Introduzione e diffusione del teatro d'opera in Italia
Nel Medioevo e nel Rinascimento esistevano forme di spettacolo con musica (dai drammi liturgici alle sacre rappresentazioni alle feste teatrali e agli intermedi), ma l'opera propriamente detta nacque solo quando fu chiaro il fine di realizzare un dramma attraverso la musica e il canto, che dovevano avere una funzione primaria nella definizione dei personaggi e delle situazioni.
Le origini: Firenze
Alle origini dell'opera si collocano le ricerche condotte negli ultimi due decenni del Cinquecento dalla Camerata de' Bardi, soprattutto nel circolo che faceva capo a J. Corsi. A esso appartenevano Jacopo Peri (1561-1633) e Ottavio Rinuccini (1563-1621), autori del primo melodramma Euridice, ispirato a una mitica rinascita della tragedia greca e vicino all'impostazione teatrale del dramma pastorale. Rappresentato nel 1600 alla corte medicea per il matrimonio di Maria de' Medici ed Enrico IV di Francia, l'Euridice fu seguito da analoghe esperienze presso altre corti o ambienti patrizi italiani, a Mantova e Venezia, dove operò C. Monteverdi, e a Roma con V. Mazzocchi, A. Abbatini, Marazzoli.
Già con Monteverdi, il "recitar cantando" delle prime esperienze fiorentine assunse i caratteri di un recitativo che, pur nel rigoroso rispetto della parola e delle ragioni drammatiche, si definì con più complessa autonomia musicale. Questa evoluzione proseguì nel corso del Seicento, mentre mutò il carattere dei libretti che, abbandonata la linearità pastorale degli inizi, si fecero sempre più densi delle componenti più svariate, desunte dalla storia, dalla mitologia, da molteplici fonti letterarie moderne, con spregiudicate mescolanze di serio e di comico, con ampi pretesti per fastosi effetti scenografici.
A Roma: oratorio e opera
Le origini dell'oratorio sono da ricercare nell'ambiente tardo cinquecentesco, nell'evoluzione della lauda drammatica e del mottetto e nell'affermazione, agli inizi del Seicento, del nuovo stile monodico.
L'oratorio è una composizione per voci soliste, coro e orchestra, in cui viene narrata musicalmente un'azione (per lo più di carattere religioso o spirituale) senza far ricorso alle scene, ai costumi, a un qualsiasi elemento di rappresentazione teatrale.
Nella seconda metà del Cinquecento, nell'ambiente romano intorno a san Filippo Neri (fondatore di due "oratori", luoghi dove erano praticati esercizi di devozione che, accanto a prediche e preghiere, assegnavano una parte importante alla musica), Giovanni Animuccia, gli Anerio e altri collaboratori musicali del santo diedero vita a un genere di lauda dalla semplice scrittura polifonica, che in seguito assunse forma dialogica. Qui, e nel madrigale spirituale monodico, è la radice dei primi oratori in volgare; contemporaneamente, l'evoluzione del mottetto fu all'origine dei primi oratori in latino (il cui testo era generalmente ricavato da citazioni bibliche con poche aggiunte e adattamenti), che trovarono una delle prime sedi presso l'arciconfraternita del Crocifisso a Roma. Nei testi di questa prima fase della storia dell'oratorio, caratteristica era la presenza di un historicus che raccontava l'azione.
Il romano Giacomo Carissimi (1605-1674) diede al nuovo genere il suggello di un altissimo livello artistico e fu un modello significativo anche fuori d'Italia: per esempio, per il francese M.A. Charpentier. Lo stile monodico di Carissimi ha una notevole capacità di adesione alla parola, una forza evocativa di grandissima efficacia e di profonda penetrazione psicologica, accentuate da una scrittura vocale spesso ardita. A esso si affianca l'uso del coro, che interviene con diverse funzioni: non solo di commento, ma di personaggio collettivo, calato nel vivo delle situazioni, che dialoga con i soli. La figura narrativa dell'historicus è spesso distribuita fra parti vocali e personaggi diversi.
Quasi tutti i maggiori compositori di oratori furono anche autori di opere e, di fatto, l'oratorio tese in misura crescente a porsi come alternativa agli spettacoli operistici nel periodo quaresimale, incontrando un crescente successo. Questo processo di identificazione con l'opera, che si riflette anche nei libretti, non fu però totale: rimasero nell'oratorio una più rilevante componente corale e una più lineare impostazione della vicenda.
Per parte sua, l'opera romana venne ad assumere importanza solo a partire dal 1620 circa, al declino della scuola fiorentina e cogliendo i favori dell'attivo mecenatismo di cui si erano fatti promotori i nobili della famiglia Barberini. Dal punto di vista stilistico, l'opera romana rompe con l'equilibrio, tipico della scuola fiorentina, di testo e musica. L'aria conosce differenti piani di sviluppo, mentre il racconto perde, più o meno lievemente, di valore. Tale tendenza a distinguere i due elementi e a impoverire il testo degli aspetti più direttamente coinvolti nella dimensione emotiva perdurerà poi sino al XIX secolo.
L'opera veneziana
Se a Firenze si deve la valorizzazione del testo e del "racconto" e a Roma la valorizzazione della musica, a Venezia vengono in primo piano gli elementi connessi alla messa in scena. In tal senso, è con l'opera veneziana che, per la prima volta, tutti gli elementi dello spettacolo lirico si trovano definitivamente riuniti: il bel canto e l'espressione, il sogno (intervento degli dei), il comico, un ritmo di svolgimento dinamico che ripartisce distintamente, a seconda delle situazioni, l'aria e il racconto.
