mòda
IndiceLessico
sf. [sec. XVII; dal francese mode, dal latino modus, modo, maniera].
1) Regola a cui ci si attiene, che varia col mutare del gusto e che si impone specialmente nel modo di vestirsi, acconciarsi, ma anche nel modo di comportarsi in società: la moda della minigonna; nelle loc.: essere, andare di moda, seguire il gusto del momento; tornare di moda, imporsi nuovamente al gusto; passare, uscire di moda, non rispondere più al gusto del momento; alla moda, che interpreta i dettami del gusto presente; uomo, donna alla moda, che seguono le tendenze del momento non solo nel vestire ma anche nel loro modo di comportarsi, nelle loro opinioni, ecc.
2) Tutto quanto concerne l'abbigliamento, in particolare quello femminile: alta moda (francese haute couture), l'insieme della produzione di moda preparata dalle grandi sartorie; sfilata di alta moda, presentazione alla clientela di modelli esclusivi che rappresentano la collezione di una determinata casa di moda; trattandosi di creazioni originali ed esclusive, sono destinate, anche per il loro alto costo, a un particolare e qualificato tipo di acquirente. Al pl., acconciature, vestiti, guarnizioni per signora: negozio di mode.
3) In statistica, tipo di media.
4) In petrografia, composizione mineralogica effettiva di una roccia.
Cenni storici: introduzione
La storia della moda è strettamente connessa con la storia sociale, politica, religiosa di ogni tempo e Paese: l'abito, per l'uomo e per la donna, è sempre stato, ed è tuttora, oltre che un indumento per coprirsi, difendersi dal sole e dal freddo, mascherare la propria nudità agli altri, anche un messaggio al mondo sul proprio stato sociale, sulla propria identità sessuale e perfino sulla propria creatività nell'interpretare le leggi del costume imperante. Non si può leggere quindi la storia della moda senza riferirsi alla storia in senso più lato; e, reciprocamente, si riesce a decifrare la struttura di civiltà sepolte, riemerse alla luce dopo millenni di oblio, o di civiltà primitive, sviluppatesi nell'ignoranza più assoluta del mondo occidentale, quando si riesce a interpretare il significato che l'abito aveva nel contesto sociale: così si vestiva un uomo, così una donna, così un capo, un sacerdote, un guerriero, e così un mercante, un contadino, uno schiavo. La storia della moda, inoltre, coinvolge non solo gli indumenti ma anche ogni tipo di accessorio, dal gioiello al ventaglio, dall'acconciatura alla cosmetica, spaziando in un campo assai vasto. L'evoluzione di questo fenomeno collettivo ha proceduto gradualmente nei secoli attraverso esperienze e invenzioni innumerevoli, variando con maggior fantasia e con una gamma più vasta di forme e di accessori nel mondo occidentale. In Oriente (soprattutto in Cina, Giappone, India e Paesi confinanti) il forte attaccamento alle tradizioni ha causato una sopravvivenza del costume nei millenni con scarse variazioni. Solo nel sec. XX, con il diffondersi del modello di vita occidentale, si è assistito a un graduale uniformarsi al tipo di abbigliamento occidentale, più consono alle esigenze della vita moderna.
