emergono costituendo degli arcipelaghi: le principali dorsali sono quella delle isole Hawaii e la catena dell'Imperatore. Il Pacifico occidentale è invece il dominio degli archi insulari, il cui bordo volto all'oceano è orlato da profondissime fosse, che praticamente rappresentano il contatto tra crosta continentale e crosta oceanica. Il fondo oceanico si infila sotto la zolla continentale sprofondando fino a essere assorbito dall'astenosfera: lo scontro tra le zolle non solo determina la formazione delle fosse, ma anche di vulcani, che emettono lave andesitico-basaltiche appunto in conseguenza della mescolanza dei due tipi di crosta. I fondali pacifici sono coperti prevalentemente da sedimenti pelagici: l'accumulo di detriti organogeni dipende dalla profondità dei fondali nonché dall'abbondanza di vita delle acque superficiali. I detriti organogeni calcarei non riescono in media a superare la profondità di 3700 m senza essere completamente disciolti, se non nelle zone di elevata produttività organica come quella equatoriale, dove l'interazione delle correnti dei due circuiti, settentrionale e meridionale, favorisce un'elevata risalita di sostanze nutrienti: in queste zone la cosiddetta profondità di compensazione dei carbonati può spingersi anche oltre i 5000 m; i detriti silicei si sciolgono invece a profondità ancora maggiori. I fondali più profondi sono coperti da sottili veli di sedimenti inorganici: argille e fanghi rossi abissali sono diffusi su gran parte dell'area pacifica boreale, mentre ricoprono la zona centrale e le più depresse fasce marginali di quella australe. I sedimenti calcarei, per lo più melme a Globigerine, prevalgono a S dell'Equatore, mentre quelli silicei si presentano in tre fasce, tra Giappone e Alaska, poco a N dell'Equatore sul lato orientale dell'oceano e davanti alle coste antartiche. In margine al bacino si accumulano sedimenti terrigeni e ceneri vulcaniche. Grande diffusione hanno le colonie coralline nella fascia di acque con temperatura superiore ai 18 ºC; il loro sviluppo su coni vulcanici in lento, graduale sprofondamento ha portato alla formazione degli atolli, le più grandi strutture organiche della Terra. Lo studio dei fondali pacifici condotto sia col metodo della prospezione sismica sia col prelievo di carote ha messo in evidenza una differenza tra le sequenze degli strati sedimentari depositatisi sulla crosta oceanica del Pacifico orientale e la sequenza del Pacifico occidentale: tale differenza è stata interpretata ipotizzando, oltre alla deriva verso W rispetto alla dorsale est-pacifica del pavimento oceanico di neoformazione, un'altra deriva diretta verso N. La zolla pacifica risulterebbe da ca. 80 milioni di anni sottoposta anche a questa componente di deriva verso N sulla base di ca. 4,5 cm annui, tranne che per gli ultimi 30 milioni di anni, durante i quali la velocità si sarebbe ridotta a ca. 2 cm annui. Evidente testimonianza di questo lento movimento sarebbe la diversa orientazione presentata da due delle dorsali già menzionate, la catena dell'Imperatore e quella delle Hawaii, formate da una successione di rilievi oceanici isolati (seamount) considerati resti di vulcani sottomarini. Tali vulcani si sarebbero formati man mano al passaggio della crosta oceanica in corrispondenza di una zona (“punto caldo”) di risalita di materiale profondo dal mantello, per poi col passare del tempo allontanarsi sempre più finendo col trasformarsi in seamount. I vulcani emersi come isole sono stati spianati dalla erosione finché non sono finiti sott'acqua per il progressivo abbassamento della crosta che li trasporta: sulla loro spianata sommitale hanno quindi potuto depositarsi sedimenti; tali caratteristici rilievi sottomarini sono noti come guyot. Gli esami compiuti sulle strutture dei rilievi sottomarini delle due catene in questione hanno messo in evidenza che la loro età diminuisce man mano che si procede dall'estremità settentrionale della catena dell'Imperatore, risalente quanto meno a ca. 70 milioni di anni fa, all'isola Midway, formatasi ca. 20 milioni di anni fa, all'estremità occidentale della catena delle Hawaii, all'estremità orientale della stessa catena, dove si trova il Kilauea, vulcano tuttora in attività e sorto meno di 1 milione di anni fa. Anche la distribuzione delle anomalie magnetiche sui fondali pacifici e in particolare la presenza di una larga fascia priva di queste anomalie attraverso il Pacifico boreale, tra le coste sudamericane all'altezza dell'Equatore e quelle della penisola di Kamčatka, sembrano confortare l'interpretazione della simultanea azione sulla zolla pacifica di due componenti di deriva, verso W e verso N. In conclusione, sulla base dei dati finora disponibili si può affermare che l'area di formazione del pavimento oceanico corre lungo la cresta della dorsale est-pacifica: il pavimento di neoformazione migra spostandosi lentamente grosso modo verso NW fino a sprofondare sotto gli archi insulari del bordo occidentale. In tal modo le parti più vecchie della crosta oceanica vengono progressivamente distrutte: i fondali del Pacifico occidentale rappresentano quindi l'area più antica di tutto il bacino.

