luce (fisica)
IndiceStoria della luce
Radiazioneelettromagnetica che rende possibile la sensazione della visione. Per Pitagora e la sua scuola la luce consisteva in un fluido emesso dagli occhi che ritornava successivamente con l'immagine dell'oggetto, mentre per Democrito e gli atomisti erano i simulacri (o idola) emessi dagli oggetti a provocare la sensazione luminosa negli occhi. Tali teorie si fusero nella concezione di Platone, il quale riteneva che la luce derivasse dall'incontro di due fluidi, uno proveniente dall'occhio e l'altro dall'oggetto. Nel sec. III a.C. lo studio della luce venne affrontato da Euclide elaborando una specifica disciplina, l'ottica geometrica. Sulla base dei due postulati per cui “i raggi emessi dall'occhio procedono per via diretta” e “la figura compresa dai raggi visivi è un cono con il vertice nell'occhio e la base al margine dell'oggetto”, Euclide compì uno studio sistematico delle immagini prodotte da piccole aperture, delle ombre, delle grandezze apparenti degli oggetti e formulò le leggi della riflessione. L'ottica di Euclide dominò incontrastata fino al Medioevo, salvo alcuni contributi di Tolomeo e di Eronerelativi soprattutto a nuovi dati sperimentali sul fenomeno della rifrazione. Intorno al Mille, l'arabo Alhazen respinse la tesi di Galeno, di impostazione platonica, in base alla quale la visione era dovuta all'incontro tra la luce proveniente dall'esterno e la luce che, secreta dal cervello, è condotta dal nervo ottico alla retina e da qui all'umore vitreo e al cristallino. Nell'Opticae Thesaurus, Alhazen ripropose l'idea semplice del raggio luminoso, non più considerato, però, veicolo dell'immagine dell'oggetto, bensì di un solo punto di esso. Ogni punto luminoso emette infiniti raggi, ma solo quelli che entrano nel cono avente come base l'oggetto e come vertice l'occhio determinano la visione. Alhazen studiò anche fenomeni connessi con l'uso di camere oscure e l'ingrandimento prodotto da vetri, considerato quest'ultimo come un fenomeno di illusione ottica. I suoi studi furono conosciuti in Occidente attraverso l'opera eclettica di Vitellione (sec. XIII) a cui si ricollega sostanzialmente R. Bacone che intuì la velocità finita della luce. Nel Rinascimento si assistette a un approfondimento dell'indagine sperimentale destinata a incrinare la struttura concettuale delle teorie tradizionali sui fenomeni luminosi, soprattutto a opera di F. Maurolico e G. Della Porta. Questi, nel De Magia, offrì un'esposizione sufficientemente sistematica di vecchi e nuovi esperimenti, tra i quali spiccano l'applicazione della camera oscura all'esecuzione dei disegni e l'analogia della camera oscura con l'occhio per spiegare il meccanismo della visione. Tali studi rendevano sempre più evidente l'inadeguatezza delle vecchie teorie, che confondevano il problema fisiologico della visione con il fenomeno fisico che la produce. L'utilizzazione in astronomia del cannocchiale, a opera di Galilei, contribuì a collegare la necessità di un'ottica più rigorosa al rivolgimento generale che si stava effettuando nella meccanica. Il primo tentativo in tale direzione venne operato da G. Keplero che, nell'opera Ad Vitellionem Paralipomena (1604), effettuò un'ampia rassegna di tutti gli studi di ottica in vista dell'applicazione all'astronomia. Nell'ambito di una teoria geometrica della luce, Keplero attribuì nuova importanza agli studi condotti anche mediante strumenti ausiliari, scoprendo che, nella rifrazione attraverso una sfera diaframmata, a un punto oggetto corrisponde un punto immagine e che un fascio di raggi paralleli converge in un punto, da lui chiamato per la prima volta focus (fuoco) ed elaborando una precisa teoria del cannocchiale. Lo stretto collegamento tra ottica e meccanica venne istituito in maniera sistematica da Cartesio, nell'ambito della sua concezione meccanicistica. Egli tentò di spiegare i vari fenomeni ottici sulla base dell'ipotesi che la luce consista di corpuscoli in rapido movimento lineare; tra l'altro attribuì i colori alle diverse velocità di rotazione della materia che trasmette l'azione della luce. Partendo da questi presupposti Cartesio riuscì a stabilire le leggi della rifrazione, peraltro già scoperte sperimentalmente da W. Snellius, e a dare una spiegazione sufficientemente