Generalità

(Socijalistička Federativna Republika Jugoslavija). Fino al 1991 la Iugoslavia si presentava come lo Stato dell'Europa meridionale più esteso e popoloso della Penisola Balcanica, affacciato a W al Mar Adriatico e confinante con l'Italia e con l'Austria a NW, l'Ungheria a N, la Romania e la Bulgaria a E, la Grecia a SE e l'Albania a S. Nata come Stato monarchico alla fine della prima guerra mondiale, la Iugoslavia risultò composta dagli ex regni di Serbia e di Montenegro, dal territorio austro-ungarico della Bosnia e dell'Erzegovina, dalla Slovenia e dalla Dalmazia appartenenti alla casa d'Austria, dalla Croazia, dalla Slavonia, dalla Vojvodina e dal territorio della Mur, possesso della corona d'Ungheria, e infine dai distretti di Caribrod, Strumica e Bosiljgrad, tolti alla Bulgaria. Alla conclusione della seconda guerra mondiale, durante il quale il Paese si era smembrato, la Iugoslavia risorse come repubblica assumendo una struttura federativa ed estendendo il suo territorio ai danni dell'Italia, costretta a cederle Zara, alcune isole della Dalmazia, parte dell'Istria e della Venezia Giulia; solo nel 1975 è stata risolta la questione del Territorio di Trieste. La caratteristica fondamentale della Iugoslavia era il suo pluralismo etnico, culturale e geografico, tipica espressione balcanica di una regione frammentata, rimasta a lungo politicamente divisa e instabile. Le rinascenti tendenze centrifughe delle diverse componenti nazionali, le rivendicazioni territoriali di alcuni Stati finitimi, specialmente della Bulgaria (sulla Macedonia) e dell'Albania (su parte del Montenegro e del Kosovo) insieme con la scomparsa (1990) della Lega dei Comunisti (principale leva unificante) e la richiesta di trasformare la Federazione in un'unione di Stati sovrani (Croazia, Slovenia nel 1991, Bosnia ed Erzegovinael 1992 e Macedonia nel 1993 sono diventate Repubbliche indipendenti) hanno causato la disgregazione e la crisi del sistema istituzionale.

Lo Stato

L'assetto statuale della Iugoslavia era quello di una Repubblica federale di tipo socialista, composta dalle 6 seguenti repubbliche federate: Slovenia, Croazia (che oltre alla Croazia vera e propria comprendeva l'Istria meridionale, la Dalmazia e buona parte della Slavonia), Bosnia-Erzegovina, Serbia (nella quale erano comprese le due unità amministrative autonome del Kosovo e della Vojvodina), Montenegro, Macedonia; ogni repubblica aveva un'assemblea legislativa e governi propri ed era amministrativamente suddivisa in province . La Iugoslavia aveva una superficie di 255.804 km² e una popolazione di 23.690.000 (stima 1989); capitale federale era Belgrado. In base alla Costituzione, entrata in vigore il 21 febbraio 1974 si stabiliva il principio della revocabilità di tutti gli eletti; il potere legislativo era demandato all'Assemblea federale composta dal Consiglio federale e dal Consiglio delle Repubbliche, formato dai rappresentanti delle repubbliche federate e delle regioni autonome; nel 1980 la carica di capo dello Stato fu sostituita da una presidenza collegiale della Federazione, eletta dall'Assemblea federale e composta dal presidente della Lega dei Comunisti e da 8 membri in rappresentanza delle repubbliche federate e delle regioni autonome. L'esercizio del potere esecutivo veniva affidato al Consiglio Esecutivo Federale. Lingue nazionali erano il serbo e il macedone (scritti con alfabeto cirillico), il croato e lo sloveno (scritti con alfabeto latino); le religioni, la cristiana (ortodossi e cattolici) seguita dall'islamica.

Geografia umana

Il termine “Iugoslavi” significa letteralmente Slavi meridionali e comparve solo a partire dal sec. XVIII per designare le popolazioni slave insediatesi fin dal sec. III nel Paese che già aveva ospitato un'originale civiltà neolitica fondata su una ben sviluppata agricoltura e, successivamente, era stato dominato dagli Illiri e dai Romani, i quali con strade, porti e città avevano mirabilmente inserito il territorio nelle strutture imperiali. Sull'immigrazione slava, che non interessò tutto il Paese (non giunse in particolare nelle zone montane più aspre del Montenegro) e non riuscì, anche per la frammentazione morfologica, a creare un'unità nazionale, l'avvento della civiltà cristiano-bizantina lasciò un'impronta duratura. Il popolamento slavo, il cui asse fondamentale fu sempre la pianura del Danubio, fu soggetto negli ultimi secoli a mutamenti di notevole rilievo, come l'invasione turca dal sec. XIV in poi, che per un certo periodo si estese su quasi tutto il territorio, condizionando gli spostamenti degli Slavi verso N e il consolidamento delle frontiere settentrionali con i popoli germanico, magiaro e romeno. La prima nazionalità a raggiungere l'autonomia fu la Serbia, intorno alla quale si costituì progressivamente lo Stato iugoslavo. Dal 1921 fino al momento della sua disgregazione (1992), il Paese ebbe un notevole incremento demografico: i 12,1 milioni di abitanti diventarono oltre 23 milioni (1989). L'incremento annuo fu in media dell'1,8%, ma negli ultimi anni diminuì (nel 1990 si aggirava intorno allo 0,6%).