Caratteristiche fisiche delle acque: salinità e temperatura

La salinità delle acque superficiali è determinata fondamentalmente dall'evaporazione e dalla quantità di precipitazioni; sull'area del Pacifico le precipitazioni presentano un valore medio di ca. 1200 mm annui: la fascia più piovosa è quella delle calme equatoriali tra Panamá e l'antimeridiano di Greenwich con una media di oltre 3000 mm annui. L'evaporazione non riesce completamente a compensare l'apporto delle precipitazioni: si stima che la differenza si aggiri sui 70-80 mm, il che favorisce il deflusso di acque pacifiche verso i bacini contermini. Il valore medio della salinità si aggira sul 35-36‰; le aree con i valori più elevati si trovano in corrispondenza delle fasce tropicali: quella australe è comunque molto più sviluppata. La salinità è inferiore al 35‰ nella fascia equatoriale e addirittura inferiore al 32‰ al largo delle coste dell'America Centrale in conseguenza delle locali forti precipitazioni. Per il resto la salinità decresce con l'aumentare della latitudine e lungo le coste dove sfociano grandi fiumi (Yukon, Fraser, Columbia e Colorado in America; Amur, Hwang He e Yangtze Kiang in Asia); si stima che i fiumi tributari del Pacifico riversino complessivamente ca. 270.000 m3 di acqua al secondo. La temperatura delle acque superficiali diminuisce abbastanza regolarmente procedendo dalla zona equatoriale, che presenta valori medi annui compresi tra i 25 e i 28 ºC, verso i poli, con un andamento delle isoterme quasi coincidente con quello dei paralleli. Oltre i 40º di latitudine la temperatura però diminuisce molto più rapidamente nell'emisfero boreale per l'influenza delle terre emerse: le escursioni termiche lungo le coste nordamericane sono comunque molto più contenute (5-6 ºC) che lungo quelle asiatiche dove superano anche i 15 ºC. Sono sotto zero tutto l'anno le acque superficiali attorno alle coste antartiche; d'inverno gelano vasti tratti delle acque dei mari di Ohotsk e di Bering, mentre dalla calotta antartica si distaccano giganteschi icebergs tabulari che possono spingersi anche oltre il 40º di latitudine S.