valida dell'arcobaleno. Le concezioni di Cartesio furono contrastate da P. Fermat, il quale operò un primo tentativo di matematizzazione dell'ottica geometrica, facendo derivare tutte le sue proposizioni, ivi inclusa la legge di Cartesio, dal principio generale secondo cui il raggio luminoso percorre tra due punti il cammino di minimo tempo. Nel frattempo furono scoperti nuovi interessanti fenomeni, quali la diffrazione, a opera di F.M. Grimaldi, e la doppia rifrazione, a opera di E. Bartholin. G.D. Cassini osservò poi certi ritardi negli occultamenti del satellite più interno di Giove che collegò alla sua distanza variabile dalla Terra. O. Römer spiegò poi il fenomeno come dovuto alla velocità finita della luce. Il primo inquadramento teorico generale dei numerosi risultati sperimentali fu fatto da I. Newton a partire da una serie di lavori del 1675 che, fusi e ampliati, formarono il contenuto della famosa Ottica (1704). Newton vi espose la sua teoria corpuscolare o emissionistica di derivazione cartesiana, in base alla quale la luce è costituita da corpuscoli emessi dal corpo luminoso e viaggianti secondo traiettorie rettilinee con velocità dipendente dalla densità del mezzo in cui si muovono. Egli suppose inoltre che il moto dei corpuscoli suscitasse movimenti vibratori nell'etere circostante, tali da rafforzare od ostacolare i raggi luminosi. La concezione corpuscolare di Newton contraddiceva l'ipotesi ondulatoria, esposta per la prima volta in maniera organica da C. Huygens nel Traité de la lumière (1690). Questi sosteneva che la luce consiste nel movimento ondulatorio dell'etere, concepito come una materia elastica che compenetra lo spazio; ogni punto della sorgente luminosa comunica un moto ondulatorio alle particelle dell'etere circostante le quali diventano a loro volta centro di una minuscola onda con piano di oscillazione longitudinale nel senso della propagazione. La possibilità che la luce riuscisse, in questo modo, a percorrere grandi distanze, veniva spiegata da Huygens con il principio dell'inviluppo. La teoria ondulatoria spiegava assai bene la riflessione, la rifrazione e la doppia rifrazione, ma non dava esaurientemente conto della propagazione rettilinea della luce e di altri fenomeni, quali la dispersione e la decomposizione della luce bianca. La teoria corpuscolare rimase così per tutto il sec. XVIII l'unica teoria accettata sulla natura della luce. Solo nel 1801 T. Young, studiando i fenomeni di interferenza, accreditò la teoria ondulatoria, ma solo negli anni 1808-21, con lo studio del complesso problema della polarizzazione delle onde luminose, la controversia si risolse. Le ricerche di E.L. Malus (1808) e D. sir Brewster portarono dapprima ad accreditare la teoria corpuscolare che spiegava il fenomeno della polarizzazione in base all'ipotesi che nella luce naturale le particelle luminose si trovano orientate in tutte le direzioni, mentre nell'attraversare i cristalli birifrangenti e nelle riflessioni esse si orientano in una particolare direzione, cioè si polarizzano. Tuttavia, successivamente A. Fresnel, dopo aver risolto la questione lasciata aperta da Huygens sulla propagazione rettilinea della luce mediante un'opportuna generalizzazione del principio dell'inviluppo, riuscì a spiegare il fenomeno della polarizzazione in base alla teoria ondulatoria individuando il punto debole della teoria di Huygens nella presupposta longitudinalità delle onde luminose; secondo Fresnel, era necessario invece introdurre l'ipotesi della trasversalità di tali onde per spiegare esaurientemente tutti i risultati sperimentali. Contemporanei e in parte successivi all'opera di Fresnel furono i vari tentativi volti alla formulazione dell'ottica in termini matematici, al di fuori di ogni ipotesi sulla natura della luce. Tale lavoro di matematizzazione, iniziato da R.W. sir Hamilton che razionalizzò l'ottica geometrica partendo da un originale principio di minimo, fu condotto a compimento da K.G.J. Jacobi nel 1842. Il successo ormai incontrastato della teoria ondulatoria di Fresnel non frenò le ricerche sperimentali che, attraverso la scoperta di effetti luminosi in fenomeni usualmente considerati di nessun interesse ottico (termometri, pile termoelettriche, bolometri, emulsioni con sali d'argento e, più