Cenni storici: le origini
Alle radici della civiltà occidentale si trovano le civiltà mediterranee, e fra le prime nel tempo e per importanza quella egizia. Dato il clima caldo del Paese, l'abito per gli Egizi fu soprattutto un ornamento: inizialmente limitato al solo perizoma, sia per gli uomini sia per le donne, col Nuovo Regno si adottò una lunga veste di lino leggero, la kalasiris. Notevoli effetti di eleganza erano ottenuti dalle fini plissettature delle gonne e dai ricami di bande preziose, orlature, bretelle che adornavano la veste. Parrucche e gioielli ebbero grande diffusione e importanza nell'eleganza egizia, così come il trucco (usato anche dagli uomini), che prevedeva un fondotinta di biacca, labbra coperte di rossetto, occhi disegnati con ombretti scuri, unghie delle mani e dei piedi laccate e una completa rasatura dei peli del corpo. Di un'unica veste si coprivano anche uomini e donne del mondo greco: il chitone, che fu nei tempi più antichi un semplice rettangolo di lana, ampliatosi e arricchitosi via via di drappeggi; al tessuto di lana, invernale, si alternò quello di lino, estivo. Se l'abito era semplice, elaboratissime erano invece le acconciature, femminili e maschili: le donne portavano i capelli lunghi, raccolti con bende, nastri, spirali d'oro e d'argento; gli uomini li portavano corti, ma divisi con sistemi di scriminature a caschetto, frange, boccoli. Potenza marittima oltre che terrestre, gli Etruschi ebbero rapporti commerciali coi popoli più lontani; la loro eleganza univa motivi mediterranei e orientali; il lusso e l'abbondanza di gioielli ne rivelano la ricchezza. Essi furono mediatori dello stile greco presso i Romani, il cui abito comune, sia maschile sia femminile, nell'età repubblicana era la toga, che veniva avvolta intorno al corpo con sapienti drappeggi. Col tempo la toga, indossata sopra una corta tunica, divenne appannaggio degli uomini, differenziata secondo l'età, le occasioni, le cariche, mentre la donna adottò una tunica di lana, cotone o seta, portata sulla pelle, cui venivano sovrapposte la stola e la palla. Molti furono i tipi di mantello, non sempre facilmente identificabili nelle loro raffigurazioni. Con l'Impero l'abbigliamento divenne sempre più ricco di particolari e si diffusero elaboratissime pettinature femminili, trucchi raffinati e ricchi gioielli finché in epoca bizantina l'oro e le pietre preziose divennero protagoniste dell'eleganza: le vesti erano sobrie, lunghe, strette, con maniche aderenti, ma tutte tempestate di ricami preziosi e di gemme, arricchite da bande di pelliccia. Anche le pettinature, lisce, erano valorizzate da sontuosi diademi. In epoca romanica, con il grande rimescolio di genti e civiltà originato dalle invasioni barbariche, il quadro della moda cambiò: si fece più netta la differenziazione tra costumi maschili e femminili, espressa dall'adozione delle brache per gli uomini, un indumento nordico che i barbari usavano per ripararsi dal freddo e sopra il quale s'indossava la gonnella. L'abbigliamento femminile restò invece più vicino a quello della tarda antichità; si componeva generalmente di due tuniche sovrapposte, di cui quella esterna (sopravveste) era più corta e ampia. Si accentuò anche la differenza tra l'abbigliamento delle classi dominanti e del popolo, soprattutto quando, nel sec. XII, l'amor cortese propose l'immagine della donna angelicata, che era poi la dama del castello. Indossava una lunga veste con maniche a campana e bustino che segnava il petto e la vita, e nelle grandi occasioni lo strascico o traiuto dava grazia e maestà all'incedere; in testa portava il cappello a cono o a una o due punte, adorno di un velo; ai piedi zoccoloni con alte suole di sughero. Comparvero, portate alla cintura, le prime borsette (usate anche dagli uomini) e i guanti, di stoffa o pelle ricamata. L'indumento di gran moda del tempo fu la pelliccia, detta crosina, confezionata con pelli di martora e zibellino per i nobili e i ricchi, di volpe o di pecora per i meno abbienti. Alla fine del Medioevo si accentuarono i caratteri gotici, che conferivano alla figura uno slancio verticale. Le donne avevano fronti altissime, ottenute rasando l'attaccatura dei capelli, la vita alta e scollature profonde sul dietro, che liberavano la linea della nuca. Gli uomini adottarono le calze solate, versione delle brache costituita da lunghe calze, spesso di colore contrastante, che arrivavano fino alle anche; sopra portavano la gonnella corta, un farsetto imbottito, lo zuparello (che diventò poi zupa e infine giubba) e la guarnacca, in stoffa preziosa, foderata, talvolta ornata di pelliccia. Nel sec. XIV e agli inizi del XV il miglioramento delle condizioni economiche per mezzo degli scambi commerciali, soprattutto con l'Oriente, impresse alla moda nuovi caratteri di eleganza e ricchezza, chiaramente esemplificati dallo stile sfarzoso imposto dalla corte di Borgogna. Lo caratterizzarono la lunga sopravveste, detta in Italia giornea, la calzabraca, il mi-parti (la veste divisa in due metà di diverso colore), l'hennin, le calzature à la poulaine, le guarnizioni di campanelli, ecc. Questa moda cadde spesso in eccessi e stravaganze, per frenare i quali furono emesse leggi suntuarie. In Italia furono soprattutto Firenze e Venezia, centri del commercio e dell'industria di tessuti oltre che d'arte, a dettar legge, in fatto di moda: vesti e acconciature mostravano un'eleganza fatta di misura nelle forme e nei colori. Gli abiti delle donne erano scollati in quadro o a punta, con bordure in tinta contrastante; le gonne erano moderatamente arricciate, i capelli trattenuti da crocchie sulla nuca. Nell'abbigliamento maschile si abolì la gonnella, si adottò il giustacuore che arrivava alla vita e si allungò la calzabraca.