Movimenti delle acque: correnti e maree

Il Pacifico è percorso da un doppio circuito di correnti che ruotano in senso orario nell'emisfero boreale e in senso antiorario in quello australe. Nel circuito settentrionale la corrente equatoriale del N attraversa l'oceano da oriente a occidente a una latitudine di 10º N deviando poi verso NNE presso le coste delle Filippine (Curoscivo) e poi a E dirigendosi verso le coste americane e di qui ancora piegando verso S (corrente della California). Nell'emisfero meridionale la corrente equatoriale del S, che scorre da E verso W appena a S dell'Equatore, si scinde in più rami presso le isole Salomone; il ramo principale è la corrente dell'Australia orientale che scende verso S e attraversa da W a E l'intero Pacifico unendosi alla fredda corrente antartica e ricollegandosi poi con la corrente fredda di Humboldt (o del Perú); questa scorre da S a N lungo le coste occidentali dell'America Meridionale fino a ricongiungersi poi con la corrente equatoriale del S. Tra le due correnti equatoriali scorre da W verso E la controcorrente equatoriale. Le maree del Pacifico sono per lo più a carattere misto di tipo semidiurno e presentano ampiezze generalmente comprese tra.0,5 e 2 m: ampiezze superiori ai 5 m si incontrano solo lungo tratti di costa dell'Alaska, dell'America Centrale e dell'Australia.

Economia: le risorse

La pesca nel Pacifico ha avuto in questi ultimi tempi una notevole espansione soprattutto per il potenziamento dell'attività peschereccia lungo le coste del Perú; le maggiori aree di pesca sono oltre quella del Pacifico di SE, quella del Pacifico centroccidentale e quella del Pacifico settentrionale. Le principali potenze ittiche sono rappresentate dal Perú, che pesca soprattutto acciughe, per lo più successivamente convertite in farina di pesce, e dal Giappone; quest'ultimo dispone di una delle più efficienti flottiglie di pesca, di navi fattoria e di numerosi stabilimenti costieri per la lavorazione del pescato. Le specie più pescate sono, oltre alle acciughe peruviane, aringhe, scombri, merluzzi, tonni, salmoni, naselli, Ciprinodontiformi; è anche praticata la caccia alla balena. Importanza locale ha la pesca di oloturie, crostacei, ostriche e altri bivalvi eduli, nonché quella del corallo, delle perle, delle tartarughe e delle conchiglie. Lungo le coste di alcuni Paesi viene praticata la coltura di diversi tipi di alghe, utilizzate dall'industria alimentare e chimica, e quella di ostriche, mitili e crostacei. Recente e importantissima risorsa è quella degli idrocarburi: giacimenti di gas naturale e di petrolio sono stati scoperti in diversi punti della piattaforma continentale pacifica e oggi la produzione da impianti offshore raggiunge quantità elevate. La messa a punto di sistemi a tecnologia avanzata consentirà, in un prossimo futuro, lo sfruttamento dei giacimenti presenti a livelli più profondi. Un'altra immensa ricchezza del Pacifico (in particolare del Pacifico centrale) sono i noduli ciottolosi contenenti ferro e manganese (ma anche rame, cobalto e nichel), che ricoprono con alte concentrazioni e per vaste estensioni i fondali al di sotto dei 4000 m: la genesi di tali noduli (dalle dimensioni di qualche centimetro e disposti in strati di alcuni metri di spessore) è ancora alquanto controversa. Il fatto che essi non risultino coperti dal velo di sedimenti che si depositano continuamente sul fondo induce a ritenere che la loro formazione avvenga in tempi brevi. Lo sfruttamento di questi giacimenti non è stato ancora intrapreso non tanto per le difficoltà presentate dal loro recupero quanto per la mancanza di una conveniente tecnica di separazione dei diversi minerali presenti. Altri fenomeni di mineralizzazione sono stati scoperti sui fondali a N delle Galápagos. Si tratta di ossidi e solfuri di ferro, rame e zinco, che si formano a opera di potenti getti di acqua, che fuoriescono da fratture dei fondali, a temperature superiori ai 350 ºC.