Economia: generalità

La Iugoslavia dal secondo dopoguerra alla fine degli anni Ottanta, allorché si espressero pienamente le tendenze autonomistiche e la volontà di sviluppare istituzioni liberali da parte degli Stati federati, fu caratterizzata dal tentativo di realizzare un'economia socialista di mercato efficiente, che ricorrendo a forme di autogestione delle aziende l'avrebbe resa una realtà intermedia fra i due principali sistemi economici in corrispondenza di una posizione politica di non allineamento: protagonista dagli anni Cinquanta di un notevole sviluppo, essa dalla fine degli anni Settanta mostrò però profondi segni di crisi che ne minarono il funzionamento fino a farne prevedere l'abbandono (1991-92) a favore di un sistema di mercato capitalistico contemporaneamente alla disgregazione delle vigenti strutture politico-amministrative. Uscita dal secondo conflitto mondiale in condizioni particolarmente disastrose, dato che a una situazione di cronico sottosviluppo si aggiungevano gli enormi danni causati dalla guerra, la Iugoslavia diede subito avvio a radicali riforme economiche. Il Paese aveva sino ad allora basato le proprie risorse eminentemente sull'agricoltura, settore che occupava ben l'80% della popolazione attiva e che aveva comunque caratteristiche di generale arretratezza; le risorse minerarie non erano mai state adeguatamente sfruttate (o, quando ciò si era verificato, ne avevano unicamente tratto vantaggio altri Paesi, come la Germania o l'Austria); l'industria pesante era praticamente assente e quella manifatturiera si trovava ancora a un livello molto modesto. La riforma agraria del 1945-46 portò all'eliminazione del latifondo e all'istituzione sia di fattorie collettive sia soprattutto di cooperative agricole; furono nazionalizzate le industrie, intensificate le ricerche minerarie, varato il primo piano quinquennale 1947-51, che seguiva rigidamente gli schemi della pianificazione sovietica e sulla base del quale nelle zone minerarie fu dato avvio all'industria pesante (fu tra l'altro creato il complesso di Zenica, in Bosnia, massimo centro siderurgico iugoslavo). Nel 1948 avvenne la completa rottura con l'Unione Sovietica, ma la Iugoslavia mantenne ancora per alcuni anni un regime politico-economico fortemente centralizzato; tuttavia gli insuccessi provocati dalla pianificazione rigida diedero luogo a successivi cambiamenti in politica economica secondo un processo basato sul decentramento dei poteri e sull'autogestione dei lavoratori. In particolare la riforma economica del 1965 conferì alle imprese industriali un pressoché assoluto potere decisionale, il che – tra l'altro – portò a una rapida fioritura delle industrie manifatturiere a detrimento dell'industria di base e di conseguenza all'ampliamento del mercato dei beni di consumo. Nell'intento governativo, la Iugoslavia doveva sperimentare una forma di organizzazione economica nuova, diversa sia dal capitalismo dei Paesi occidentali sia dal “capitalismo di Stato” dei Paesi comunisti e in grado di conciliare le esigenze dell'economia produttivistica con le istanze sociali proprie dell'ideologia socialista. Il decentramento economico e la flessibilità nelle scelte si inquadravano in un non meno fondamentale decentramento politico. Alle sei repubbliche, dalle quali era formato lo Stato federato iugoslavo, veniva infatti lasciato un vasto ambito di autonomia decisionale, in quanto il potere centrale si riservava il compito di fondere in un'unica struttura organica le singole economie regionali; gli stessi piani quinquennali di sviluppo tendevano ad adeguarsi alla realtà economica più che a determinarla. Questa concezione coraggiosa e originalissima dell'evoluzione dell'apparato produttivo verso un'economia socialista aperta non mancava però di elementi fortemente negativi. Tra le istanze sociali e le spinte all'accrescimento dei profitti in un regime di ampio liberalismo erano in realtà queste ultime a prevalere: le aziende iugoslave avevano organizzazione e interessi di tipo nettamente capitalistico, anche se non avevano più un padrone; erano cioè in mano a manager e tecnocrati. Ciò naturalmente portava a un'accentuazione di quegli squilibri di cui la Iugoslavia aveva sempre sofferto, squilibri dovuti alle diverse condizioni in cui, come eredità di due diverse dominazioni, si trovavavano il Sud e il Nord del Paese. Inevitabili diventavano pertanto le disparità di sviluppo sia da azienda ad azienda (le imprese dovevano anche autofinanziarsi e naturalmente ciò era possibile solo ai complessi più efficienti, che non risentivano come gli altri della mancanza di liquidità e manifestavano spesso la tendenza a perseguire una propria politica economica, per lo più svincolata dagli indirizzi della pianificazione centrale) sia tra i vari settori produttivi, poiché l'industria risultava nettamente privilegiata dalla complessa espansione dell'apparato economico, divenendo la struttura portante dell'economia iugoslava. Si accentuavano anche gli squilibri da repubblica a repubblica: veniva meno, infatti, l'aiuto del governo, che da tempo aveva sostenuto le economie delle repubbliche meno sviluppate (come la Bosnia-Erzegovina, la Macedonia e il Montenegro, nonché la provincia autonoma del Kosovo), aiuto che peraltro si era rivelato del tutto negativo ai fini di un reale incremento produttivo del Paese. A partire dalla metà degli anni Settanta la sfavorevole congiuntura mondiale si sovrapponeva ai ritardi e alle sfasature da tempo accumulate; in particolare le aperture liberiste e l'inserimento della Iugoslavia nel sistema produttivo internazionale, soprattutto europeo, avevano determinato pesanti deficit della bilancia commerciale e forti tendenze inflazionistiche, per non parlare delle continue spinte centrifughe, separatiste, innescate dal nazionalismo nelle repubbliche più ricche come la Slovenia, la Croazia e la Serbia. Dopo aver realizzato negli anni Sessanta e Settanta incrementi annui del reddito nazionale pari o superiori al 5% e per l'industria addirittura dell'8-9%, l'economia iugoslava conosceva negli anni Ottanta una sostanziale stagnazione, tradottasi anzi in un moderato arretramento della quota di reddito pro capite (nel 1989 meno di 2500 dollari). Parallelamente a una notevole crescita del deficit commerciale, dell'indebitamento estero e della conflittualità sociale, il livello di vita della popolazione subiva un ulteriore peggioramento, dovuto alla ripetuta adozione di politiche d'austerità e di tagli salariali, da varie svalutazioni e dal fenomeno dell'iperinflazione (media del 67% annuo fra 1980 e 1988, ma ben 2685% nel 1989, con conseguente riforma monetaria), nonché quindi da livelli crescenti di disoccupazione. La situazione di crescente disagio economico andava così a esasperare le spinte indipendentistiche che portavano al crollo del regime e alla dissoluzione della Repubblica socialista di Iugoslavia.

