planetologìa
IndiceDescrizione generale
sf. [dal latino planēta, pianeta (astronomia)+-logia]. Disciplina che concerne lo studio e la comparazione delle caratteristiche fisiche, chimiche e dinamiche dei corpi appartenenti al sistema solare, con particolare riguardo per i corpi maggiori, i pianeti, ai quali essa estende i metodi e gli interessi un tempo riservati alla sola geologia. L'avvento dell'era aerospaziale ha consentito la conoscenza diretta di gran parte delle proprietà intrinseche dei pianeti maggiori, e della maggioranza dei satelliti. Sonde delle classi Mariner, Venera, Pioneer, Voyager, negli ultimi decenni del sec. XX, hanno ripetutamente raggiunto e circuito tutti i componenti più importanti del sistema – tranne Plutone – spesso lasciando loro in orbita una o più stazioni automatiche (il Pioneer-Venus immesso intorno a Venere nel 1978; i due Viking Orbiter intorno a Marte nel 1976); qualche volta approdando sul loro suolo (gli otto Venera sovietici su Venere, fra il 1965 e il 1975; i due Mars sovietici su Marte, nel 1971, seguiti dai due Viking statunitensi nel 1975); per non citare le storiche missioni Apollo e Lunik – alcune dotate di equipaggio umano – destinate alla discesa sul suolo lunare, all'analisi e al riporto di campioni poi esaminati sotto molteplici punti di vista: chimici, gravimetrici, aerologici, sismologici, elettromagnetici, fotometrici e radiativi, cosicché si può a ragione asserire che la natura e gli accidenti riguardanti la costituzione superficiale – solida o gassosa che sia – di questi mondi, la distribuzione della loro materia interna e le sue eventuali dislocazioni, le proprietà della loro meteorologia e delle vicende climatiche, l'esistenza, o meno, di una ionosfera e di una protezione magnetica nei confronti del bombardamento cosmico e solare, la storia chimico-evolutiva delle loro atmosfere e del loro ambiente naturale, rappresentino preziose informazioni finalmente conquistate alla conoscenza scientifica.
Differenziazione degli interni planetari
Secondo le teorie più condivise di planetogenesi la formazione dei pianeti e di gran parte dei loro satelliti (escludendo dal novero i corpi minori di natura asteroidale, tipo Phobos, Deimos, Iperione, ecc.) deve farsi risalire a meccanismi di accrezione e accumulo di corpi già condensati, i planetesimi, attivati dai particolari campi gravitazionali protoplanetari. Poiché la natura chimico-mineralogica dei planetesimi rifletteva ovviamente l'avvenuta differenziazione del materiale nebulare originario sotto l'azione radiativa del Sole – planetesimi ricchi di metalli, solfuri, silicati, nella fascia interna a temperature fra i 1000 e i 2000 K; abbondanti di idrogeno, elio, anidridi, carbonio, in quella esterna dotata di temperature fra 600-200 K – i corpi planetari che se ne generarono assunsero le caratteristiche salienti che constatiamo, ripartendosi fra i globi rocciosi dei pianeti cosiddetti tellurici (Mercurio, Venere, Terra, Marte, Luna), quelli eminentemente gassosi dei pianeti giganti (Giove, Saturno), e infine quelli più remoti e periferici il cui interno consiste pressoché esclusivamente di ghiaccio d'acqua (Urano, Nettuno). La percentuale metallica della nube protoplanetaria deve pertanto aver giocato un ruolo importante in queste primissime fasi. Non è noto alcun pianeta extra solare orbitante ad una stella con metallicità inferiore a ca. il 40% di quella solare. La struttura interna dei pianeti e dei satelliti maggiori rivela sistematici processi di differenziazione intervenuti, a un certo momento, nell'agglomerato caotico di planetesimi che si pensa formasse inizialmente ciascuno di essi. La