Economia: flussi commerciali

Nel quadro economico e geopolitico mondiale, il Pacifico costituisce, ormai dagli anni Ottanta del sec. XX, l'area maggiormente dinamica, tanto da delineare addirittura un ribaltamento del baricentro classicamente rappresentato dall'oceano Atlantico, in termini di scambi di merci, persone, capitali e innovazione. Sul Pacifico si affacciano, in effetti, gli Stati emergenti degli USA, in particolare la California, con la “megalopoli” di San Francisco-Los Angeles, e lo Stato di Washington, con l'area metropolitana e portuale di Seattle-Tacoma, oltre alla Columbia Britannica, che vede concentrarsi su Vancouver i più consistenti flussi di esportazione dei prodotti agricoli e minerari canadesi. Sulla sponda opposta, accanto al colosso giapponese, si sono affermati i NIC e i Paesi dell'ASEAN (Thailandia, Malaysia, Indonesia, Filippine e Brunei, oltre alla stessa Singapore e, dal 1995, il Viet Nam), mentre il nuovo corso della politica economica cinese ha aperto questa gigantesca potenza alle relazioni esterne, che si vanno sempre più sviluppando sulla fascia costiera, attraverso la localizzazione delle Zone economiche speciali. A SW, infine, Australia e Nuova Zelanda, ben dotate di risorse naturali quanto di tecnologie, mantengono il proprio ruolo strategico nel quadro dei Paesi sviluppati. In un simile contesto, i flussi commerciali sono andati non solo intensificandosi, ma soprattutto diversificandosi, specie da parte dei Paesi asiatici. Dalla facciata nordamericana, alle materie prime canadesi si affiancano quelle statunitensi, anche se l'industria giapponese continua ad approvvigionarsi in prevalenza dal Medio Oriente e dall'Australia. Dalla facciata opposta, invece, alle materie prime provenienti dai Paesi dell'ASEAN si sono progressivamente sostituiti semilavorati e prodotti finiti a valore aggiunto sempre più elevato, non solo dal Giappone ma anche dai NIC. Il trasporto è in massima parte unitizzato, e i carichi delle navi portacontainer vengono poi incanalati (dai porti di Los Angeles, Long Beach, Oakland, Seattle e Tacoma) nella rete ferroviaria statunitense e avviati verso Chicago e la costa atlantica, con notevole risparmio di costi rispetto al transito per il Canale di Panamá. A loro volta, i flussi di capitale si sono trasformati da aiuti allo sviluppo e prestiti, soprattutto dagli USA verso i Paesi asiatici, in investimenti diretti dal Giappone verso gli stessi Stati Uniti, l'ASEAN e i NIC, e da questi ultimi verso la Cina. La fascia circumpacifica accoglie, inoltre, ben sette agglomerazioni urbane (Tokyo, Seoul, Tientsin, Shanghai, Manila, Los Angeles, San Francisco) con popolazione superiore agli 8-10 milioni di ab., e dunque, in assoluto, fra le prime venti del mondo. Esse rappresentano fulcri decisionali, nonché masse demografiche, che, unitamente alle numerose città “milionarie”, innescano e filtrano spostamenti di persone pure molto consistenti: la California, divenuta ormai lo Stato più popolato degli USA con un'alta percentuale di Asiatici. Questa maggiore complessità delle relazioni commerciali, finanziarie e – globalmente – geografiche ha determinato un indubbio processo di integrazione regionale dell'area pacifica, su cui pesano, tuttavia, numerosi interrogativi e questioni aperte. La prima, e più rilevante sotto il profilo politico-economico, riguarda le relazioni fra gli Stati Uniti e il Giappone, restio ad abbandonare il proprio atteggiamento protezionistico sul mercato interno e, per contro, espansionistico su quello estero. Vi è, poi, la grande incognita dello sviluppo cinese, legata alla capacità di conciliazione fra aperture liberistiche e rigido controllo statale. All'evoluzione delle due grandi potenze asiatiche è, in buona misura, legata anche la sorte dei NIC, i quali, pur avendo fortemente ridotto il loro grado di dipendenza tecnologica e finanziaria, non sono certamente in grado di sottrarsi alla sfera di influenza economica giapponese e politica cinese: basti pensare, a quest'ultimo proposito, alla reincorporazione di Hong Kong nella Cina continentale, mentre Taiwan resta soggetta ad analoghe rivendicazioni, e la divisione della Corea vede proprio nella Cina l'unico interlocutore possibile nei confronti della Repubblica nordcoreana, con ciò esercitando una pesante ipoteca sul futuro della stessa economia sudcoreana. Infine, l'Estremo Oriente ex sovietico, dopo la dissoluzione dell'URSS, appare sempre meno controllabile da Mosca e, per conseguenza, sempre più aperto alle penetrazioni dal versante pacifico, che potrebbe dunque attrarre a sé le immense risorse siberiane. Secondo interpretazioni plausibili, allora, il Pacifico, nel quadro regionale mondiale, potrebbe non essere più un “vuoto”, ma non essere ancora divenuto neppure un “centro”. Per completarne il processo di regionalizzazione ed esaltarne definitivamente il ruolo, appare necessaria una maggiore integrazione geopolitica, il cui avvio si può cogliere nella creazione (1993) di un nuovo organismo economico, l'ASEAN Regional Forum, che, includendo tutti i maggiori protagonisti dello sviluppo di quest'area – tranne, al momento, la Cina – ed estendendosi anche all'Unione Europea, configura la realizzazione di una vastissima zona di scambio, della quale il Pacifico potrebbe effettivamente divenire la regione motrice.