Storia: dalle origini alla seconda guerra mondiale

Solo nel 1918 fu creato uno Stato iugoslavo; ma la vita politica degli Slavi del Sud era iniziata molti secoli prima, quando Croati, Sloveni, Serbi discesero dalle pianure dell'Europa orientale tra il sec. VI e il VII (prima gli Sloveni, un po' più tardi i Croati e i Serbi). Gli Sloveni occuparono l'alta valle della Sava e i territori circostanti; accolsero la Riforma protestante finché (sec. XVII) i cattolici non ripresero il sopravvento; rimasero fedeli alla loro lingua e attraverso la letteratura giunsero a una chiara idea di “nazione”, pur accettando di buon grado il dominio austriaco. Più energico fu l'atteggiamento dei Croati, per secoli sottomessi agli Ungheresi e sempre ansiosi di affrancarsi da quel giogo. E proprio dalla Croazia partì l'opera efficace e illuminata del vescovo Strossmajer (1815-1905), assertore dell'unità degli Slavi del Sud. Più intensa ancora l'azione politica dei Serbi, già costituiti in un potente regno nel sec. XIV e piegati poi nel Cossovo dagli invasori ottomani (1389). Soggiogati dai Turchi, i Serbi furono sudditi riottosi, emigrando in parte nella Vojvodina ungherese e profittando d'ogni occasione per ribellarsi. Il regno di Serbia, fondato finalmente nel 1878, diveniva il centro di raccolta di tutti i nazionalismi degli Slavi del Sud; e solo il contrasto della sua fede “ortodossa” col cattolicesimo croato e sloveno pareva d'ostacolo alla fusione dei tre popoli. L'assassinio di Francesco Ferdinando a Sarajevo (28 giugno 1914) troncava la speranza di Croati e Sloveni d'essere equiparati ai Tedeschi d'Austria e ai Magiari d'Ungheria. La grande guerra divideva e allontanava gli Iugoslavi della Serbia da quelli dell'Impero austro-ungarico; ma il governo di Belgrado dichiarava (7 dicembre 1914) di voler combattere per l'unificazione dei tre popoli, mentre un Comitato londinese di emigrati iugoslavi, sudditi della monarchia danubiana, si organizzava con le stesse intenzioni (maggio 1915). Già alla fine dell'ottobre 1918 Croati e Sloveni negavano ubbidienza alla crollante monarchia e finalmente il 1º dicembre 1918 si costituiva il regno serbo-croato-sloveno, con la chiamata al trono di Pietro Karađorđević, vecchio e malato, sostituito nelle sue funzioni dal principe reggente Alessandro (poi re dal 1921). Il primo decennio del nuovo regno fu, dal punto di vista economico, brillante ma politicamente agitato: la lotta tra i due grandi partiti storici serbi, il liberale e il democratico, era complicata dal malcontento di Croati e Sloveni per una Costituzione (1921) centralista, che affermava la supremazia dell'elemento serbo e non tutelava le loro esigenze. Il radicale N. Pašić non era riuscito a pacificare il Paese; ma il suo rivale, il croato S. Radić, l'aveva combattuto senza avanzare proposte costruttive. Mentre la tensione continuava ad aumentare, la stessa Skupština (Parlamento) era teatro di fatti di sangue (1928) e le manifestazioni antiserbe si facevano più frequenti; re Alessandro, approfittando della pressoché totale paralisi governativa, abrogò la Costituzione, sciolse la Skupština e assunse i pieni poteri (1929). Il gesto del re trovò molti consensi; ma l'orizzonte politico del Paese non ebbe che una breve schiarita. Alessandro accentuò il centralismo tentando contemporaneamente di sviluppare un “patriottismo iugoslavo” (infatti dal 1929 il regno si chiamò “di Iugoslavia”), ma senza successo: i Serbi infatti non rinunciarono alle idee centralistiche e i Croati, fedeli alle loro mire d'autonomia, subirono una repressione sempre più dura. Italia e Ungheria sostennero segretamente i dissidenti, cosicché ogni opposizione politica poté apparire alto tradimento. Anche la crisi economica mondiale si ripercosse sulla Iugoslavia (1931-33) con tristissimi effetti. L'infelice esperimento della dittatura regia, culminata nella