Cenni storici: il Cinquecento
Verso la fine del secolo la moda cominciò a esser legata al tipo di tessuto, più pesante e prezioso, e la linea degli abiti si allargò e si arricchì, segnando il passaggio al Cinquecento. L'opulenta eleganza di questo secolo fu tipicamente italiana; stoffe, gioielli, merletti venivano esportati ovunque e gli esempi di grandi dame (Caterina de' Medici, Isabella d'Este) contribuirono a diffondere in tutta Europa l'immagine di una raffinatezza che rimase insuperata. Si dava il massimo risalto alla bellezza femminile, le cui forme venivano esposte e accentuate dall'abbigliamento. Sopra la camicia impreziosita di merletti, la donna indossava ancora la gonnella, una veste ampiamente scollata in quadro, aderente al busto e moderatamente arricciata; sopra comparve il vestito, detto anche abito o roba, una sopravveste stretta in vita, ma sempre aperta sul davanti. Le varianti più sontuose furono la gamurra e la sbernia. Tra le raffinatezze dell'epoca furono le maniche staccate dal vestito e allacciate alle spalle con nastri sottili, così da poterle cambiare secondo le circostanze, e con intagli da cui fuorusciva la camicia a sbuffi; la lenza, un gioiello appeso a un nastro da far ricadere sulla fronte; le calze di maglia fatte “ad aco”, probabilmente inventate a Venezia. Anche gli uomini adottarono brache di maglia sotto corti calzoncini, che via via si allungarono fin sotto il ginocchio. Tipiche le ampie sopravvesti (zimarra, lucco) che davano imponenza alla figura. Con la Controriforma si adottarono severi costumi che poco concedevano all'avvenenza naturale: la figura sia maschile sia femminile fu severamente costretta in abiti dalle fogge rigide, quasi geometriche, di colori scuri, con ampi collari dalle lattughe inamidate (per le donne esistevano il tipo a raggiera, più alto dietro la nuca, detto “alla Maria Stuarda”, e la gorgiera, rotonda intorno al collo) e maniche aderenti che avviluppavano strettamente le braccia e terminavano con lattughe per accompagnare il colletto. Il busto femminile era costretto dentro rigidi corsetti che scendevano con una lunga punta sulla gonna; questa si apriva su una seconda gonna tenuta gonfia in basso da un'armatura rigida. Due novità del tempo furono l'orologio tascabile (invenzione di un ingegnere vicentino) e il fazzoletto in diverse varianti: “da andata (in testa, per uscire), da collo, da mano”. Gli uomini si rasero i capelli e si fecero crescere barba e baffi, portarono ampi cappelli piumati, brache o calzoni stretti alla gamba, con caratteristici sbuffi tra l'anca e la coscia, giustacuore imbottito sul petto. Sopra si portava il mantello, detto tabarro; per cavalcare si indossava la più corta cappa. Gli stivaliempre più alti e importanti. All'Italia, intanto, era succeduta la Spagna nel primato della moda; già dalla metà del Seicento, tuttavia, fu la Francia a dettar legge in questo campo. Moda divenne un termine corrente, a indicare proprio l'evolversi del concetto di eleganza: si diffusero le pue o pupe o piavole di Franza, specie di bambole da vestire con modelli diversi, che si mandavano come campioni ai clienti lontani, e nacquero le prime “stampe”, sorta di figurini per diffondere i modelli più in voga. Alla fine del Seicento la moda venne influenzata dalle capricciose forme del barocco: i rigidi colli si trasformarono in ampi colletti di trina, uomini e donne adottarono pittoresche pettinature a boccoli, che finirono per diventare parrucche elaboratissime. Per le donne fece la sua comparsa il guardinfante che allargava a dismisura la gonna, formando un grande contrasto con la sottigliezza della vita, stretta nel busto. Per gli uomini si affermarono il panciotto, portato sotto il giustacuore lungo, e i calzoni stretti e lunghi fino al ginocchio.