Storia: l'affermazione giapponese e le guerre mondiali

La storia del Pacifico è essenzialmente la vicenda dei popoli del Sud-Est asiatico, dell'Estremo Oriente e dell'Oceania – che nell'immenso oceano si bagnano e da esso traggono importanza politica, economica e strategica – nel loro cammino verso l'emancipazione dalla tutela occidentale. In realtà questa tutela è di data recente: risale, grosso modo, alla metà dell'Ottocento giacché dall'età delle scoperte alla colonizzazione c'è un vuoto di almeno due secoli. Ma il dominio dei bianchi (dall'India alla Cina, dall'Indonesia alle Filippine) sconvolse civiltà antiche di millenni, sino allora autonome. Tuttavia l'avvento della tecnologia promosse anche – in ambienti fortemente permeabili, come il Giappone – reazioni imprevedibili, per cui il mondo rimase sbalordito quando, nel 1905, apprese che il colosso zarista era stato battuto dall'Impero del Sol Levante (vedi guerra russo-giapponese). Il Giappone fu quindi la prima nazione dell'Estremo Oriente a inserirsi di prepotenza nel novero delle grandi potenze. Con la partecipazione alla prima guerra mondiale il suo prestigio si accrebbe ulteriormente: si aprì anzi quella che si potrebbe definire l'era del Giappone. Nel 1919, finita la guerra, le potenze vincitrici si spartirono – anche nel Pacifico – le spoglie dell'ex Impero germanico: beneficiari furono l'Australia e la Nuova Zelanda (per la zona a S dell'Equatore), ma soprattutto il Giappone che ottenne le isole Marianne, Marshall, Caroline e Palau. Ma più importante, e gravido di conseguenze, fu il fatto che all'Impero del Sol Levante andarono anche i territori e i diritti ex tedeschi in Cina, che i Giapponesi del resto avevano già occupato nel 1915. A nulla valsero le proteste cinesi che avrebbero voluto la fine dei “trattati ineguali” e l'annullamento dei capitolati strappati “con la violenza” dai Giapponesi. Ma il presidente Th. W. Wilson, pur favorevole alla Cina, dovette cedere di fronte al pericolo che il Giappone pretendesse l'inclusione nello statuto della Società delle Nazioni di un articolo di condanna contro la discriminazione razziale, largamente praticata dagli USA nei riguardi dell'immigrazione gialla. L'avvento del Giappone tra le potenze del Pacifico comportava tutta una serie di problemi e di rischi di cui gli Stati Uniti e la Gran Bretagna si resero conto ben presto. Così, nonostante il back to normalcy (vale a dire il trionfo della politica isolazionista), fu proprio il presidente americano W. G. Hardinga convocare a Washington (13 novembre 1921) una conferenza delle potenze vincitrici, dedicata in gran parte al Pacifico: si trattava di stabilire garanzie per uno status quo e di accordarsi per impedire una folle corsa all'armamento navale. La conferenza si concluse, dopo laboriose trattative durate poco meno di tre mesi, con una sostanziale affermazione delle tesi occidentali (USA e Gran Bretagna) su quelle dei Giapponesi, che non ottennero la parità navale, dovettero consentire allo status quo nel Pacifico e a una certa retrocessione in Cina. Non si trattava però di una vittoria occidentale, ma piuttosto di una battuta di arresto dell'imperialismo nipponico su cui influiva negativamente, proprio in quegli anni, una grave crisi economica. Questa ebbe per conseguenza l'indebolimento del governo liberale contrario a una