polìtico¹
IndiceLessico
agg. e sm. (pl. m. -ci) [sec. XIII; dal latino politícus, dal greco politikós, proprio del cittadino, da polítēs, cittadino, da pólis, città].
1) Agg., relativo alla politica, al governo dello Stato: le concezioni politiche di Platone; scienze politiche, complesso di discipline che hanno per oggetto la politica. Per estensione, relativo all'organizzazione della vita pubblica: la lotta politica; la vita politica, gli affari, i problemi della vita pubblica e l'attività di chi a essi si dedica; la carriera politica, di chi ricopre cariche pubbliche; elezionipolitiche; diritti politici, complesso di facoltà riconosciute al cittadino, in base alle quali può eleggere, essere eletto e ricoprire cariche pubbliche; sciopero politico, fatto per influire sulle scelte politiche del governo; prezzo politico, inferiore a quello reale, fissato dallo Stato per certe merci o servizi, in particolare per quelli di prima necessità; prigioniero o detenuto politico, per motivi politici; avversario politico, che è tale solo sul piano politico e non su quello personale. In particolare: economiapolitica; geografia politica, parte della geografia che studia le condizioni geografiche delle società umane organizzate, in particolare degli Stati; carta politica, carta geografica in cui sono opportunamente messi in risalto i dati riguardanti la geografia politica; cinema politico, teatro politico.
2) Che si occupa attivamente di politica: uomo politico; giornali politici; discussioni politiche. Non comune, che tende a organizzarsi socialmente: l'uomo è un animale politico. Fig., che mira abilmente al raggiungimento di dati fini; avveduto, prudente: la sua è stata una mossa politica.
3) Sm., chi si dedica alla vita politica. Fig., persona particolarmente abile nel parlare e nell'agire secondo il proprio tornaconto: anche in questo si è dimostrato un politico straordinario.
4) Al pl., altro nome del gruppo di cattolici dissidenti francesi del sec. XVI detti Malcontenti.
Cinema
Con la definizione cinema politico venuta in auge negli anni Sessanta (soprattutto dopo il Maggio 1968 in Francia) si vuole qualificare quel tipo di cinema, a soggetto o documentario o d'intervento, che privilegia gli aspetti politici della realtà o della storia, ne trasmette e ne interpreta i contenuti e le idee o si pone esso stesso come strumento politico diretto. Sebbene di uso comune, il concetto è tuttavia improprio e, non mancando di ambiguità, ha alimentato non pochi equivoci. A rigore, infatti, “tutto il cinema”, come ogni altra manifestazione d'arte, in quanto rappresentazione, specchio o critica della società, è politica. Ciò premesso, va subito detto che nella storia del cinema alcuni periodi, movimenti e personalità ebbero una forte impronta politica, e che più d'ogni altro la dimostrò il cinema rivoluzionario sovietico degli anni Venti, portando in primo piano, e per la prima volta, le masse quali protagoniste dello schermo e imponendo una tensione ideologica altrettanto inedita. Si può dire che tale tensione fece poi scuola nel mondo, coagulando attorno a sé alcuni dei momenti più interessanti del cinema di denuncia sociale e di impegno civile, sviluppando la linea documentaristica di un Vertov attraverso l'opera intera di un Ivens, di un Grierson o dei documentaristi statunitensi del New Deal, e non mancando di influenzare, almeno in certi casi, la stessa Hollywood (ciò risulta anche dall'attenzione prestata ai modelli sovietici da uno storico del cinema americano quale L. Jacobs o da un critico eminente quale H. A. Potamkin). Nel secondo dopoguerra, con la vittoria sul fascismo, l'allargamento dell'area socialista e la formazione di nuove coscienze nazionali-popolari, l'influsso politico nel cinema si accrebbe in modo attivo, originando innumerevoli fenomeni che vanno dal neorealismo italiano all'esplosione pressoché generalizzata, nel corso degli anni Sessanta e oltre, di un cinema “nuovo” anche per la sua carica di politicizzazione. Qui si salda il nuovo discorso, che si è sviluppato teoricamente soprattutto in Francia, sul cinema politico, dove l'attributo è messo sovente tra virgolette, proprio a sottolineare la varietà delle interpretazioni e delle ipotesi. L'arco è infatti assai ampio, tra i due poli estremi di un cinema inserito nel sistema e nel consumo (come i film italiani di tendenza civile dovuti a Rosi, Petri, Damiani, Maselli, Montaldo, Pontecorvo, Vancini, i fratelli Taviani, ecc., o in Francia i film di un regista come Costa-Gavras) e di un altro cinema, più direttamente militante, che se ne dichiara fuori (come il Godard dei film d'“agitazione”, o come i reportages di guerriglia o di fabbrica). Gli estremi sembravano inconciliabili nelle società di capitalismo avanzato, mentre altra, e forse più realistica, era la situazione nei Paesi del Terzo Mondo, per esempio nell'America Latina (dal cinema nôvo brasiliano a quello cubano, da quello argentino di Solanas a quello cileno di Unidad Popular, a quello boliviano-peruviano di J. Sanjines che, a nome del suo “collettivo”, poteva affermare: “Un cinema che non fa che invocare e rappresentare il popolo non c'interessa più; quel che c'interessa è l'esperienza di un cinema fatto “all'interno” del popolo”). Quanto all'Unione Sovietica e ai Paesi socialisti dell'Est europeo, i momenti di maggiore impegno critico e autocritico, al di là degli schemi burocratici predominanti, tendevano a coincidere quasi paradossalmente (a differenza che in Occidente) con quelli di recupero della dimensione individuale, cioè della responsabilizzazione dei singoli di fronte alla società collettiva e alla storia (come è avvenuto nelle esperienze anticonformiste in Polonia, Cecoslovacchia, Iugoslavia, nel nuovo corso magiaro e in alcuni film sovietici, specie delle repubbliche periferiche). Essendosi così ampliato l'orizzonte del film politico, negli anni l'analisi si è sempre più portata nel campo d'azione in cui esso nasce e opera, e i problemi del giapponese Ōshima o del greco Angelopulos o di Moretti non sono accomunabili tra loro, né a quelli del cinema cinese, ungherese, canadese, svizzero, palestinese o dell'Africa Nera, se non con molta genericità. Ciò che è emerso dalla vasta discussione sull'argomento è una riconsiderazione del cinema come linguaggio e come struttura, non solo come “contenuto”; e del film non solo come “politico” o “militante” in sé, quasi ontologicamente, ma per l'uso politico e militante che di esso si può fare.
