machiavellismo
sm. [da Machiavelli]. Termine usato nella letteratura politica per indicare, sulla base di un'interpretazione tendenziosa del pensiero di Machiavelli, l'atteggiamento di quegli uomini di governo che sacrificano ogni scrupolo morale pur di conseguire il successo. § La deformazione della teoria machiavelliana ha inizio nella seconda metà del sec. XVI, come conseguenza della polemica condotta contro Machiavelli da cattolici e protestanti: basti ricordare I. Gentillet, che additò ne Il Principe lo strumento diabolico di cui si era servita Caterina de' Medici per compiere i suoi misfatti. Verso la fine del Cinquecento si verificò, a opera di G. Botero, il tentativo di utilizzare il machiavellismo pur condannando Machiavelli: ma, nel Seicento, questo machiavellismo camuffato viene respinto da T. Boccalini mentre altri scrittori, da L. Zuccolo a F. Bacone, mostrano maggiore comprensione della novità e complessità dell'opera machiavelliana. Nel sec. XVIII la condanna del machiavellismo è ribadita, nell'Antimachiavel (1739), da Federico II di Prussia, che però, nella sua politica spregiudicata, tiene conto della lezione de Il Principe; d'altra parte, la concezione ottimistica del principe "illuminato" non si poteva conciliare con il pessimismo di Machiavelli. Solo a cominciare dal sec. XIX, l'interpretazione del pensiero politico di Machiavelli è stata posta in termini concretamente storici e si è respinta, come arbitraria e senza fondamento testuale nell'opera machiavelliana, la formula “il fine giustifica i mezzi”, tipica del machiavellismo deteriore. § Per estensione, comportamento astuto e spregiudicato di chi usa ricorrere a qualsiasi mezzo pur di ottenere il proprio vantaggio.