dittatura
IndiceLessico
sf. [sec. XIV; da dittatore].
1) Carica e autorità del dittatore; per estensione, la durata di tale carica.
2) Forma di governo in cui il potere viene assunto in via esclusiva da una persona o da più persone, senza alcun controllo da parte di un Parlamento rappresentativo. Fig., influenza predominante, dominio incontrastato di una persona, di una corrente culturale, di un ente e simili.
Cenni storici: dall'antichità alla Rivoluzione francese
La dittatura si esprime in una forma di governo assoluto, che limita i diritti inviolabili dell'uomo. Tuttavia il termine ha assunto nel tempo diversi significati, per cui è necessario distinguere tra contenuto politico della dittatura e sue concrete forme storiche. Originariamente il suo significato era assai ristretto, corrispondendo tra i Romani al governo del dictator (dittatore), magistratura straordinaria che sostituiva o subordinava a sé i magistrati ordinari dotati di imperium per un periodo limitato (6 mesi) e in circostanze eccezionali in cui era necessario proteggere lo Stato da nemici interni o esterni. Questa specifica accezione romana della dittatura si differenziava dai concetti di tirannide e dispotismo elaborati fin dall'età greca e ripresi poi nel Medioevo e nel Rinascimento: mentre infatti l'originaria dittatura romana era un organo straordinario (una “summa potestas” legittima il cui esercizio non era dispotico), la tirannide greca e poi quella rinascimentale designavano forme degenerate della monarchia riferite a un difetto del titolo (ex parte tituli) o a un esercizio giudicato illecito e oppressivo del potere (ex parte exercitii). Anche a Roma, però, con l'ascesa di condottieri autorevoli nella guerra civile del I secolo a.C. (settimo consolato di Mario, dittatura di Silla), il potere temporaneo del dictator venne dilatato e utilizzato per rovesciare la repubblica. La nomina di Cesare a dittatore a vita (44 a.C.) instaurò una transizione verso il principato nel quadro di un'apparente legalità e continuità rispetto alla precedente tradizione repubblicana. Per certi versi la dittatura cesariana può essere accostata a quelle dell'età moderna e contemporanea nelle quali tuttavia la differenza originaria tra dittatura e tirannide si è andata perdendo con il dileguarsi del mondo rinascimentale. Durante il Risorgimento italiano la dittatura tornò talora a essere nuovamente concepita come temporanea magistratura, che avrebbe dovuto permettere alla nazione di organizzarsi in uno Stato libero e indipendente. Vari furono i patrioti che negli anni culminanti del nostro processo unitario si attribuirono la dittatura. Famoso tra tutti G. Garibaldi, che la assunse in nome di Vittorio Emanuele II durante l'impresa dei Mille e fu poi spesso chiamato, quasi per antonomasia, “il dittatore”.
Cenni storici: il concetto moderno di dittatura
A partire dalla Rivoluzione francese – in particolare con l'esperienza della dittatura rivoluzionaria del Comitato di Salute Pubblica del 1793-94 (successivamente ripresa in termini teorici da pensatori come Buonarroti e il Blanqui) – e poi soprattutto nel sec. XX la dittatura ha assunto generalmente il significato di un potere illimitato esercitato da un individuo, da un gruppo o da un partito che determinano forme di Stato o quantomeno di governo lesive delle libertà fondamentali dei cittadini. Il concetto si è andato pertanto definendo soprattutto in contrapposizione a quello di democrazia, per cui un governo dittatoriale è in genere caratterizzato dall'essere antidemocratico, non costituzionale e basato sull'uso più o meno indiscriminato della violenza nei confronti delle opposizioni e dei dissidenti. Un'accezione affatto peculiare assunse il concetto dittatura del proletariato intesa da K. Marx come forma di organizzazione socialista dello Stato nel periodo di transizione dal capitalismo al comunismo: tale concezione avrebbe dovuto servire al superamento dell'antagonismo di classe e all'affermazione di una nuova società di uomini eguali affrancati dallo sfruttamento. La tesi marxiana fu ripresa e radicalizzata da Lenin (e poi da Stalin) che vide nella dittatura del proletariato l'arma decisiva per strappare alla borghesia la possibilità di una direzione ideologica instaurando un regime a partito unico senza attendere l'evoluzione graduale dalla democrazia borghese al socialismo. Attualmente si tende a distinguere tra dittature autoritarie e totalitarie, vòlte le prime essenzialmente alla conservazione o imposizione di posizioni di dominio cetuale, militare, economico o anche tribale, e le seconde alla mobilitazione pseudodemocratica delle forze politiche al servizio di un movimento rivoluzionario unico con pretesa di possedere una visione ideologica universalmente valida. Naturalmente i regimi dittatoriali, sia autoritari sia totalitari, vanno poi distinti in base alle concrete situazioni storiche, al carattere di destra o sinistra radicale assunto, agli elementi volta a volta nazionalisti o razzisti o classisti o socialisti che li definiscono, così come in base al sistema economico privato o statale-dirigistico realizzato. In ogni caso un tratto comune delle dittature del sec. XX, oltre alla pretesa di concentrare il potere in poche mani, appare quello di cercare di dotarsi di una forma di legittimità legalistico-popolare attuando rotture costituzionali mediante plebisciti e decreti d'emergenza. In tal modo può realizzarsi il passaggio da quella che la dottrina costituzionale definisce dittatura istituzionale o commissariale – che trae la sua giustificazione nel principio di effettività o di necessità, rivolto a difendere le istituzioni da un grave pericolo che le minaccia (ipotesi contemplata negli ordinamenti di Stati democratici come Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Svizzera, Germania) – a una dittatura costituente, mirante a formare un nuovo governo autoritario o totalitario. A questa seconda fattispecie appartengono le dittature “cesaristiche” di Napoleone I e Napoleone III, la presa fascista del potere da parte di B. Mussolini, la dittatura totalitaria di Hitler, le trasformazioni delle repubbliche nate dopo la prima guerra mondiale in dittature militari o basate su un capo carismatico: in Polonia (Pilsudski), nei paesi balcanici e in Ungheria (Horthy), in Turchia (Atatürk), in Grecia (Metaxas), in Spagna (Franco) e Portogallo (Salazar), in Austria (Dollfuss) e in America Latina (Perón). In tutti questi casi le dittature sono scaturite da sistemi costituzionali liberali o democratici dimostrando i rischi insiti nelle disposizioni relative all'emergenza, allo stato d'eccezione o alla dittature istituzionali contenute negli ordinamenti costituzionali per salvaguardare o ricostruire lo Stato. Dopo il 1945, contemporaneamente al diffondersi dei regimi democratici, pur sopravvivendo fino agli anni Settanta e Ottanta numerose dittature tradizionali (da quella franchista a quella sovietica) e nascendone altresì nuove (come quelle militari della Grecia, del Cile e dell'Argentina), si sono accentuate, in particolare nei Paesi in via di sviluppo, le forme dittatoriali autoritarie con pretese di realizzare una democrazia “guidata dall'alto”, a pluralismo limitato, e contrassegnate dall'insistenza sull'assoluta centralità dello Stato, dalla presenza di un capo carismatico e di un populismo demagogico organizzato da élites ristrette, talora a carattere progressista, che gestiscono un potere oligarchico e manipolano ideologie sempre meno legate a concezioni di tipo nazionalistico o socialistico e sempre più connesse al liberismo economico e direzionate alla diffusione di modelli sociali consumistici.
Bibliografia
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