promulgazione (1931) di una Costituzione democratica nelle parole più che nei fatti, si concluse nell'ottobre 1934, quando re Alessandro fu assassinato a Marsiglia da terroristi croati. Gli succedeva il giovane Pietro II, assistito da un consiglio di reggenza in cui dominava la figura del principe Pavel, cugino del re morto. Le elezioni del 1935 diedero al governo un'incerta maggioranza; l'opposizione ricusò di prender parte ai lavori della Skupština e la situazione si fece grave. Allora il principe Pavel aderì alla richiesta croata di una Iugoslavia federale e chiamò al governo il giovane radicale M. Stojadinović. La politica estera della monarchia aveva già attraversato momenti difficili come quando la Iugoslavia si era trovata isolata di fronte all'ostilità aperta d'Italia, Ungheria e Bulgaria, mentre i rapporti con la Francia apparivano meno cordiali di un tempo. Ma nel 1934 a re Alessandro era riuscito di stringere accordi con la Bulgaria e gli altri Stati balcanici, di rafforzare la “Piccola Intesa” (Iugoslavia, Romania e Cecoslovacchia) e persino di trovare qualche punto d'intesa con la Germania nazista. L'avvento di Stojadinović (1935) spostò invece la politica estera iugoslava verso la Germania e l'Italia; sopravviveva l'alleanza bulgara, ma gli ideali della “Piccola Intesa” sembravano tramontare. Le dimissioni di Stojadinović, portando al governo D. Cvetković, spinsero la Iugoslavia su posizioni ancora più marcatamente filofasciste. Nell'agosto 1939 uno speciale “accordo” concedeva alla Croazia uno statuto d'autonomia, anche per colpire il separatismo di certi ambienti e tener lontano ogni intervento nazista o fascista. Ma gli avvenimenti precipitavano: la seconda guerra mondiale era iniziata e aveva posto la Iugoslavia di fronte a una scelta decisiva. Il principe Pavel e alcuni ministri si piegarono alle pretese di Hitler, ma un colpo di Stato (26 marzo 1941) li rovesciò e la popolazione fu pressoché unanime nell'approvarlo. L'occupazione della Iugoslavia da parte delle forze dell'Asse divenne inevitabile (aprile 1941). E, con l'occupazione, venne la spartizione. Ai Croati furono date, con la Croazia, la Bosnia e l'Erzegovina: il tutto costituito in un regno destinato al duca di Spoleto (che non vi si recò mai) e governato intanto dagli ustascia di Ante Pavelič, aiutato e finanziato dall'Italia. La Slovenia fu divisa tra Italiani e Tedeschi; i Bulgari ebbero la Macedonia, gli Ungheresi tre province danubiane. I Serbi, sui quali infierivano, con i Tedeschi, tutti i nemici tradizionali (Croati, Magiari, Bulgari, Albanesi), erano in condizioni disperate; ma proprio di qui nasceva la prima insurrezione antitedesca (giugno 1941), promossa dai comunisti di Josip Broz (Tito). Animatore della Resistenza in varie parti del Paese, egli dovette però lottare non solo con le forze dell'Asse, gli ustascia implacabili nell'odio antiserbo e i cetnici, collaboratori dei Tedeschi, ma anche con altri cetnici che, guidati da D. Mihajlović, conducevano la guerriglia contro i Tedeschi in nome della monarchia, della fede ortodossa e della patria serba. Con questi ultimi cetnici, che avevano l'appoggio delle democrazie occidentali e dell'URSS, Tito cercò a lungo l'accordo; poi i rapporti si guastarono sino a che egli riuscì a conquistare la fiducia dei governi alleati. Nel 1943 le offensive tedesche e italiane inflissero gravi perdite al movimento partigiano nel quale dopo l'8 settembre entrarono anche gruppi di partigiani italiani. Da quel momento l'azione partigiana si fece più continua ed efficiente, attuando nella primavera del 1945 la liberazione dell'intera Iugoslavia. Il Partito comunista, l'unico che avesse un'organizzazione e un vero capo, poté, attraverso la costituzione di un Fronte Popolare, ottenere sin dalle prime elezioni un'importante maggioranza. La monarchia e i vecchi partiti erano ormai esautorati.