Oltre a Monteverdi, che scrisse per Venezia quattro opere l'Adone (1639) e le Nozze di Enea con Lavinia (1641), oggi perdute, Il ritorno d'Ulisse in patria (1641) e L'incoronazione di Poppea Venezia conobbe validi compositori di opere in Francesco Cavalli e in Pietro Cesti.
Pier Francesco Cavalli (Crema 1602 - Venezia 1676), organista in San Marco nel 1640 e maestro di cappella nel 1668, scrisse musica sacra con e senza strumenti, nello stile di G. Gabrieli e Monteverdi, e alcune cantate, ma soprattutto compose e, fra il 1639 e il 1669, rappresentò 39 opere, divenendo il primo grande rappresentante, dopo Monteverdi, della scuola operistica veneziana.
Le caratteristiche di tali opere sono strettamente legate al gusto del tempo: destinate al pubblico che affollava i teatri a pagamento, esse puntavano all'immediata recezione tramite i contrasti drammatici, la rappresentazione efficace degli affetti e una ricerca attenta della novità. Senza la netta distinzione tra le forme vocali che si instaurerà nel periodo successivo, il suo stile procedeva dalla declamazione all'aria per espansione graduale del canto, privilegiando il legame musica-testo e le esigenze drammatiche in un contesto che presumeva sempre, quale imprescindibile completamento, la realizzazione scenica. Tra le opere più significative di Cavalli, rappresentate a Venezia, vanno citate: Le nozze di Teti e Peleo (1639), La Didone (su libretto di G.F. Busenello, 1641), L'Egisto (G. Faustini, 1643), L'Ormindo (G. Faustini, 1644), Il Giasone (G.A. Cicognini, 1649), L'Eritrea (G. Faustini, 1652), Xerse (1654) e inoltre, rappresentata a Parigi, L'Ercole amante (F. Buti, 1662).
Pietro Cesti, detto Antonio o Marc'Antonio (Arezzo 1623 - Firenze 1669), esordì come operista con L'Orontea, rappresentata a Venezia nel 1649, o 1650, con grande successo. Fu al servizio dell'arciduca Ferdinando Carlo di Innsbruck dal 1652 al 1659, anno in cui fu ordinato prete secolare ed entrò come tenore alla Cappella Pontificia. Ancora a Innsbruck dal 1662, dal 1665 fu attivo alla corte di Vienna, divenendo sovrintendente delle musiche teatrali; qui raggiunse l'apice della carriera con Il pomo d'oro, rappresentata nel 1667 per le nozze dell'imperatore. Con F. Cavalli, Cesti fu il maggiore rappresentante dell'opera italiana del secondo Seicento: egli si ricollegò ai modi della scuola operistica veneziana, rivivendoli in modo personale grazie anche alla formazione fiorentina e romana e inserendoli in una più ampia sintesi che avrebbe poi influenzato la scuola napoletana. Cesti accentuò la tendenza ad articolare l'opera in pezzi chiusi, con brevi arie melodiche e cantabili, spesso patetiche, frutto del suo innato temperamento di melodista, al quale sacrificò, in parte, la differenziazione psicologica dei personaggi. Nelle opere della maturità, come L'Argia (1655), diede maggior risalto al virtuosismo vocale e all'importanza dei cori, spesso polifonicamente complessi. Fra le 13 opere compiute di Cesti si ricordano, inoltre, Alessandro vincitor di se stesso (1651), La Dori (1657) e la festa teatrale Nettuno e Flora festeggianti (1666).
L'opera napoletana
A Napoli, le prime rappresentazioni teatrali con musica avvennero presso le accademie di nobili quali Ferrante Sanseverino principe di Salerno, la marchesa del Vasto, Carlo Gesualdo, principe di Venosa, attivo anche come musicista, oltre che come esponente principale della più importante corte musicale del Cinquecento. Nel XVII secolo sorsero le scuole musicali dei 4 conservatori di Santa Maria di Loreto, di Sant'Onofrio a Capuana, della Pietà dei Turchini, dei Poveri di Gesù Cristo, che erano nati come istituzioni benefiche di assistenza per gli orfani e che inserirono fra le attività quella di formazione di giovani cantanti e strumentisti.
Le prime rappresentazioni operistiche a Palazzo Reale risalgono alla metà del secolo e la prima opera fu la Didone di G.F. Busenello e F. Cavalli (1650), seguita dall'Incoronazione di Poppea (Nerone) di C. Monteverdi (1651). Dopo un inizio legato al repertorio veneziano, con F. Coppola, maestro della cappella reale, si diede l'avvio alla realizzazione di opere di produzione locale; a Coppola succedette P.A. Ziani e nel 1684 fu nominato maestro di cappella A. Scarlatti che, salvo un'interruzione fra il 1702 e il 1708, ricoprì la carica sino alla morte (1725), dando nuovo impulso alla vita musicale cittadina: in questo periodo emersero, tra gli altri, i nomi di F. Mancini, D. Sarro, N. Porpora, F. Feo. Ai drammi seri si affiancò l'opera comica in dialetto napoletano, il cui primo esempio fu La Cilla di M. Faggioli, rappresentata nel palazzo del principe di Chiusano nel 1707.