compressione gravitazionale delle parti, lo sviluppo di calore per radioattività intrinseca e per conversione dell'energia cinetica dissipata nelle collisioni con bolidi e altri corpi minori intercettati in gran numero, agirono in modo da innalzare la temperatura interna dei protopianeti fino al raggiungimento del punto di fusione dei minerali presenti nel materiale raccolto, sì da provocarne il rimescolamento e la ridistribuzione interna sotto il governo della gravità. I materiali metallici, i solfuri per il loro elevato peso specifico affondarono dando luogo ai densi nuclei planetari; i silicati e i carbonati, più leggeri risalirono verso le regioni superiori ove si assestarono negli strati intermedi dei mantelli e in quelli superficiali delle croste. Il processo di fusione e di ridistribuzione del materiale planetesimale fu accompagnato da una riduzione sensibile del volume acquisito dal protopianeta nel corso della fase di accrezione; si ritiene che la Terra, al termine di questa fase, abbia ridotto il proprio raggio di alcune decine di km, ritrovandosi ovviamente con una densità media accresciuta. È importante tenere presente il ruolo che il materiale gassoso e volatile ebbe a giocare nel processo di differenziazione interna che segnò per i corpi protoplanetari la fase di transizione in pianeti. Nelle regioni circumsolari, ove si formarono i pianeti tellurici, la disponibilità dei gas originariamente presenti nella nebulosa presolare – idrogeno ed elio per la quasi totalità – fu assai scarsa (planetogenesi), cosicché essi non poterono raccogliere e trattenere che quelli prodotti per degassificazione dei materiali interni: anidridi varie (contenenti ossigeno, carbonio, zolfo), vapor d'acqua, tracce di gas rari. Inoltre, va considerato che non risultando troppo cospicue le masse planetarie concentratesi in questa regione del sistema – ed essendo d'altronde elevate le temperature locali – anche i residui gas originari, a causa della loro estrema mobilità molecolare trovarono, in breve, facoltà di sottrarsi ai modesti campi gravitazionali. Nei riguardi di Mercurio, il più piccolo e il più vicino al Sole, la vigorosa pressione radiativa e quella impressa dal vento solare ebbero buon gioco nel disperdere anche i prodotti della degassificazione interna, del resto assai modesti, vista la poco cospicua mole del pianeta; considerazioni analoghe vanno fatte evidentemente, e con maggiori ragioni, nei confronti della Luna, cosicché non appare sorprendente il fatto che questi due astri risultino tanto simili e privi di una qualsiasi atmosfera significativa.
Attività endogena
Va ricordato che nei pianeti tellurici a corpo roccioso – ricchi di metalli in quanto le relative abbondanze furono notevoli nelle regioni in cui quei mondi si formarono – le antiche sorgenti di calore interno rimangono eventualmente localizzate nel nucleo centrale ove, come nel caso della Terra, danno luogo a un involucro di metalli fusi (ferro, nichel, zolfo) circondante il nocciolo centrale solido. La presenza di un nucleo metallico fuso, elettricamente conduttivo, è considerata, nei pianeti, condizione fondamentale – insieme alla rotazione assiale veloce – perché s'instaurino quelle correnti convettive che sono ritenute responsabili dei campi magnetici planetari. In realtà, Mercurio, dotato di considerevole nucleo metallico, mostra anche un campo magnetico significativo; Venere – il cui nocciolo è inferiore a quello terrestre e la cui rotazione è lentissima – possiede un campo addirittura infimo, ed è privo di fasce di radiazione tipo Van Allen. La Luna, anch'essa dotata di rotazione lenta, non è riuscita a costituirsi un nucleo