Storia: dall'ascesa di Tito allo scioglimento della Federazione iugoslava

La Costituzione del 1946 stabiliva che, abolita la monarchia, la Iugoslavia avesse un ordinamento federale, con 6 repubbliche (Serbia, Croazia, Slovenia, Macedonia, Montenegro, Bosnia ed Erzegovina, alle cui voci si rinvia per il rispettivo quadro storico), fornite di una limitata autonomia . I mezzi di produzione furono statalizzati; la proprietà privata fu assoggettata a precise limitazioni; il potere economico-politico delle Chiese venne smantellato. Dapprima inserita nell'orbita dell'URSS, la Iugoslavia si pose presto in posizione critica impostando un programma di autonomia politica ed economica che Tito riuscì a sostenere grazie all'appoggio del Paese. A questa impostazione seguì l'urto con l'URSS che accusò Tito di “nazionalismo” e “deviazionismo”; ma la scomunica russa non indebolì Tito che da allora poté contare sugli aiuti economici dell'Occidente. Più tardi (1955) Chruščëv volle la riconciliazione; ma solo nel 1962 i rapporti tornarono normali. A ogni modo Tito, assertore del non-intervento sovietico all'interno dei Paesi comunisti (come dimostrò nella crisi cecoslovacca del 1968), continuò a rappresentare nell'Est europeo una posizione di critica e d'indipendenza ideologica. La ricerca di una “via iugoslava al socialismo” e il contrasto fra le repubbliche “povere” (Montenegro, Macedonia, Bosnia), favorevoli al centralismo, e le repubbliche “ricche” (Croazia, Slovenia), propense a una semindipendenza se non a una secessione, due principali problemi interni della Iugoslavia fino alla crisi degli anni Novanta. Il programma seguito da Tito, pur attraverso contrasti non indifferenti, prevedeva una graduale liberalizzazione economica, crescita dell'autogestione dei lavoratori e decentramento territoriale; questo problema in particolare venne affrontato con una nuova Costituzione (1963), completata da successivi emendamenti (1967, 1968 e 1971). Gli emendamenti del 1971 concedevano un'ampia autonomia alle singole repubbliche alle quali erano riconosciuti attributi sovrani e proprie Costituzioni. Questi cambiamenti non si svolsero senza disordini, scontri cruenti, severe sconfessioni delle ali estreme che minacciarono la compattezza della Lega dei Comunisti iugoslavi e bruschi interventi di Tito e dei suoi collaboratori che affermavano con ciò di voler salvaguardare i programmi dell'esperienza iugoslava da forme di deviazionismo. Nel 1974 entrò in vigore una nuova Costituzione che affrontava globalmente questi problemi e ribadiva il ruolo di guida della Lega dei Comunisti iugoslavi. In politica estera, Tito ottenne nel 1954 la pacificazione con l'Italia di cui, a guerra finita, aveva rivendicato importanti territori (Istria, con la conseguente formazione del Territorio Libero di Trieste; Zara e zone linguisticamente slovene), appianò le controversie con la Santa Sede (1970), si assicurò l'appoggio della Romania di Ceausescu, mantenendo sempre una posizione intermedia tra Oriente e Occidente europeo. La definitiva liquidazione delle pendenze con l'Italia avvenne però solo nel 1975 con gli accordi di Osimo, che sancivano l'appartenenza alla Iugoslavia della Zona B dell'ex Territorio Libero di Trieste. I rapporti della Iugoslavia con i Paesi vicini complessivamente migliorarono, salvo quelli con l'Albania a causa dei ripetuti incidenti verificatisi nella regione del Kosovo, relativi alla minoranza albanese. Dopo la morte di Tito (1980) fu applicato il criterio della presidenza collettiva formata dal presidente della Lega dei Comunisti e dai rappresentanti delle sei repubbliche federate e delle due regioni autonome i quali, a rotazione e per un anno, si sarebbero succeduti nella carica di presidente effettivo. Nel complesso la leadership del dopo-Tito manifestò la tendenza a continuare la politica del non-allineamento iugoslavo e del mantenimento delle buone relazioni con l'Occidente. Queste ultime in particolare conoscevano progressi in campo commerciale, attraverso una serie di accordi preferenziali con la CEE, inaugurati fin dal 1980. All'interno della Iugoslavia emergevano però in forma sempre più palese le difficoltà economiche che già si erano manifestate nella seconda metà degli anni Settanta. La crisi, aggravandosi, allentava dunque i legami di solidarietà fra le repubbliche, alimentando i mai sopiti nazionalismi in un contesto di stimoli alla revisione istituzionale forniti anche dall'eco della perestrojka sovietica. Il malcontento popolare si risolveva quindi nelle più produttive repubbliche del Nord, e principalmente in Slovenia, nella volontà di sottrarsi agli oneri dettati da un principio di corresponsabilità economica non riconosciuto rispetto alla crescita dell'indebitamento federale, proprio mentre tale sentimento si saldava alla protesta dei rappresentanti di base del partito contro la riduzione dell'autonomia dei Comitati centrali repubblicani, prospettata dagli organi centrali di vertice (1986). In contrapposizione, Slobodan Milošević, eletto alla guida del partito in Serbia dal 1987, riusciva a convogliare il malumore del resto del Paese contro i “privilegi delle repubbliche ricche” e quello serbo in particolare contro le regioni autonome interne del Kosovo e della Vojvodina, promuovendo uno schieramento conservatore, favorevole a un accentuato centralismo, basato sul forte sentimento nazionale serbo e sul riconoscimento dell'esercito quale garante dell'unità della federazione (autunno 1987). Tutto il quinquennio seguente fu scandito dall'evolversi di tale contrapposizione, prima attraverso le riforme in senso nazionalistico delle carte costituzionali delle tre repubbliche (marzo-dicembre 1989) e la contestuale affermazione del diritto alla secessione da parte di Slovenia e Croazia (nel 1990 confortate in tal senso dalle prime elezioni multipartitiche e da referendum), quindi nell'esito finale della dichiarazione d'indipendenza di queste ultime (dopo alcuni mesi di sospensione, considerata effettiva dall'ottobre 1991), osteggiata in due riprese dall'intervento dell'esercito, egemonizzato da comandi serbi. Malgrado l'intervento della CEE sul piano diplomatico, dopo il teso ma quasi indolore superamento della questione slovena (risolta in atti testimonianti l'acquisizione della piena sovranità), la situazione in Croazia dal settembre 1991 degenerava in una sorta di guerra civile non riconosciuta che vedeva contrapporsi alla guardia territoriale locale le truppe federali e i gruppi paramilitari della minoranza serba della Slavonia. Il conflitto si sviluppava particolarmente feroce, nonostante i tentativi di pace della CEE e dell'ONU, con ripetute violazioni alle tregue concordate, lasciando sul terreno migliaia di vittime, distruggendo intere città e danneggiando gravemente la stessa Ragusa (Dubrovnik). Nel marzo 1992 diminuiva la tensione in territorio croato anche per l'effetto della proclamazione di indipendenza di un'altra Repubblica, la Bosnia-Erzegovina, a maggioranza relativa musulmana ma con una forte minoranza serba (30%). Mentre in Bosnia-Erzegovina si ripeteva la dinamica bellica che aveva investito la Croazia, con il tragico rituale di massacri, di città bombardate e delle numerose tregue violate, la Serbia dava vita con il Montenegro (la Macedonia, sebbene non riconosciuta dagli organismi internazionali, aveva proclamato sin dal 1991 l'indipendenza) a una nuova Repubblica Federale di Iugoslavia (27 aprile 1992).