Cenni storici: il Settecento
Già si annunciava il Settecento, con le sue damine e pastorelle: trionfarono i colori gai e le tinte pastello, le parrucche adorne di cuffie e ghirlande, i primi nei finti, il ventaglio, il fisciù. La gonna si mantenne ampia, sostenuta da vimini; sopra l'abito si portarono marsine e mantò, ossia una sopravveste rialzata sui fianchi, tutta portata verso il dietro. Gli uomini inaugurarono la redingote o marsina, lunga fino al ginocchio, e le culottes corte di raso; le camicie si arricchirono di jabots di pizzo e fece la sua apparizione la cravatta. Questa moda fu portata al limite massimo durante il rococò, quando ogni elemento dell'abito venne complicato ed esagerato fino a diventare irrazionale e artificioso, segno di un'aristocrazia inerte e parassita. Si andava intanto affermando parallelamente una moda più pratica e semplice, imposta e collaudata dalla borghesia soprattutto in Inghilterra. La Rivoluzione francese spazzò via le frivolezze e gli artifici; con la conquista del potere da parte della borghesia, la moda divenne un fenomeno di massa come mai prima. Grande fu il rinnovamento: le donne abbandonarono gli ampi vestiti alla Maria Antonietta e si vestirono di stoffe leggere, con abiti aderenti al corpo, ampiamente scollati, dalla vita alta. Nacquero i primi cappellini, in forma di graziose cuffiette. Scomparse le parrucche, le donne portarono pettinature raccolte intorno alla testa, di linea vagamente “classica”, e l'uomo da allora non lascerà più il taglio corto. Con la Restaurazione decadde la linea Impero nell'abbigliamento femminile, mentre per quello maschile si affermò definitivamente l'influsso della moda inglese, che in quegli anni (1800-30) vedeva fiorire il fenomeno del dandismo. Il costume maschile acquistò quell'aspetto di sobrietà che, sottoponendo a mutamenti solo i particolari, lo rese più uniforme di quello femminile, caratteristica valida fino a oggi. L'abito comune si fissò nei calzoni lunghi, in una giacca scura che, secondo la foggia, si chiamava frac o redingote, nel gilet, confezionato in velluto, raso o seta, che si cambiava secondo l'occasione, nella camicia bianca col collo alto, intorno a cui si avvolgeva la cravatta. D'inverno, sopra, si portava il soprabito o pardessus, in panno guarnito di passamaneria, col collo in velluto o lontra, oppure il più romantico mantello. Nella moda femminile si affacciò di nuovo la tendenza a nascondere la linea del corpo per mezzo di tessuti pesanti e di gonne ampie, sostenute dalla crinolina, e a sovraccaricare l'abito di ornamenti: pizzi e nastri, falpalà e ricami, piume e fiori artificiali, gioielli. Il corpino attillato sottolineava la sottigliezza della figura, imprigionata nel busto, ed era completato da maniche a sbuffo; gli scolli erano modesti e solo negli abiti da sera scendevano a scoprire la parte superiore del petto e le spalle. Molto usati scialli e pellegrine, cuffiette e cappellini. La moda si diffondeva ormai ovunque, attraverso i modelli dei giornali; Parigi e Londra imponevano un gusto universalmente accettato che lasciava poco margine alle differenziazioni nazionali. Dopo la metà del secolo l'abito maschile si semplificò ancora: il frac restò in uso solo per le cerimonie e si diffuse la giacca a sacco sobria e funzionale, già molto simile a quella odierna. La fine dell'Ottocento vide un nuovo cambiamento nella linea dell'abito femminile: abolito il pouf o la tournure, rigonfiamento posticcio sul dietro della gonna, l'abito avvolse il corpo dal collo alle ginocchia, allargandosi solo in fondo. L'accessorio acquistò un'enorme importanza nell'abbigliamento: era l'epoca dei cappellini, delle velette, dei manicotti, delle borsette, degli ombrellini, dei guanti.