metallico apprezzabile, né a mantenervi livelli termici superiori al punto di fusione delle sostanze che lo compongono, e il suo campo non è rilevabile; come parimenti debole è risultata la magnetosfera di Marte il quale, a causa della bassa densità (3,96 quella dell'acqua, la minore fra tutti i pianeti tellurici) lascia supporre non abbia trovato, a suo tempo, larga disponibilità di sostanze metalliche nello spazio ove si svolse la sua planetogenesi. Una seconda regione nella quale il calore planetario si può trovare localizzato è nello strato di transizione fra il mantello e la crosta superficiale: la cosiddetta astenosfera. In essa confluiscono i materiali a peso specifico minore, magnesio, silicio, alluminio, carbonio, ecc., che la minor pressione sovrastante e il calore della radioattività interna mantengono al di sopra del punto di fusione. Costituisce uno strato a consistenza plastica sul quale la crosta solida “galleggia” in equilibrio isostatico, frammentandosi eventualmente in placche continentali; essa fornisce la condizione indispensabile dell'instaurarsi di tutti quei fenomeni crostali – tettonica a zolle, orogenesi, vulcanesimo, attività tellurica, deriva dei continenti – che sul nostro pianeta sono stati i responsabili delle profonde trasformazioni geologiche. Si capisce come lo sviluppo di siffatti fenomeni, sui pianeti tellurici, debba esser stato condizionato dall'entità delle rispettive masse planetarie; la modesta mole della Luna, pur se andata soggetta alla differenziazione mineralogica dell'interno, non le ha tuttavia consentito la formazione di un'astenosfera né, tanto meno, la frammentazione in placche della crosta superficiale. Questa, sul satellite della Terra, appare quindi rigida e monolitica, e le uniche forze che l'abbiano plasmata nel tempo debbono ricercarsi negli antichi impatti meteoritici prolungatisi oltre la fase strettamente definibile di accrezione (Luna). Discorso sostanzialmente analogo va fatto per tutti i satelliti maggiori – tranne, forse, i giganteschi Titano e Tritone – anche se, sotto le coltri di ghiaccio che generalmente ne rivestono la crosta, si deve ammettere l'esistenza di una struttura mineralogicamente differenziata. Soltanto Io, il satellite vulcanico più prossimo a Giove, ed Europa, quello che lo segue immediatamente, mostrano un'attività endogena il cui motore è peraltro da ricercarsi nei vigorosi stiramenti mareali ai quali il colossale pianeta sottopone le masse di quelle due lune. Anche per Mercurio va esclusa ogni manifestazione tettonica significativa: la sua orografia appare dovuta soltanto all'azione degli impatti e al corrugamento crostale intervenuto per raffreddamento interno. La prospezione radar dell'invisibile superficie di Venere ha posto in evidenza un certo numero di elevazioni superficiali e massicce. Questo fatto, insieme alle misure gravimetriche, consente di accettare per quel pianeta la presenza di un'astenosfera e una qualche conseguente azione modificatrice superficiale di tipo tettonico accompagnatasi ad attività vulcanica. Nei confronti di Marte, questo tipo di azione si è certamente concretizzato in passato con la formazione di edifici vulcanici formidabili, ora estinti. Tuttavia, la mole grandiosa che li contraddistingue sta a indicarne la permanenza in stato di attività per un tempo che si è probabilmente prolungato per tutta la vita geologica del pianeta; troppo lungo, in ogni caso, per poter ammettere in passato, su Marte, il verificarsi di efficaci meccanismi di dislocazione di placche crostali che, altrimenti, avrebbero impedito alle zone attive del pianeta di accrescersi oltre misura nelle medesime aree.