Danza e balletto

I primi tentativi di introdurre il balletto in Iugoslavia risalgono allo scorcio del sec. XIX, soprattutto a opera di S. Miletić a Zagabria, ma soltanto dopo il 1918, in seguito all'unificazione del Paese, un'attività coreica accademica si sviluppò rapidamente grazie anche agli apporti di artisti provenienti dalla compagnia di Djagilev. Belgrado, Zagabria e Lubiana diventarono vivi centri dell'arte ballettistica, esaltata dall'opera dei fratelli di origine russa, ma attivi in Iugoslavia dal 1921, Margaret e Maximilian Froman (su coreografia della prima è il capolavoro del balletto nazionale iugoslavo Cuore all'incanto, 1924), di Harmos (attivo a Spalato), di Ana Roje e, ancora, di Trninić, Parlić, Pia e Pino Mlakar, M. Sparenblek, Mia Čorak (Mia Slavenka) e Milorad Miskovič (ballerino e coreografo molto noto in Francia e in Italia). Da ricordare inoltre i complessi di Stato (come il Kolo e il Lado), numerosi e attivissimi prima della disgregazione della Federazione iugoslava, con un ricco repertorio di danze popolari.

Spettacolo

Resti di teatri romani documentano la fortuna dello spettacolo classico. Dopo l'eclisse dell'alto Medioevo, si svilupparono anche qui il dramma liturgico in latino e i misteri nelle varie lingue nazionali; nel Seicento il dramma gesuitico, nel Settecento compagnie straniere in tournée. Ma si trattò di manifestazioni sporadiche. La situazione cambiò solo nel sec. XIX: in Serbia la prima compagnia professionale fu costituita da Joakim Vujic a Novi Sad nel 1838, mentre il Teatro nazionale serbo si aprì a Belgrado nel 1869, preceduto da un Teatro nazionale croato a Zagabria nel 1861 e seguito da un Teatro nazionale sloveno a Lubiana nel 1892. Gli anni tra le due guerre videro spettacoli notevoli, ma l'attività era ostacolata dalla politica d'accentramento della monarchia e da una severa censura. Grande sviluppo ebbe invece il teatro dopo il 1945 e agli inizi degli anni Settanta si contavano 56 teatri con complessi stabili, dieci dei quali con compagnie d'opera e balletto. Alle tre istituzioni nazionali si aggiunsero nelle maggiori città, sale specializzate nella commedia e teatri sperimentali. Esistevano inoltre teatri in macedone, in ungherese, in italiano, in albanese, in montenegrino e in turco. Due i festival importanti, quello di Dubrovnik (Ragusa), che fino all'indipendenza della Croazia ospitarono il meglio della produzione nazionale iugoslava, e quello di Belgrado, dedicato al teatro internazionale di ricerca.

