L'inesorabile declino della natura: le specie selvatiche stanno diminuendo

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Le specie selvatiche stanno drasticamente diminuendo e questo potrebbe impattare in modo irreversibile sulla salute del pianeta

La biodiversità è nel pieno di una crisi profonda e multifattoriale. La varietà di specie animali e vegetali che abitano il nostro pianeta è sempre più scarna, il che mette a repentaglio i cosiddetti servizi ecosistemici da cui dipende il nostro sistema sociale ed economico: dall’impollinazione fino al sequestro della CO2, passando poi per la fornitura di legname, pesce, fibre tessili e non solo. In questo senso, i dati dell’ultimo Living Planet Report, pubblicato nel 2024 dal WWF, suonano come un monito e un invito all’azione.

Il Living planet report del WWF

Ogni due anni l’organizzazione ambientalista internazionale World Wildlife Fund (WWF), insieme alla Zoological Society of London, pubblica un corposo rapporto intitolato Living Planet. Esistono tante metodologie per misurare lo stato di salute e la resilienza della natura, nel breve e nel medio termine.  Il Living Planet Index (LPI), nello specifico, traccia i cambiamenti nell’abbondanza relativa delle popolazioni di specie di vertebrati selvatici nel corso del tempo. Non va confusa con la numerosità della popolazione in valore assoluto: possono esserci popolazioni numericamente esigue che vivono un rapido boom e, viceversa, popolazioni ampie che vanno incontro a un declino.

Perché le variazioni nell’abbondanza della popolazione sono significative? Perché ci permettono di intercettare prontamente il rischio di estinzione e, di conseguenza, la potenziale perdita di funzionalità e resilienza degli ecosistemi. E, dunque, di intervenire per tempo.

Il declino delle popolazioni di specie selvatiche negli ultimi 50 anni

Basandosi sui dati raccolti nei siti di monitoraggio di tutto il mondo, il rapporto prende in esame i trend demografici di quasi 35mila popolazioni di 5.495 specie di vertebrati selvatici. Sono dunque esclusi gli invertebrati, gli animali in cattività e i cosiddetti animali da reddito. Chiaramente, non tutte queste popolazioni sono in declino: ce ne sono alcune stabili o altre in aumento. La media globale, però, vede una diminuzione del 73% tra il 1970 e il 2020 (l’intervallo statistico va dal meno 67 al meno 78%), il che corrisponde a un calo medio annuo del 2,6%

Gli ecosistemi più in difficoltà sono quelli di acqua dolce, con una diminuzione addirittura dell’85% nei cinquant’anni considerati, per una media del 3,8% all’anno. Preoccupano in particolare i pesci migratori (il cui LPI cala dell’81%), alle prese con il blocco delle rotte dovuto alle alterazioni dei loro habitat.

Gli ecosistemi terrestri vedono un trend in linea con quello generale: meno 69% in cinquant’anni. Più confortante, ma comunque negativo, il LPI degli ecosistemi marini: il declino è “solo” del 56%, grazie anche alle limitazioni imposte alla pesca che hanno permesso ad alcuni stock ittici di risollevarsi. 

Le cause del declino della biodiversità

Come spiega il Living Planet Report, dati così netti sono la conseguenza di diversi fattori:

  • Perdita, degrado o frammentazione degli habitat naturali, sacrificati per fare spazio per esempio a monocolture intensiva, pascoli, miniere, trivellazioni per l’estrazione di idrocarburi, infrastrutture per i trasporti, nuovi edifici. 
  • Sovrasfruttamento, inteso sia in senso diretto (caccia, bracconaggio, pesca intensiva ecc.) sia in senso involontario (è il caso delle catture accidentali nella pesca, cioè delle specie non commestibili che finiscono nelle reti).
  • Cambiamenti climatici che alterano le condizioni dell’habitat e dunque costringono le specie a migrare o modificare le proprie abitudini. La crisi climatica e quella della biodiversità sono profondamente interrelate, perché gli habitat deprivati della loro fauna selvatica sono anche più fragili di fronte agli eventi meteo estremi e meno capaci di sequestrare CO2.
  • Inquinamento: come spiega il report, quest’ultimo può colpire direttamente una specie (è il caso di una fuoriuscita di petrolio in mare che soffoca tartarughe, cormorani o gabbiani) ma anche indirettamente, compromettendo la disponibilità di cibo o le prestazioni riproduttive.
  • Specie aliene invasive che spesso sono trasportate involontariamente dall’uomo (per esempio nelle acque di zavorra delle navi commerciali) e arrivate a destinazione, con un clima alterato, trovano condizioni favorevoli per insediarsi e competere con le specie autoctone per lo spazio, il cibo e altre risorse.
  • Patologie, trasportate dall’uomo o proprio dalle specie invasive.