politica di armamento e di conquiste territoriali. Così quando il governo del Kuomintang sembrò porre fine alla lunga anarchia in Cina e minacciare seriamente le posizioni giapponesi sul continente, la politica espansionistica prese nuovo vigore e i militari portarono a termine la conquista della Manciuria (1929-32): la Società delle Nazioni deplorò; gli USA espressero, con la “dottrina Stimson” (7 gennaio 1932), una decisa condanna per le modifiche territoriali con l'uso della forza, ma nessuno si mosse. L'“aggressione” era perfettamente riuscita: il Giappone si sentiva libero di continuare nella sua politica espansionistica. Ma le nubi che gravavano sul Pacifico si addensarono quando nel 1935 si riunì a Londra una nuova conferenza per la limitazione degli armamenti navali. Il Giappone aveva potenziato al massimo la marina militare (95% della propria quota contro il 60% circa degli Americani) e non faceva mistero di voler raggiungere – anche di diritto – la parità navale con gli Stati Uniti e la Gran Bretagna. E, di fronte all'opposizione degli occidentali (ma Roosevelt aveva fatto un gesto distensivo trasferendo nell'Atlantico la flotta del Pacifico), abbandonò la conferenza. Intanto la nuova potenza dell'URSS – che negli anni Venti era stata emarginata (sebbene mai completamente) dalle questioni estremo-orientali – riprese a far sentire il suo peso nella zona settentrionale del Pacifico. L'Unione Sovietica (protettrice, fra l'altro, della Mongolia Esterna) seguiva con preoccupazione i progressi della penetrazione giapponese in Cina. Cercò, in un primo tempo, di avviare una politica conciliante, riconoscendo il nuovo Stato satellite del Manchukuo e cedendo al Giappone i suoi diritti sulla ferrovia orientale cinese (costruita quarant'anni prima dai Russi) ma già nell'ottobre 1935 vi furono i primi scontri di frontiera, seguiti (marzo 1936) da un tentativo di invasione della Mongolia. L'attrito si aggravò nel novembre dello stesso anno, quando il Giappone e la Germania firmarono il patto Anticomintern al quale era allegato un protocollo segreto minaccioso per l'URSS. Ne seguì un riavvicinamento dell'Unione Sovietica alla Cina cui (primavera 1937) anche la Gran Bretagna concesse notevoli crediti. Poco dopo (luglio 1937) con la conquista di Pechino le operazioni dei Giapponesi divennero vera e propria guerra, anche se non dichiarata. Il Giappone violava, con la sua azione, il Trattato di Washington del 1922 e il Patto Briand-Kellogg del 1928, ma ciò non bastò, neppure questa volta, per smuovere le grandi potenze dalla loro politica di appeasement. La Società delle Nazioni, da parte sua, convocò (Bruxelles, 3-24 novembre 1937) una conferenza dei firmatari del Trattato di Washington per discutere e rilanciare il trattato stesso. L'incontro fu, in realtà, un fallimento: il Giappone non intervenne; l'Italia rifiutò di votare la risoluzione finale; la Francia, che già temeva per la sorte dell'Indocina, si astenne; la Gran Bretagna e gli USA non nascosero di essere contrari a un intervento. Non vi è dubbio che l'atteggiamento del Giappone aveva provocato una coalizione di interessi, e quindi di alleanze di fatto, che dovevano metterlo, in prospettiva, in difficoltà. Sulle frontiere dell'URSS gli scontri (ma si può parlare di una “piccola guerra”, con centinaia di morti) continuarono (1938-39), concludendosi