Cinema

Sebbene i primi documentari risalissero al 1905 e il primo lungometraggio a soggetto al 1910 e sebbene dal 1919 al 1942 un certo numero di film fosse stato realizzato (l'ultimo, Verginità indifesa, parodiato con lo stesso titolo da Makavejev nel 1968), lo Stato monarchico ostacolò sempre la creazione di un'industria stabile, pago dei proventi che ricavava dalla distribuzione cosmopolita e dall'affitto del territorio per gli esterni ai produttori cechi e tedeschi. Un autentico cinema nazionale, anzi plurinazionale, cominciò a esistere solo con la liberazione del Paese e in modo sistematico con gli anni Cinquanta, quando si ebbe il decentramento produttivo nelle varie repubbliche federate. Prevalse allora il filone resistenziale, pur se altri generi (storico, letterario, commedia o dramma di costume) non vennero trascurati. Intense evocazioni del clima di guerra, come I grandi e i piccoli (1956) di V. Pogačić e Il nono cerchio (1960) di F. Štiglic, approdarono a quella summa dell'epos patriottico che fu, nel 1962, Kozara di V. Bulajić. Grande importanza assunse nel frattempo la scuola del disegno animato di Zagabria, con artisti quali D. Vukotić (premio Oscar 1962), V. Mimica e altri, che svilupparono con stile originale la satira ideologica e di costume. Eguale rilievo, a Belgrado e altrove, conquistò il documentario, nel quale si formarono personalità specifiche come K. Škanata e alcuni dei maggiori registi degli anni Sessanta (il reportage di Bulajić Skopie 63 vinse il Leone d'oro del documentario a Venezia). Annunciata da diversi film a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta, una nuova tendenza critica esplose nel 1964 con Il vero stato delle cose (titolo di per sé eloquente) di V. Slijepčević, proseguendo sempre più combattiva nel cinema elegiaco di P. Ðorđević (Il mattino, 1967; Mezzogiorno, 1968), in quello psicologico di Mimica (Prometeo nell'isola di Viševica, 1965), in quello lirico di A. Petrović (Tre, 1966; Ho incontrato anche zingari felici, 1967), in quello d'assalto di D. Makavejev (L'uomo non è un uccello, 1965; Un affare di cuore, 1967), in quello “nero” di Ž. Pavlović (Il risveglio dei topi, 1966; Quando sarò morto e bianco, 1967; La trappola, 1969). Con quest'ultimo appellativo, “nero”, si finì per bollare tutto il cinema iugoslavo artisticamente avanzato, favorendo invece i colossi celebrativi con attori stranieri (La battaglia della Neretva, 1971, di Bulajić; La quinta offensiva, 1973, di S. Delić) e inducendo all'esilio cineasti rinomati quali Makavejev (W R - I misteri dell'organismo, 1972) e Petrović (Il maestro e Margherita, 1972). Dal canto suo il serbo Pavlović si rifece una carriera in Slovenia (Il volo dell'uccello morto, 1973; Arrivederci alla prossima guerra, 1981). La svolta si verificò tuttavia nel 1977, con un gruppo di opere innovatrici, specie di giovani, i quali non badano tanto al passato, quanto al presente, affollato di problemi esistenziali e sociali. C'era in loro anche un eccesso di pessimismo compiaciuto, oppure una fantasia allucinata, talora macabra, che pervase del resto anche il cinema d'animazione, estesosi da Zagabria a Novi Sad. Così, per esempio, nella sinistra allegoria Il salvatore di K. Papić, che nel 1977 vinse il premio della fantascienza a Trieste. Sceneggiatori e registi che si scambiavano i ruoli, S. Karanović e R. Grlić, prediligevano invece una satira pungente ma fresca (Il profumo dei fiori di campo e Bravo maestro, entrambi del 1978). Non fu comunque abbandonato il film storico: se ne occuparono tra gli altri gli anziani Mimica (Anno Domini, 1976; Il falcone, 1981) e Bulajić (Alta tensione, 1981, sulla Iugoslavia del 1948 di fronte a Stalin) e, in modo assai discutibile, L. Zafranović (L'occupazione, in 26 quadri, 1979; La caduta dell'Italia, 1981). Maggiore sincerità si riscontrava in film quali Chi canta laggiù (1980) di S. Sijan e il delicato e maturo Ti ricordi di Dolly Bell?, che nel 1981 a Venezia fruttava il Leone d'oro dell'opera prima a E. Kusturica. Negli anni Ottanta era proprio il bosniaco Kusturica il nome nuovo del cinema iugoslavo. I suoi film successivi, Papà è in viaggio d'affari (1984) e Il tempo dei gitani (1989), venivano entrambi premiati al Festival di Cannes. Buoni risultati, all'interno di una produzione sempre esigua e aggravata dalla crisi economica e dalla guerra civile, venivano ancora dai croati Bulajić, con Donator (1989), e Grlić, con Quell'estate dalle rose bianche (1989). Per la produzione slovena va segnalato Il paradiso artificiale (1990) di K. Godina.

