brahmanésimo

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Descrizione generale

sm. [da brahmano]. Termine con cui si indicano genericamente le scuole e le sette religiose non eterodosse dell'India; ossia che, a differenza delle religioni eterodosse quali il buddhismo e il giainismo, si rifanno all'autorità dei brahmani e quindi, mediatamente, alla più antica tradizione vedica e alla letteratura ortodossa seguente (Brāhmaṇa,Upaniṣad). Il termine comprende anche gli ordinamenti politici e sociali che ripetono le loro origini dalla casta sacerdotale. Nel mutare delle concezioni religiose, esse rimasero invece immutabili e sopravvissero fino ai nostri giorni, assieme ai riti. I germi del brahmanesimo sono nel Ṛgveda, mentre gli Yayurveda (Veda delle formule sacrificali) sono il veicolo di collegamento fra le due età del brahmanesimo: dei Brāhmaṇa (X-VI sec. a. C.) e delle Upaniṣad (dal VI sec. a. C.). In vista della suprema salvezza al primo periodo dei Brāhmaṇa corrisponde “la via delle opere rituali”, al secondo “la via della conoscenza”; ma una terza via troviamo già nello Yoga, dottrina ascetica risalente al sec. VIII a. C.: è la via dell'amore, che alla concezione del brahman come supremo principio sostituisce la concezione deistica dell'Iśvara, il Signore, creatore e governatore del mondo.

Religione

Religione molto tollerante, il brahmanesimo permise l'introduzione del concetto degli avatāra, o incarnazioni, che consentì al popolo d'appagare il suo bisogno di religiosità con la divinizzazione dei suoi eroi. Tale credenza continua anche nell'induismo moderno (un neobrahmanesimo, che nel sincretismo conserva prevalente l'elemento brahmanico), e s'impernia sul sacrificio (yay). Dal perfetto adempimento delle norme religiose e rituali si produce il brahman, la potenza mistica che riesce a piegare la stessa volontà degli dei. La via delle opere rituali (Karma-Marga) era però aperta solo ai privilegiati per nascita e per censo; agli altri si apriva invece la via della conoscenza (Jūāna-Marga) che chiedeva solo il sacrificio di se stessi: la forza e l'ardore ascetico attraverso la castità, il digiuno e la regolazione del respiro. Questa condotta morale, presupposto necessario al successo degli esercizi ascetici, portò alla formulazione di precetti etici, raccolti negli Āraṇjaka, che costituiscono l'anello di congiunzione tra i Brāhmaṇa e le Upaniṣad. Tema delle speculazioni upanisadiche sono i rapporti che si stabiliscono fra il mondo e l'Assoluto, concepito immanente e trascendente al contempo. Autori delle Upaniṣad furono i brahmani. La dottrina escatologica originaria insegnava che, dopo la morte, i buoni salivano al cielo mentre i cattivi venivano precipitati in un abisso profondissimo, ma già nel Śatapatha-Brāhmaṇa si parla di una “nuova morte” oltretomba, quando è esaurito il merito accumulato in vita. Per evitare la “seconda morte” il fedele deve predisporre sacrifici e buone opere inesauribili nel merito o una conoscenza atta a continuare il suo merito. È la premessa alla dottrina della trasmigrazione delle anime, che le prime Upaniṣad già contengono e che venne più tardi risolta nell'unione dell'ātman con il brahman. Il culto nel brahmanesimo non fu mai pubblico, ma rimase privilegio delle caste nobili (ricchi privati, principi e re), che potevano sostenere le spese ingenti del complesso cerimoniale sacrificale. Nei riti domestici sacerdote era il padre, che offriva, nelle ore mattutine, meridiane e vespertine, latte e altri cibi. Una decina di riti o sacramenti (saṃskāra) consacravano la nascita, l'imposizione del nome e altri momenti solenni della vita. In età avanzata il fedele abbandonava la famiglia e si ritirava nella foresta a condurre vita contemplativa per salire i gradi della vita perfetta e ottenere alla fine l'unione con il brahman. Nel Ṛgveda gli dei sono dirette emanazioni delle forze che determinano i fenomeni naturali; fra essi emergono Sūrya, dio del sole; e Ụsas, l'aurora; in età brahmana sono invece più venerati Prajāpati, padre degli dei, identificato con il sacrificio. Degli antichi dei vedici resistono: Indra, Agni e Soma, mentre emergono sempre più Śiva e Viṣṇu, che nel neobrahmanesimo avranno la supremazia su tutti gli altri dei. Nel sec. V essi costituivano assieme a Brahmā una triade (Trimūrti), che nell'interpretazione del Mahābhārata rappresenterebbe tre forme di Prajāpati.

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