Cenni storici: la confezione in serie
La nascita della confezione in serie rivoluzionò le caratteristiche della moda, rendendo possibile una maggior varietà e diffusione dei modelli, ma facendo scadere con le imitazioni il livello del gusto. Comparvero i primi grandi magazzini, la prima “moda pronta”; la donna adottò poco per volta fogge di vestire più comode, adatte ai viaggi, al lavoro, allo sport. Vennero abbandonati busti e corsetti, l'abito aderì liberamente al corpo, assunse grande importanza la maglia per la sua praticità. Se gli anni Venti videro trionfare le gonne corte arrivate in Europa dall'America e il taglio à la garçonne, negli anni Trenta si ritornò al “fluido” e la donna indossò per la prima volta i pantaloni. La moda maschile subì solo mutamenti minori, nella lunghezza della giacca, nell'ampiezza dei pantaloni. Negli anni Quaranta le ristrettezze della guerra imposero abiti corti, di linea dura, militaresca; ma nel 1950 trionfò il new look di Dior, con la vita segnata e la gonna lunga e ampia. Le industrie tessili e della confezione, grazie all'introduzione di nuove fibre e nuove tecniche, hanno contribuito in modo essenziale alle trasformazioni dei successivi decenni. Gli anni Sessanta hanno registrato un insieme di proposte diverse e spesso contrastanti: dalla moda classica del primo periodo, della quale può essere simbolo lo stile Chanel, si è passati alla tendenza, specie da parte del pubblico più giovane, a concepire la moda come momento creativo individuale spesso in polemica con il sistema tradizionale. Così con l'inizio e la prima metà del decennio successivo, si è assistito al fiorire del folk, del casual, della minigonna (lanciata dall'inglese Mary Quant nel 1965), dello stile hippy, delle divise militari, dei capi orientali. Ma verso la fine degli anni Settanta e l'inizio degli anni Ottanta, nuove tendenze si affermano, in netto contrasto con le precedenti: se da Londra giunge anche in Italia per i giovani lo stile punk, caratterizzato dall'“orrido”, sia nell'abbigliamento sia nel trucco, s'impone d'altro canto in modo massiccio il gusto della moda classica, che sembra essere una reazione a tutto il casual precedente. I grandi sarti, in sintonia con il momento, lanciano una moda costosa e raffinata fatta di giacche dal taglio perfetto da indossare su bermuda, tailleur in tinte pastello, shorts e gonne. Le grandi sartorie italiane aprono filiali a Tōkyō come a New York, conquistando il primo posto mondiale per gusto, diffusione e qualità. Tra i nomi più importanti dell'alta moda italiana, ormai celebri come quelli dell'alta moda francese, ricordiamo: Giorgio Armani, Missoni, Krizia, Gianfranco Ferré, Gianni Versace e Valentino, che si sono dedicati con successo anche al prêt-à-porter.