Folclore

Anche nel ricco patrimonio di manifestazioni della cultura popolare emergevano caratteri e comportamenti di un tessuto umano estremamente composito, con oscillazioni che andavano dall'influsso degli usi occidentali (Croazia) o, più tipicamente, italiani (Dalmazia e Bosnia occidentale) e tedeschi (i lustri villaggi alpini della Slovenia) a quello delle culture turca (Bosnia interna) o greca, turca, bulgara e albanese insieme (Macedonia), dalle fiere e primitive consuetudini del Montenegro alla vivacità della popolazione serba, che già risentì della civiltà romana orientale. Il processo di emancipazione civile ed economica avviato nel secondo dopoguerra dalla Repubblica socialista portava alla modificazione o all'eliminazione di istituti legati a un'economia agricola arcaica, come la zadruga (la grande famiglia patriarcale dei Serbo-Croati), ormai ridotta a qualche esempio nelle zone montane della Serbia e della Macedonia, e all'affermazione del ruolo della donna, cui era riconosciuta la parità di diritti con leggi promulgate tra il 1945 e il 1947. Alla tradizione cristiana si rifacenno la slava, la festa del santo patrono della famiglia presso i Serbi ortodossi e cattolici, i Bosniaci e gli Sloveni, e i kolede, o canti di Natale, diffusi in Croazia. A canzoni varie nel ritmo e libere per fantasia erano affidate in ambiente contadino le fasi del corteggiamento amoroso e della dichiarazione. Tra le usanze matrimoniali si cita quella praticata dai Serbi, che affiancano ancora agli sposi tre figure di rilievo: il kum (testimone che sostituisce i genitori della sposa), lo stavri (maestro di cerimonia) e il dever (protettore dello sposo). Accomuna ancora tutti i gruppi etnici un'eguale passione per la danza e per il canto. Al kolo, allora assurto a danza nazionale ed eseguito in cerchio con un vivace girotondo, si aggiungono danze rituali come le rusalje (diffuse in Macedonia e comuni a tutti i popoli balcanici); danze guerriere come quelle eseguite nel Montenegro; danze religiose; danze dei briganti come il macedone aramisko e infine la moreška, che a Korčula per la festa di San Teodoro (29 luglio) assume il carattere di una spettacolare rievocazione della lotta tra Mori e Turchi per il possesso della città. Gli strumenti musicali più popolari, ancora in uso, sono la zampogna, la tromba, il flauto, il tupan (un tamburo), la zurla (corno), la tamburica (sorta di mandolino a due corde) e il gusle (specie di viola a una corda). Imponente si può ritenere il patrimonio dei canti popolari, ca. 10.000 poesie (alcune di oltre mille versi) raccolte sistematicamente a partire dal 1813 dal serbo V. S. Karadžič. Diversi da villaggio a villaggio per varietà di colori e ornamenti i costumi tradizionali, solitamente in lana: per gli uomini calzoni attillati o a sbuffo, su cui ricade una camicia di seta stretta in vita da una cintura ricamata, panciotto senza maniche, berretto di pelliccia, calotta bianca o fez; per le donne una lunga camicia (ma nelle zone settentrionali e orientali gonna e corsetto), con cintura di lana e con un profluvio di elementi decorativi formati da pendenti, catene, placche, monete, gioielli. L'attività artigianale si esprime ancora soprattutto in fantasiosi lavori di intaglio in legno che interessano, con motivi geometrici, sia utensili e suppellettili, sia tetti e facciate di case; nella produzione di tappeti (a pelo lungo o rasato, con disegni di forte derivazione turca), di merletti e ricami (in lana, con finissimi disegni geometrici e floreali); nella decorazione del cuoio, di zucche e di uova; nell'arte della ceramica. La cucina, che pure varia da regione a regione, si presentava nel complesso molto grassa e piccante, comprendendo primi piatti come la gibanica (specie di fettuccine), il burek (simile al primo, ma con l'aggiunta di uno strato di carne di maiale tritata), la kačamak (specie di polenta) e varie minestre, con brodo di pollo (pileča čorba) o di bue (govedža supa) o con pesce. Fra i secondi piatti, in prevalenza a base di carne tritata o affumicata, si citano i popolari raznjići (spiedini di carne di maiale) e i čevapčići (polpette di carne di bue, maiale e montone arrostite allo spiedo e servite con cipolle crude tritate). Tra i salumi, rilevante era il consumo di piktije (gelatina d'oca e di maiale), dalmatinski pršut e užicka pršuta (prosciutti affumicati, di maiale il primo e di bue il secondo), kranjske kobasice (salsiccia slovena) e kulen (un salame piccante). Bevanda nazionale era la rakija, una grappa molto forte (una variante è la šljivovica, distillata dalle prugne), ma pregevoli anche i vini (dal dingač e dal prošek della Dalmazia al biser, alla smedevka, al prokupač e al ružica serbi) e liquori come il maraschino e il cherry brandy di Zara. Di uso generale anche il caffè turco, fatto bollire due o tre volte; tipica delle regioni orientali la bosa, bibita rinfrescante di sapore acidulo.

Bibliografia

Per la storia

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Per il cinema

L. Del Fra, Il cinema iugoslavo fra il vecchio e il nuovo, in “Bianco e nero”, 9, Roma, 1957; U. Casiraghi, Ritorno alla contemporaneità nel cinema iugoslavo, in “Cinema Nuovo”, 178, Milano, 1965; M. Grčar, Jeune cinéma: Yougoslavie, in “Cinéma 66”, 108, Parigi, 1966; L. Martini, Iugoslavia (fra storia e cronaca), in “Bianco e Nero”, 7-8, Roma, 1970; L. Micciché, Iugoslavia, in “Il nuovo cinema degli anni '60”, Torino, 1972; Autori Vari, Iugoslavia: il cinema dell'autogestione, Venezia, 1982.

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