Le possibili soluzioni

Arrestare e invertire la perdita della natura è la missione sulla quale si impernia l’Accordo di Kunming-Montreal, raggiunto al termine della Cop15, la Conferenza delle parti sulla biodiversità. La successiva Cop16 tenutasi nell’autunno del 2024 a Cali, in Colombia, ha provato a tradurre i vari obiettivi del framework in misure concrete, a cominciare dall’istituzione di un fondo per la biodiversità, ma i negoziati si sono arenati in un nulla di fatto. Ritardi e tentennamenti che non sono compatibili con la gravità e l’urgenza della situazione in cui versa la biodiversità. È per questo che il Living Planet Report dedica un ampio capitolo alle possibili soluzioni.

Conservazione della natura

Bisogna partire innanzitutto dalla conservazione della natura. Finora quest’ultima si è concentrata sulla protezione delle specie e degli habitat minacciati, incassando qualche successo rilevante ma, al tempo stesso, isolato. La tutela della natura va ripensata, coinvolgendo e valorizzando anche le comunità che con la natura si interfacciano, cosa che finora non sempre è successa. 

Servono dunque più aree protette: oggi coprono il 16% delle terre emerse e l’8% degli oceani, ma l’accordo di Kunming-Montreal prevede di arrivare al 30% delle terre, delle acque interne e dei mari. Soprattutto, devono essere più efficaci.

In parallelo, si può lavorare sulle cosiddette OEACM (Other effective area-based conservation measures), siti che vengono gestiti in modo tale da tutelare la biodiversità, portando avanti al tempo stesso anche altre funzioni (culturali, produttive e così via). 

La natura può diventare anche uno strumento per affrontare problemi sociali, climatici, economici, sanitari: ricadono in questo filone le nature-based solutions, tra cui per esempio la riforestazione, l’agroforestazione, il ripristino delle zone umide e delle mangrovie, l’agricoltura rigenerativa.

Sistema alimentare

Un’altra area di azione prioritaria è il sistema alimentare, descritto come “intrinsecamente illogico” perché sta esaurendo le risorse idriche globali, distruggendo la biodiversità e influendo sui cambiamenti climatici, senza però riuscire a sfamare la popolazione globale.

Diventa quindi urgente ottimizzare le rese, senza però sottoporre a ulteriore stress il pianeta: questo è l’intento dell’agricoltura rigenerativa, conservativa e climate-smart. Chiaramente, l’offerta è guidata dalla domanda: per questo è essenziale che soprattutto si affermi una dieta più sana, con una maggiore proporzione di alimenti a base vegetale (soprattutto nei Paesi sviluppati dove non sussistono i problemi di denutrizione). In parallelo, bisogna scardinare il gigantesco problema dello spreco alimentare che, ad oggi, riguarda circa il 30-40% di tutto il cibo prodotto.

Transizione energetica

Sappiamo poi che il sistema energetico è ad oggi il primo motore dei cambiamenti climatici, poiché i combustibili fossili emettono in atmosfera enormi quantità di gas serra che accelerano il riscaldamento globale. La transizione verso le energie rinnovabili è già iniziata ma, secondo il report, deve diventare più rapida, più verde e più giusta. 

Finanziamenti pubblici e privati

L’ultima soluzione proposta dallo studio sta nella finanza, che “guida l’economia ed è una leva estremamente potente per cambiare il modo in cui opera e chi ne beneficia”. Il nostro stesso sistema economico si basa su un principio profondamente distorto, perché non attribuisce alcun valore monetario ai servizi ecosistemici, nonostante essi contribuiscano a più della metà del prodotto interno lordo globale.

Tuttora, i finanziamenti privati, gli incentivi fiscali e i sussidi che aggravano la crisi climatica e della biodiversità ammontano a 7mila miliardi di dollari l’anno, contro appena 200 miliardi di flussi finanziari positivi per le soluzioni basate sulla natura. Basterebbe reindirizzare appena il 7,7% dei primi per colmare il deficit di finanziamento per la protezione, il ripristino e la gestione sostenibile delle terre e delle acque.  

Valentina Neri

Foto di apertura: Foto di Jessica Weiller su Unsplash