con un armistizio soltanto nel settembre 1939. Tuttavia nessuna di queste due potenze aveva interesse a drammatizzare la situazione perché gli impegni vitali di entrambe erano altrove: in Europa per l'URSS; in Cina e nel Pacifico per il Giappone. Ma mutavano invece gli orientamenti isolazionistici negli USA: la politica del “non impegno” era duramente attaccata dall'ex segretario di Stato Stimson e da diversi giornali, come il Washington Post e il New York Times. Nel 1939 l'occupazione giapponese dell'isola di Hainan e delle isole Spratly (appartenenti alla zona d'influenza francese) provocò una vivace reazione al Senato di Washington il quale introdusse una risoluzione che consentiva al presidente di interrompere gli scambi commerciali con il Giappone. Questo era un punto delicato perché l'impero nipponico importava dagli USA buona parte del materiale che gli serviva per l'armamento e Roosevelt ne approfittò ben presto, anche in considerazione dello scoppio della guerra in Europa che, impegnando in quel settore Francia e Gran Bretagna, accresceva la responsabilità americana nell'area del Pacifico. Fu ben presto evidente che il Giappone si era deliberatamente orientato verso una politica di espansione al sud. Già il 12 gennaio 1940 chiese ai Paesi Bassi vantaggi commerciali e una nuova politica per investimenti industriali in Indonesia. Gli USA si opposero fermamente e il Giappone diresse allora la sua pressione verso l'Indocina francese che, nell'agosto 1940, dovette capitolare. Il mese successivo il Patto Tripartito riconosceva (art. 2) il diritto del Giappone a creare un “ordine nuovo” in Asia orientale. Si ammetteva che “la sfera di esistenza” nipponica si estendeva sino alle Indie. Ma, mentre il governo americano ebbe in quel momento la certezza che una guerra con il Giappone era inevitabile, quest'ultimo sperò di evitare uno scontro diretto e fino alla tarda primavera del 1941 cercò un'intesa con gli Americani: solo nelle due conferenze imperiali del 25 giugno e del 2 luglio fu decisa la guerra. Con l'eliminazione della flotta anglo-americana del Pacifico l'avanzata giapponese non ebbe più ostacoli. Rapidamente (inverno-primavera 1942) caddero l'Indocina, la Thailandia, la Malesia, la Birmania oltre ad alcune isole delle Aleutine. Il Giappone aveva conquistato un impero coloniale di 8 milioni di km² col 93% della produzione mondiale di caucciù, il 76% di quella dello stagno e importanti quantità di petrolio. La conquista giapponese avvenne sotto il segno della “sfera di co-prosperità della grande Asia orientale” e in obbedienza allo slogan “L'Asia agli Asiatici”: ciò significò, in pratica, la creazione di una serie di governi satelliti (nelle Filippine, in Birmania, in Indocina e in Indonesia); in Thailandia fu mantenuto il governo già esistente; mentre solo in Malesia i Giapponesi governarono direttamente. Tutto ciò ebbe dei riflessi anche in India, dove la spinta nazionalistica era fortissima, e a Rangoon infatti nacque un governo indiano (sotto protezione giapponese) con a capo Ciandra Bose. Con la fine della seconda guerra mondiale, le potenze colonizzatrici ripresero possesso dei territori perduti: largo spazio ebbero gli Stati Uniti che occuparono lo stesso Giappone. Nel 1945 solo la Thailandia, in tutto il Sud-Est asiatico, poteva considerarsi uno Stato indipendente.