Il "made in Italy"
Nel corso degli anni Ottanta del sec. XX in Italia si affermano, insieme al culto del successo, i nuovi valori dell'individualismo e dell'edonismo: è in questo decennio che il made in Italy, lo stile prodotto in Italia, raggiunge l'apice della notorietà in tutto il mondo. Milano, dove si svolgono le sfilate del prêt-à-porter, ossia delle collezioni realizzate su scala industriale, insidia il primato di capitale della moda a Parigi. Se nel 1971 i negozi di moda in Italia erano circa 24.000, nel 1981 sono 82.000. La produzione nazionale di tailleur, giacche e cappotti si triplica, e agli inizi del decennio il saldo attivo del settore tessile-abbigliamento è di 11.000 miliardi di lire, una cifra sufficiente a coprire il fabbisogno annuale dello Stato in carne, carta e petrolio. Soprattutto, negli anni Ottanta si afferma definitivamente la figura dello stilista, personaggio chiave del made in Italy, il quale ben presto impara a intensificare i rapporti con l'industria. Contemporaneamente, mentre l'uomo tende a “femminilizzarsi”, a fare proprie certe ricercatezze prima riservate solo al sesso femminile (cura del corpo, cosmetici specifici, biancheria seducente), si delinea nella società una nuova protagonista, la donna in carriera, che anche con l'abito esprime il suo raggiunto potere professionale. Il merito di aver imposto il fascino della donna-manager va soprattutto a Giorgio Armani. A questo scenario tutto italiano si contrappone una ben diversa moda d'Oltralpe. Jean-Claude Montana e Thierry Mügler (francese uno e tedesco l'altro, entrambi giovani talenti alla conquista di Parigi) rivoluzionano l'immagine femminile proponendo una donna spaziale chiusa dentro giacche-corazza e abiti ispirati ai fumetti. Il successo degli stilisti italiani è tale che cominciano a firmare anche profumi, borse, occhiali, ombrelli, foulard e calzature; si delinea così quella che negli anni a venire si trasformerà in una vera e propria strategia delle licenze (politica secondo la quale i creatori di moda danno il loro marchio in concessione ad altre aziende produttrici). Gli anni Ottanta si chiudono con la caduta del Muro di Berlino: il giorno dopo l'apertura della prima breccia, una parte di quel muro figura già nella vetrina del negozio milanese di Moschino. §Gli anni Novanta sono caratterizzati da una netta inversione di tendenza. Se, agli albori del decennio precedente, in pieno sviluppo economico, si affermavano valori legati al benessere come individualismo, edonismo e culto del potere, nei primi anni Novanta si ridimensionano gli eccessi del passato e tutto, anche la moda, appare sotto una luce più realistica. Dalla caduta del Muro di Berlino in poi, il mondo assiste a una serie di fatti – la guerra del Golfo e la crisi bosniaca – che minano inevitabilmente le effimere certezze maturate sino a quel momento. In Italia nel 1992 viene alla luce Tangentopoli e prosegue l'inchiesta Mani Pulite: gli avvenimenti contribuiscono a scardinare le sicurezze raggiunte negli opulenti anni Ottanta, il malessere è palpabile e il pessimismo dilaga. Anche se il nostro prêt-à-porter incrementa ulteriormente l'export, l'occupazione subisce un forte calo: nei primi anni del decennio, infatti, spariscono 20.000 posti di lavoro, chiudono circa 300 boutiques, e comincia l'era dei saldi e delle vendite promozionali a oltranza. I grandi gruppi tessili prendono decisioni drastiche e, tra ristrutturazioni e riorganizzazioni aziendali, si fa strada la politica della delocalizzazione: parte della produzione viene cioè spostata in Paesi a basso costo di lavoro, attraverso consociate e varie formule di partnership. Questo non vuol dire che il made in Italy sia irreparabilmente in crisi, perché in realtà queste operazioni servono anche per sbarcare su mercati lontani. Per quanto riguarda le tendenze, il nuovo decennio pare vago e confuso; ma è certo che l'esibizione fine a se stessa è ormai un esercizio sorpassato. Gli stilisti non sanno bene quale strada prendere e così si assiste a continui revival: tornano in voga gli anni Sessanta, con colori violenti e fantasie riprese da Emilio Pucci. Questo stile è soprattutto voluto da Versace, mentre Armani continua la sua sperimentazione su linee fluide e decostruite; Vivienne Westwood reinterpreta, con la sua solita vena dissacratoria, gli anni Cinquanta. Lo stile gigolò e quello degli anni Settanta del riflusso vedono il ritorno dei baschetti mentre le gonne si allungano e diventano a godet. Alcuni stilisti progettano abiti senza cuciture, realizzati in materiali alternativi al tessuto. Le lunghezze sono varie, anche se quella al polpaccio è la preferita; Valentino propone preziosi capi-lingerie da portare a vista. Intanto si afferma lo stile Prada che, con la pulizia minimalista dei suoi abiti, diventa una delle griffes di punta del made in Italy anni Novanta. Sulle passerelle americane spira invece il vento di Seattle: è infatti da quella città al confine con il Canada che arriva la moda grunge (in italiano, stropicciato), divulgata da gruppi musicali neo-psichedelici e dalle migliaia di giovani che si affrettano a seguirla. Lo scorcio degli anni Novanta è caratterizzato, in Italia, da avvenimenti di grande richiamo: alcuni creatori (Versace, Armani, Valentino, Moschino, Etro, Prada, Ferragamo) inaugurano prestigiosi negozi e show rooms sulla Madison Avenue di New York, nel cuore di Manhattan, ma l'evento più significativo, con cui si istituzionalizza il rapporto moda e arte, è la prima edizione della Biennale della Moda di Firenze: tra musei, monumenti e gallerie della città, si snoda un affascinante percorso che mette a confronto stilisti e artisti contemporanei (Cindy Sherman, Jenny Holzer, Roy Lichtenstein, Julian Schnabel, Damien Hirst). È la conferma di come ormai il fenomeno moda travalichi i suoi limiti per affermarsi come fatto di costume, che influenza e orienta ampi strati della società, ma ne è, a sua volta, orientato.
