oriyā

sf. sanscrito. Lingua comune ai ca. 16 milioni di abitanti della regione orientale dell'Orissa. Deriva dallo stesso dialetto pracrito da cui si distaccarono anche l'assamese e il bengalese, ed è dunque, nonostante le marcate componenti aborigene, una lingua neoindoariana. Primo esemplare letterario di lingua oriyā è l'iscrizione marmorea di Udayagiri, dove sono elencate le imprese di Khāravela I. Il periodo arcaico della lingua è accuratamente documentato dalla vasta biblioteca del tempio di Jagannāthpurī, dove si custodiscono innumerevoli opere, per la gran parte trattati religiosi, stilati su foglie di palma in una lingua molto simile a quella odierna. Il periodo medio (sec. XIV-XVII) vide il fiorire delle epopee popolari, composte generalmente in linguaggio rozzo, ma assai vivido. All'agreste versione del Mahābhārata dovuta alla geniale inventiva del contadino intoccabile Saralā Dās (sec. XIV) seguì, dopo quasi due secoli di silenzio, quella del Rāmāyana a opera di Balarāma Dās (sec. XVI), uno dei “cinque camerati”. Del quintetto, oltre a Balarāma, facevano parte il bramino Jagannāth Dās, cui si deve una splendida traduzione del Bhāgavata Purāna (divenuta tanto popolare da detronizzare, unico caso nel subcontinente, perfino le epiche classiche), Achyutānanda, famoso per le sue sbalorditive profezie, Yaśovanta e Ananta. Fiaccata dal pesante giogo musulmano, la letteratura oriyā si estinse quasi del tutto e gli albori di un nuovo risveglio si ebbero soltanto verso il sec. XIX, quando due poeti viṣṇuiti, Bhakta Carana Dās e Gopalakṛṣṇa Paṭṭanāyak, rinnegarono tutte le mostruosità stilistiche che nel frattempo erano diventate di moda per tornare alla vigorosa semplicità dell'idioma vernacolare. Il loro messaggio venne raccolto da Bhīma Bhoī, un aborigeno cieco i cui accorati canti devozionali sono autentiche condanne allo stolido sistema castale che faceva di lui un fuoricasta. L'annessione dell'Orissa all'Impero britannico (1803), fu però fatale alle sue arti; con la divisione del territorio in diverse regioni, ciascuna affidata a una presidenza confinante, la sua lingua venne degradata a livello di dialetto e si deve a tre letterati di talento se essa non venne a morire definitivamente: Rādhānāth Pay, salutato come poeta nazionale, Madhusudan Rao (1853-1912), autore di popolarissime ballate, e soprattutto Fakīrmohan Senāpati (1847-1918), che iniziò i letterati oriyā al poco familiare genere della prosa, offrendo allo stesso tempo un esempio di vivezza narrativa che non è stato ancora superato. Suo capolavoro è il romanzo rurale Sei acri e otto decimi, degno di figurare tra le opere migliori della letteratura mondiale. Il panorama odierno è costituito da gruppi più che da individui, se si eccettuano pochi ingegni quali Sitākānta Mahāpatra e Anant Patnāik, che hanno originato mode effimere, vissute brevemente.

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