Storia: la crescita degli stati nazionali asiatici dopo il 1945

Ma le sconfitte occidentali, la resistenza antigiapponese, e la stessa esperienza dei governi quisling, non erano stati senza conseguenze. Nazionalismo e anticolonialismo erano ora concetti ben radicati nello spirito dei popoli asiatici. Chiave di volta della situazione divenne ben presto il confronto tra comunisti e Kuomintang in corso in Cina. Ciò fu ben chiaro a Washington che, tra il settembre 1945 e il 1949, fornì a Chiang Kai-shek aiuti per 2254 milioni di dollari. Ma invano: il 21 settembre 1949, Mao Tse-tung proclamava a Pechino la Repubblica Popolare Cinese. Pressoché contemporaneamente anche l'India era divenuta indipendente, preceduta da Birmania e Filippine. Il processo di emancipazione prendeva vigore, alimentato dalla debolezza delle potenze europee uscite stremate dal grande conflitto e dalla vitalità degli stessi nuovi Stati. Esemplare fu, a questo proposito, la vicenda indonesiana, dove l'indipendenza, reclamata dai nazionalisti (1945) e contrastata con ogni mezzo dagli Olandesi, fu concessa (dopo un braccio di ferro durato cinque anni) anche a seguito della ferma presa di posizione della Conferenza panasiatica riunita per iniziativa dell'India (Nuova Delhi, gennaio 1949). L'allarmata reazione delle potenze occidentali si tradusse in un radicale mutamento della concezione politica generale. Il Giappone vinto divenne il punto di forza della nuova politica del Pacifico (Conferenza di San Francisco e pace separata, 8 settembre 1951); Corea e Vietnam (1950) divennero “guerre di contenimento” locale; il Patto di Sicurezza del Pacifico (ANZUS, 1951) garantì Australia e Nuova Zelanda. L'atmosfera della guerra fredda ebbe il suo culmine il 1º dicembre 1951, allorché il “viceré” Mac Arthur minacciò di bombardare la Cina. Infine, l'8 settembre 1954, a Manila fu varato il Trattato di difesa collettiva per l'Asia del Sud-Est che raggruppava gli USA, la Gran Bretagna, la Francia, l'Australia, la Nuova Zelanda, le Filippine, il Pakistan, la Thailandia. Ma fu proprio la firma di questo trattato a provocare la convocazione, a opera di India, Ceylon (odierno Srī Lanka), Birmania, Indonesia (cui si aggiunse il Pakistan) – il gruppo di Colombo –, di una grande conferenza dei “Paesi non allineati”: conferenza che riunì a Bandung trenta Stati afro-asiatici (18-24 aprile 1955) intenzionati a porsi come forza di contenimento del minaccioso urto fra i due blocchi. È sintomatico che tutto ciò avvenisse nell'area del Pacifico. La “guerra fredda” infatti aveva provocato il sorgere di isole di tensione in Europa, Medio Oriente, Africa e America Latina, ma era nelle immense aree del Pacifico che i due blocchi si erano scontrati direttamente, in Corea e in Vietnam. Proprio qui, in presenza dell'“inumano conflitto” indocinese i popoli del Sud-Est e dell'Estremo Oriente si sentirono impegnati in uno sforzo per la pace e l'indipendenza. Quest'ultimo conflitto del resto, che si protrasse di gran lunga oltre i confini del “disgelo”, fu alla base di una serie di eventi che minacciando la credibilità statunitense e logorando il principio del “contenimento rigido”, diede il via a una politica più possibilista e sfumata in quell'importante settore. Con l'ammissione della Cina all'ONU (1971), la pace di quest'ultima con il Giappone (1972), la conclusione della guerra del Vietnam (1975) si sono venute esaurendo le contraddizioni tipiche del colonialismo. Il processo di pacificazione in Cambogia avviato con l'Accordo di Parigi tra le varie formazioni in lotta (1991) ha portato alla Costituzione del 1993. L'avvio di una maggiore integrazione geopolitica nell'area si può cogliere nella creazione di un nuovo organismo economico l'ASEAN Regional Forum (1993), che, includendo tutti i maggiori protagonisti dello sviluppo di quest'area, tranne la Cina, ed estendendosi anche all'Unione Europea, configura la realizzazione di una vastissima zona di scambio .

Bibliografia

C. H. Cotter, The Physical Geography of the Oceans, Londra, 1965; G. Dietrich, Allgemeine Meereskunde, Berlino, 1965; H. R. Friis (a cura di), The Pacific Basin: a History of Its Geographical Exploration, New York, 1967; P. K. Weyl, Oceanography, New York, 1970; A. Corneli, L'era del Pacifico. Dinamismo economico e conflittualità politica, Milano, 1989.

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