Sociologia
Per le scienze sociali, la moda rappresenta l'espressione di gusti, preferenze e stili di vita che ispirano la ricerca della forma con cui presentarsi e comportarsi in pubblico. Manifestazione privilegiata della moda è perciò l'abbigliamento, che configura l'accettazione di canoni estetici condivisi. Una moda, tuttavia, può riguardare un'ampia gamma di atteggiamenti e sensibilità. Si può infatti parlare di mode musicali, culturali, linguistiche, ecc. In quanto tale, una moda rinvia a criteri di riconoscimento sociale largamente diffusi e percepiti. Così, per esempio, aderire a una moda esibendo capi di vestiario o accessori raffinati e costosi significa acquisire un visibile simbolo di status, che denota gusto, distinzione e disponibilità economica. Una particolare moda può, tuttavia, rappresentare anche un elemento di appartenenza a una specifica subcultura, non necessariamente connotata in termini di distinzione sociale: si pensi alla pratica del tatuaggio o alle pettinature punk presso le bande giovanili contemporanee. In qualche caso, la moda evidenzia l'appartenenza a gruppi o comunità fortemente caratterizzati ideologicamente (l'eskimo dei giovani contestatori nel '68, la testa rasata dei militanti neonazisti, l'uso della kefiah palestinese come simbolo della lotta antimperialistica, ecc.). In generale, la moda presenta una doppia peculiarità. Da un lato, suggerendo l'adozione di canoni e stili condivisi, favorisce l'identificazione con un gruppo sociale, definendo ciò che è accettato e apprezzato e ciò che, invece, va relegato nell'ambito del cattivo gusto o dell'eccentricità. Dall'altro, però, la illimitata possibilità di personalizzare abiti, acconciature e persino linguaggi e atteggiamenti, consente il processo simmetrico di individuazione del soggetto rispetto agli altri membri della comunità. È questa duplice funzione della moda che spiega principalmente la fortuna di stilisti, designer e creativi di vario genere, i quali – commercializzando il proprio gusto e la propria fantasia – mettono a disposizione dei consumatori, differenziati per fasce di reddito, la presunta garanzia di una felice combinazione di identificazione (definendo essi canoni estetici e stilistici condivisi) e di individuazione (la particolare combinazione di fogge, tessuti, colori, cosmetici è garantita dalla firma, la griffe). Sotto questo profilo, i produttori di moda assolvono una latente funzione di rassicurazione, offrendo nello stesso tempo alla clientela pagante la conformità allo stile e la necessaria personalizzazione del prodotto. Per definizione, le mode sono un aspetto tipico delle società moderne, caratterizzate dalla mobilità sociale e dalla velocità del cambiamento. Le comunità tradizionali hanno conservato invariati per secoli canoni estetici e fogge di abbigliamento che si differenziavano soltanto in relazione all'età, al sesso, alle condizioni climatiche o a poche e radicalmente differenziate appartenenze sociali. Le logiche commerciali del consumo di massa e le esigenze di identificazione e individuazione proprie delle società contemporanee producono, invece, continue variazioni delle mode. Le gonne si accorciano o si allungano a ogni stagione. Le automobili lanciate sul mercato modificano con molta maggior frequenza le caratteristiche estetiche che non la struttura meccanica. Persino gli orologi – un tempo considerati bene durevole, il cui possesso sanciva l'ingresso nell'età adulta, e che erano destinati alla cura gelosa dei proprietari e oggetto di lasciti testamentari – si sono trasformati in accessorio multiuso, colorato e disponibile in mille versioni (la Swatch culture). Per gli psicologi sociali, la fortuna della moda nelle società dei consumi di massa risiede nel fatto che tali società sono fortemente orientate al futuro. Ogni