delocalizzazióne (economia)
sf. [sec. XX; da de-+localizzare]. In economia e in geografia economica, è il processo in forza del quale un'area tradizionalmente sede di attività economiche (specialmente industriali), non solo non accoglie più nuove localizzazioni produttive, ma perde anche impianti che vi erano precedentemente ubicati, per i quali si è via via ridotta la convenienza a operare nell'area stessa. Ne consegue una rilocalizzazione delle attività delocalizzate, spesso a grande distanza dalla sede originaria. In termini generali, si tratta dunque di un processo che si è sempre manifestato, prima e dopo la rivoluzione industriale, ogni qualvolta i fattori localizzativi (e attrattivi) di un'area hanno perduto efficacia rispetto a quelli espressi da un'altra area, in ordine alla medesima attività economica. Così, per esempio, si potrebbe parlare di delocalizzazione a proposito dell'industria serica italiana nei secc. XVI-XVII, nella misura in cui imprenditori e maestranze trovarono più conveniente trasferirsi e riavviare l'attività altrove (per esempio, in Francia). Tuttavia, è solo negli ultimi due o tre decenni del sec. XX che la delocalizzazione si manifesta in maniera massiccia, coinvolgendo tutte le economie più avanzate (mentre la rilocalizzazione investe essenzialmente Paesi di recente industrializzazione) ed entrando a pieno titolo nelle strategie di impresa. Quello che le imprese, tramite la delocalizzazione, cercano soprattutto di conseguire è una riduzione dei costi di produzione e, in primo luogo, di quelli legati al fattore lavoro, all'impiego di manodopera; di conseguenza, sono più immediatamente e largamente suscettibili di delocalizzazione quelle attività in cui è maggiore l'intensità di manodopera. Poiché nell'ambito di un ciclo produttivo non tutte le fasi richiedono apporto di manodopera nella stessa misura, si sta anche verificando sempre più estesamente che vengano delocalizzate solo alcune fasi della produzione, quelle appunto a maggiore intensità di manodopera (specie se la qualificazione richiesta è modesta), salvo poi procedere all'assemblaggio finale del prodotto presso la sede originaria dell'impresa. Oppure, aumentando la complessità dell'operazione, l'intero ciclo produttivo viene frazionato, delocalizzando in aree diverse tutte le singole fasi di produzione (o la produzione dei diversi componenti), eventualmente compresa anche la fase di assemblaggio e rifinitura; in questo caso, si tende a sfruttare al massimo i vantaggi localizzativi offerti da ciascuna singola area rispetto a ciascuna fase di lavorazione, mentre generalmente l'impresa conserva, presso la sede originaria, solamente le funzioni strategiche (ricerca e sviluppo, progettazione, marketing, ecc.). Un altro potente fattore di delocalizzazione deriva dall'aumento di quelli che sono spesso definiti come costi ambientali. L'attuazione, nei Paesi economicamente più avanzati, di politiche di tutela dell'ambiente sempre più rigorose, che possono comportare una almeno parziale internalizzazione dei costi ambientali legati alla produzione (per esempio, per realizzare impianti di depurazione o per il ripristino ambientale), l'opposizione delle popolazioni al permanere di produzioni rischiose per l'ambiente naturale o per la salute umana (opposizione che spesso si è rivelata in grado di costringere le imprese al risarcimento dei danni provocati) e, infine, la stessa crescente indisponibilità della manodopera a lavorazioni nocive, o potenzialmente tali, sono tra i principali motivi che possono spingere le imprese ad attuare la delocalizzazione delle produzioni ad alto costo ambientale in direzione dei Paesi in via di sviluppo, dove spesso quelle produzioni incontrano minori resistenze. Il fenomeno della delocalizzazione, che si inquadra tipicamente nel processo di globalizzazione dell'economia, sta diventando uno dei tratti caratteristici dei sistemi economici postindustriali, dove rappresenta una delle più evidenti manifestazioni della deindustrializzazione, con effetti sia sulla struttura economica, sia su quella sociale.