Teatro
Attribuendo all'aggettivo politico il suo significato più ampio, collegandolo cioè alla parola pólis, città come comunità di individui, si può definire tale tutto il teatro da Eschilo a oggi, perché chi fa teatro cerca, più o meno consapevolmente, di proporre alla collettività cui si rivolge un sistema di idee trasferibili nella prassi quotidiana, anche quando in apparenza non agita alcuna idea. Il teatro cosiddetto scacciapensieri svolge appunto l'importante funzione politica di scacciare i pensieri. In questo senso generale è tipicamente teatro politico la tragedia (e anche la commedia, almeno l'antica) dei Greci: sulla scena intesa come prolungamento dell'agorà, attraverso favole fissate nel tempo si pongono infatti problemi che toccano tutta la pólis. Ma di teatro politico nel senso moderno del termine si può parlare solo a partire dalla Rivoluzione francese, quando i palcoscenici, per la prima volta liberati dalle limitazioni censorie, dibattevano questioni direttamente legate agli avvenimenti del giorno o, nel periodo del Terrore, si facevano portavoce espliciti dell'ideologia dominante. Caratteristiche generali del teatro politico in questa accezione sono: il rifiuto del concetto di comunione tra teatro e società in generale, cui si sostituisce l'ambizione di provocare, di scuotere, di dividere; un'idea di teatro non come fonte soprattutto di emozioni artistiche o di svago (anche se le due cose non sono necessariamente escluse), ma come strumento per agire sulla coscienza dello spettatore nel suo comportamento quotidiano; una tematica con diretti riferimenti (sia pure attraverso varie metafore) alla società contemporanea e agli argomenti che in essa sono oggetto di discussione; una posizione sempre sostanzialmente d'opposizione (da sinistra) alle strutture del potere, che non coincidono sempre con l'autorità politica. Entro queste linee, infinite sono le varianti: i testi possono essere montaggi di documenti o vicende inventate o ricostruzioni di episodi di un passato le cui conseguenze pesano ancora sull'oggi; i destinatari possono essere cittadini già convinti da rincuorare, incerti da persuadere, avversari da provocare; le sedi possono essere teatri regolari o sale abitualmente adibite ad altri scopi o addirittura la strada, e gli interpreti attori professionisti o semplici cittadini. I momenti importanti nella storia del teatro politico si hanno nell'Unione Sovietica del decennio postrivoluzionario con le sconvolgenti messinscene di Mejerchold, i grandi spettacoli di massa (eredi diretti delle feste della Rivoluzione francese) e le varie forme di teatro-documento a fini soprattutto di propaganda; nella Germania di Weimar, con le regie di Piscator che si pone il problema del teatro politico e cerca di risolverlo parlando di guerra e di lotta di classe in un linguaggio scenico rivoluzionario ma per il pubblico dei teatri borghesi, con le ricche e feconde esperienze delle società operaie e con i primi drammi di Brecht che allo spettacolo-documento, come invito diretto all'azione, di Piscator contrappone un teatro d'ammaestramento politico a scadenze assai meno immediate; nell'America del New Deal con i teatri operai impegnati nella polemica antifascista e anticapitalista, con il Group Theatre che tenta di portare gli stessi temi nel contesto di Broadway e più ancora con il Federal Theatre che inventa un nuovo genere, il Living Newspaper, una sorta di articolo di fondo su un argomento d'attualità sceneggiato con dialoghi, dati statistici, documenti e con l'ausilio di varie tecniche; nell'America degli anni Sessanta, con innumerevoli iniziative legate sia all'azione dei neri per la conquista dei diritti civili, sia al movimento studentesco contro la guerra nel Vietnam, sia infine alle lotte dei contadini chicanos della California (i gruppi più rappresentativi sono il Living Theatre, il Bread and Puppet Theatre, l'Open Theatre, il Teatro Campesino, il Free Southern Theatre, ecc.), estendendo la propria azione alle strade o ai campi e cercando di inventare un linguaggio nuovo atto ad agire su pubblici diversi da quelli che frequentano abitualmente le sale teatrali. Un momento importante è anche quello del teatro-documento della Germania dello stesso periodo, con i testi di Hochhuth, Weiss, Kipphardt, Graetz, ecc. intesi a riaprire il dibattito su un recente passato, quello nazista, archiviato con troppa facilità. In Italia di un teatro politico vero e proprio si comincia a parlare dopo il 1968: l'esempio più significativo e più convincente è certamente quello degli spettacoli di Dario Fo, che alla trasmissione del messaggio politico accompagnano una reinvenzione in termini autenticamente teatrali e radicati nella nostra tradizione popolare. Ma un certo interesse presentano anche i numerosi tentativi di gruppi prevalentemente amatoriali, e le loro azioni di intervento nel sociale, soprattutto in luoghi non teatrali.