ganglioplègico

agg. (pl. m. -ci) [da ganglio+-plegia]. Farmaco ganglioplegico, sostanza capace di bloccare la trasmissione degli stimoli nervosi nei gangli del sistema nervoso vegetativo, antagonizzando con meccanismo competitivo gli effetti dell'acetilcolina mediatore della trasmissione. Tale azione è specifica, in quanto non si ottiene a livello di altre strutture dove pure l'acetilcolina interviene come mediatore (giunzioni neuromuscolari della muscolatura scheletrica, terminazioni nervose parasimpatiche del cuore, dello stomaco, dell'intestino, ecc.). I più noti farmaci ganglioplegici sono l'esametonio, la mecamilamina, la pempidina, il tetraetilammonio, il trimetafano, il pentolinio. La nicotina, a dosi elevate, dopo una fase di stimolazione gangliare svolge azione ganglioplegica. I ganglioplegici vengono adoperati in medicina nelle forme gravi di ipertensione (ipertensione maligna), nell'edema polmonare acuto dovuto a crisi ipertensiva, in neurochirurgia e nella chirurgia plastica per ridurre il pericolo di emorragie mediante la cosiddetta ipotensione controllata. Gli effetti ipotensivi di questi farmaci sono dovuti alla riduzione delle resistenze vascolari periferiche e alla diminuzione della gittata cardiaca. L'impiego clinico dei ganglioplegici è limitato dai numerosi effetti collaterali: stipsi, ipotonia della vescica urinaria, ridotto potere di accomodazione dell'occhio, collasso ortostatico, cioè perdita della coscienza in seguito al passaggio dalla posizione supina alla posizione eretta.

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