tardi, gli effetti termoionico e fotoelettrico), resero evidenti i legami tra l'ottica e i vari rami della fisica. Un tentativo di risolvere tale problema fu effettuato dapprima da J.C. Maxwell, che, con la teoria elettromagnetica della luce, ricondusse la trattazione dell'ottica nell'ambito dell'elettromagnetismo. Questa soluzione del problema era solo parziale: anche la materia, le particelle elementari (elettroni, protoni, neutroni ecc.) in opportune condizioni sperimentali presentavano, infatti, un comportamento identico a quello della luce, dando origine a fenomeni di diffrazione, riflessione, rifrazione, interferenza. D'altro canto, il problema dell'esistenza dell'etere, divenuto sempre più importante a seguito dei tentativi operati per superare le “dissimmetrie” riscontrate tra l'elettromagnetismo maxwelliano, che presupponeva per le onde un etere rigido, e la meccanica newtoniana, che richiedeva un etere fluido, spinse A.A. Michelson ed E.W. Morley nel 1886 a compiere una famosa esperienza, poi spiegata con l'abolizione del concetto di etere. Gli sforzi di H.A. Lorentz e di altri fisici dell'epoca furono, infatti, indirizzati a superare i risultati paradossali dell'esperienza, spiegando con opportune ipotesi fisiche sulla struttura della materia l'impossibilità di accertare sperimentalmente l'esistenza dell'etere. Una radicale modifica delle concezioni tradizionali si ebbe, infine, con la teoria della relatività di A. Einstein (1905) che eliminò l'ipotesi dell'etere, attribuendo alla velocità della luce il valore di una costante universale. Inoltre, ricollegandosi ai concetti sviluppati da M. Planck, Einstein introdusse l'ipotesi in base alla quale le radiazioni elettromagnetiche sono emesse e assorbite non sotto forma di onde continue bensì in “pacchetti” di energia, i quanti di luce o fotoni. In effetti, in base alle esperienze e agli studi sviluppati nell'ambito della meccanica quantistica a opera soprattutto di L.V. de Broglie e di E. Schrödinger, si è giunti all'unificazione delle due opposte teorie ondulatoria e corpuscolare: è errato attribuire alla radiazione elettromagnetica solo l'aspetto ondulatorio o quello corpuscolare, ma entrambi possono manifestarsi in diverse condizioni "Per approfondire vedi Gedea Astronomia vol 1 pp 114-117" "Per approfondire Vedi Gedea Astronomia vol. 1 pp 114-117" .
La velocità della luce
Ritenuta per molti secoli infinita, la prima misura della velocità della luce fu tentata da G. Galilei, che, non disponendo di apparati sperimentali adeguati, non fu in grado di pervenire a un risultato. La questione rimase indecisa sino a quando O. Römer (1676), osservando le eclissi del satellite più interno di Giove, "Vedi figura 1 vol. XIII, pag. 514" "Per la figura 1 vedi il lemma del 12° volume." spiegò le irregolarità osservate come dipendenti dalla velocità finita della luce e J. Bradley (1726), nel tentativo di misurare la parallasse di alcune stelle, scoprì il fenomeno dell'aberrazione. La prima determinazione accurata della velocità della luce fu eseguita nel 1849 da A.H.L. Fizeau con il metodo della ruota dentata "Vedi figura 2 vol. XIII, pag. 514" , ripresa nel 1873 da A. Cornu, nel 1882 da J. Young ed E. Forbes e, successivamente (1928), da A. Karolus e O. Mittelstaedt che posero al posto della ruota dentata una cellula di Kerr. Questi metodi non consentono però la misura della velocità della luce nei vari mezzi. Fizeau e J.-L. Foucault, dapprima, poi il solo Foucault, riuscirono, nel 1850, servendosi di specchi rotanti, "Vedi figura 3 vol. XIII, pag. 514" "Per la figura 3 vedi il lemma del 12° volume." a ottenere risultati che accertavano che la velocità della luce nell'acqua era pari ai tre quarti della stessa in aria. Altre misure, con metodo analogo, furono effettuate da S. Newcomb nel 1881-82, da A.A. Michelson in una serie di esperimenti condotti in due successivi periodi (1878-82 e 1924-26) e da W.C. Anderson nel 1937. Dall'esame critico dei risultati ottenuti con i vari metodi è scaturita la media, accolta nel 1962, che dà per la velocità della luce nel vuoto il valore di 299.792,5±0,3 km/s; valore che si approssima normalmente uguale a 3 · 105 km/s "Per approfondire Vedi Gedea Astronomia vol. 2 pp 194-197" "Per approfondire Vedi Gedea Astronomia vol. 2 pp 194-197" .