novità è foriera di attenzione e di desiderio, mentre le società chiuse e ancorate alla tradizione vivono il cambiamento essenzialmente come minaccia. In quanto fortemente competitive, le società contemporanee considerano la capacità di seguire la moda un elemento di successo e una prerogativa di distinzione. Sintomaticamente, del resto, sono i sistemi sociopolitici autoritari che propendono per il massimo di uniformità nell'abbigliamento, nelle manifestazioni dell'esteriorità, negli stili di comportamento. Le divise omologano e cancellano, almeno in apparenza, tanto le distinzioni sociali quanto le aspirazioni alla valorizzazione dell'individualità. Le vicende storiche hanno peraltro dimostrato come tutti i tentativi di omologare gli individui imponendo uniformità di abbigliamento e di stile di vita siano miseramente falliti. La Cina alla fine del sec. XX, dopo aver conosciuto una lunga stagione di repressione delle mode e delle distinzioni individuali, è divenuta un fiorentissimo mercato per prodotti di abbigliamento, calzature, cosmetici che in qualche modo consentano – a vari livelli di qualità – di riattivare il metabolismo sociale della moda e di soddisfare per suo tramite bisogni esistenziali di identificazione e individuazione. Analogamente, molte società democratiche – specie quelle che avevano conosciuto dittature inclini al fascino coattivo della divisa – si sono preoccupate di sancire legislativamente il diritto alla libera espressione dell'individualità, condannando ogni forma di censura in materia. Ovviamente più delicata e complessa è la questione delle soglie di accettabilità sociale dei gusti e delle preferenze estetiche. Entrano qui in gioco, infatti, le sensibilità prodotte dalle diverse forme di civilizzazione. Come ha insegnato Norbert Elias, i canoni del pudore, della vergogna, del bon ton sono culturalmente determinati e si modificano più lentamente delle mode condizionate dal circuito degli interessi commerciali. Spesso mode e stili elaborati in relazione a esigenze pratiche o a particolari condizioni di vita hanno assunto nel tempo significati imprevedibili. I blue jeans, in origine abbigliamento da lavoro associato alla condizione operaia, sono divenuti nel secondo dopoguerra un capo di vestiario elettivo della popolazione giovanile. Successivamente, allentatesi le distinzioni tradizionali legate alla condizione anagrafica, hanno conosciuto una diffusione di massa presso tutte le fasce d'età e sono stati sottoposti a un'incredibile segmentazione dell'offerta, mirante a personalizzarne al massimo l'impiego. La storia sociale della moda – prodotto per definizione effimero e volatile – insegna però che ogni innovazione estetica e stilistica è un prodotto di adattamento, diffusione e variazione progressiva di paradigmi precedenti. I cambiamenti più profondi sono in genere visibili soltanto nel lungo periodo, anche se gli stilisti dell'abbigliamento o i designer dell'arredamento propongono in continuazione provocazioni “rivoluzionarie” che quasi mai vengono trasferite nella produzione industriale. Esse servono piuttosto ad alimentare presso le élites socioeconomiche il circuito della fantasia, del desiderio e della suggestione, agendo come sensori delle impercettibili variazioni del gusto di massa.
M. Beaulieu, Le costume moderne et contemporain, Parigi, 1951; L. Mondini-Lugaresi, Moda e costume, Milano, 1964; F. Boucher, Histoire du costume en Occident de l'antiquité à nous jours, Parigi, 1965; M. Contini, La moda nei secoli, Milano, 1965; R. Barthes, Système de la mode, Parigi, 1967; F. van Thienen, Piccola storia del costume. La moda europea dal 1100 ai nostri giorni, Milano, 1971; J. C. Flügel, Psicologia dell'abbigliamento, Milano, 1974; P. Bollon, Elogio dell'apparenza. Gli stili di vita dai merveilleux ai punk, Genova, 1991.