Pianeti esterni
I processi di differenziazione interna cui andarono soggetti i pianeti esterni vennero condizionati dal gigantismo che le loro moli erano andate assumendo in fase di accrescimento. Nel caso di Giove e Saturno, formati essenzialmente dall'elio e dall'idrogeno nebulari intrappolati nei loro intensi campi gravitazionali, i planetologi ammettono la sedimentazione di nuclei relativamente modesti di natura rocciosa (forse silicati di ferro) circondati da immani mantelli di idrogeno ridotto dalla pressione allo stato di metallo fluido, nei quali i moti convettivi e la rotazione planetaria veloce attiverebbero la sorgente degli intensi campi magnetici riscontrati. Privi di una vera crosta differenziata, i corpi solidi di Giove e di Saturno rimasero avvolti da una spessa coltre gassosa nella quale elementi quali l'ossigeno, l'azoto, il carbonio – anche sotto l'azione catalizzatrice della radiazione solare – entrarono in combinazione con l'idrogeno, generando ammoniaca, cristalli di ghiaccio, idrocarburi vari. Nelle regioni eccentriche, ove Urano e Nettuno si accrebbero con lentezza (a causa dei lunghi periodi di orbitazione), la relativa scarsità di idrogeno e di elio nebulari venne sopperita dalla presenza di sostanze a bassissima temperatura di fusione. Fu così che quei pianeti raccolsero essenzialmente planetesimi di natura simile ai nuclei cometari – ghiaccio d'acqua con incorporate particelle di idrocarburi e ammoniaca – che conferirono loro giganteschi corpi glaciali, avvolti da atmosfere di metano trascinanti in sospensione cristalli d'ammoniaca e vapori di sostanze idrogeniche.
Evoluzione delle atmosfere
Mentre si può ritenere che i densi involucri atmosferici avvolgenti i pianeti glaciali e i pianeti gassosi non abbiano sostanzialmente modificato la propria composizione chimica originaria e il proprio regime circolatorio (movimenti convettivi innescati dal calore interno e trasformati dalla rotazione planetaria in correnti parallele all'equatore), per quanto riguarda i pianeti tellurici, la rapida dissipazione delle atmosfere primordiali ha consentito la loro sostituzione con involucri gassosi di origine endogena, che hanno svolto un ruolo profondo nella successiva evoluzione del clima e nella modificazione meteorica della superficie. Particolare interesse rivestono le vicende che hanno condotto i tre pianeti Venere, Terra, Marte, a ritrovarsi con ambienti climatici profondamente differenti, pur dovendosi ammettere una sostanziale affinità chimica fra atmosfere ugualmente prodotte per degassificazione degli strati subcrostali. Pare che una funzione importante debba venir attribuita all'intensità della radiazione solare incidente. Su Venere, essa non consentì la condensazione del vapor d'acqua, cosicché venne impedita la formazione di quei vasti bacini acquei – mari e oceani – che sulla Terra hanno funzionato come trappole efficienti di anidride carbonica atmosferica. Perciò la sopravvivenza, nell'atmosfera venusiana, di acqua allo stato di vapore, e di anidride carbonica – entrambe note fra le più efficaci sostanze assorbenti radiazione termica – rappresenta l'essenziale responsabile del gigantesco effetto serra che, su quel pianeta, ha consentito l'innalzamento delle temperature ambientali fino ai 700 K misurati. L'ambiente terrestre, invece, è andato rapidamente liberandosi del vapor d'acqua aereo (raccoltosi nei bacini liquidi) e di anidride carbonica (assorbita dalla superficie dei mari e dalle rocce), di modo che i livelli termici si sono mantenuti nei valori adeguati allo sviluppo delle prime forme biologiche le quali, a loro volta, hanno contribuito alla diffusione di un altro elemento vitale: l'ossigeno. Il pianeta Marte, dal canto suo, sembra essere stato penalizzato dalla maggior distanza dal Sole e dalla modesta entità della propria mole; circostanze che non hanno consentito su di esso la sussistenza dell'acqua se non in scarsi depositi glaciali e solo sotto forma di permafrost. Anche l'anidride carbonica (che costituisce in quantità quasi totale la tenue atmosfera marziana) vi è globalmente scarsa, giacché ingenti quantità di ossigeno sono rimaste incorporate nelle rocce superficiali sotto forma di ossidi a caratteristica colorazione rossastra. Le restanti molecole aeree si sono andate gradualmente sottraendo al debole campo gravitazionale, finendo con il disperdersi negli spazi esterni e lasciando che l'ambiente climatico marziano assumesse un accentuato carattere desertico.