Violazioni apparenti alla costanza della velocità della luce
Nell'ambito della teoria della relatività ristretta, la velocità della luce è ritenuta costante nel senso che qualsiasi segnale elettromagnetico deve propagarsi a velocità costante, la velocità della luce, appunto. Nessun segnale, di qualsiasi tipo, inoltre, può propagarsi a velocità superiore, pena l'insorgere di gravissimi paradossi logici. Ciò vale come premessa all'interpretazione di qualsiasi esperimento nel quale si osservino pretese violazioni del principio. Verso la metà dell'anno 2000 due distinti gruppi di ricercatori, uno italiano (dell'Istituto di Ricerca sulle Onde Elettromagnetiche del CNR di Firenze) e uno statunitense (dell'Istituto di Ricerca NEC di Princeton) hanno ottenuto risultati in cui la velocità della luce non sembrerebbe un limite invalicabile. In particolare, gli esperimenti condotti dal gruppo italiano hanno messo in evidenza una velocità di circa 375.000 chilometri al secondo, ben oltre il limite della velocità della luce. Tuttavia, in ogni caso le onde elettromagnetiche che compongono il segnale con il quale viene trasmessa l'informazione continuano a rispettare la velocità della luce, mentre ciò che va al di là dei 300.000 km al secondo è la velocità di gruppo. Praticamente a oltrepassare la velocità della luce è soltanto una frazione di onde elettromagnetiche, un pacchetto d'onde di determinata velocità di fase, non il segnale nella sua globalità. Questa precisazione risulta fondamentale nel caso in cui si immagini uno scenario in cui si tenti di inviare messaggi a velocità superluminali, oppure ottenere inversioni temporali: modificando il rapporto causa-effetto. Altre presunte violazioni al principio della costanza della propagazione dei segnali luminosi si erano peraltro già avuti negli anni Ottanta-Novanta del sec. XX R. Chiao dell'Università di Berkeley aveva dimostrato che in speciali circostanze i fotoni possono attraversare due punti separati da una barriera in un tempo praticamente uguale a zero. Questo processo conosciuto col nome di "effetto tunnel quantistico" viene normalmente sfruttato dagli elettroni per attraversare le barriere di potenziale nelle giunzioni dei diodi Zener e dei semiconduttori. Tuttavia, essendo l'effetto tunnel un effetto probabilistico, non è possibile conoscere a priori quanti e quali particelle sfrutteranno questo effetto. Perciò non risulta possibile mandare nessuna informazione utile in questo modo. In effetti, nell'ambito della meccanica quantistica, tutte le situazioni che prevedono il coinvolgimento di sistemi non locali, implicano azioni a velocità superiore a quella della luce. In questo senso vanno intesi anche gli esperimenti, effettuati tra la fine del sec. XX e i primi anni del sec. XXI, descritti in termini di "rallentamento della velocità della luce". Tra questi, sono notevoli quelli della scienziata danese L. Vastgaard Hau, che nel 2001 è riuscita a rallentare la luce alla velocità di 60 km/s e a intrappolarla in un gas a bassissima temperatura. Nel 2003, poi, un gruppo dell'università di Rochester, negli Stati Uniti, ha ridotto la velocità della luce a 91 m/s a temperatura ambiente all'interno di un cristallo. Lo stesso gruppo è riuscito a far viaggiare un impulso laser a una velocità maggiore della velocità della luce nel vuoto. Tutte queste esperienze sono legate allo sviluppo di computer quantistici, nei quali immagazzinare con sicurezza e affidabilità quantità di dati di enormi proporzioni. Gli esperimenti hanno anche potenziali applicazioni nelle telecomunicazioni per la trasmissione di grandi moli di dati a grandissima velocità in condizioni di sicurezza e inviolabilità.
L. De Broglie, Matière et lumière, Parigi, 1950; V. Ronchi, Storia della luce, Bologna, 1952; M. Born, E. Wolf, Principles of Optics, Londra, 1959; R. W. Ditchburn, Light, Glasgow, 1963; F. W. Sears, Ottica, Milano, 1965; F. S. Crawford, Waves, New York, 1968; M. Alonso, E. Finn, Campi e onde, Londra, 1969; G. Bruhat, A. Kastler, Lumière, Parigi, 1970; H. H. Holz, Strutture della visualità, Milano, 1984.