Renoir, Jean
IndiceLe opere della giovinezza
Regista cinematografico francese (Parigi 1894-Beverly Hills, California, 1979). Secondo figlio del pittore Pierre-Auguste, fu cineasta grandissimo soprattutto negli anni Trenta. Del decennio precedente in cui, tra prove sperimentali e film su comando, prese confidenza con la tecnica del cinema, rimangono Nana (1926) che tentava di fondere il naturalismo zoliano con l'impressionismo, il sopravvalutato mediometraggio da AndersenLa petite marchande d'allumettes (1928) e il sottovalutato vaudeville antimilitarista Tire au flanc (1928).
Jean Renoir. Un fotogramma del film La grande illusione (1937).
De Agostini Picture Library
Jean Renoir. Un fotogramma del film La carrozza d'oro con A. Magnani e D. Lamont (1952).
De Agostini Picture Library
Le opere della maturità
Con il sonoro, da La chienne (1931) a La règle du jeu (1939), si distese la ricca e felice stagione di un maestro che, pur tra empirismi e scelte eterogenee, varie tematiche e diverse sfumature ideologiche, andò componendo l'affresco di una società. La chienne con il suo crudo verismo drammatico, La nuit du carrefour (1932) con i suoi enigmi provinciali e la fantasiosa sublimazione di un “giallo” di Simenon, Boudu sauvé des eaux (1932) con il suo anarchismo sensuale e liberatorio e il suo quadro antiborghese al vetriolo, una Madame Bovary (1933-34) da Flaubert che non voleva essere solo un'esercitazione di qualità e fu massacrata dai produttori, introdussero Toni (1934-35) che venne poi considerato tra i più alti precursori del neorealismo italiano, specie per l'immissione appassionata, in un fatto di cronaca nera, di personaggi nuovi, i lavoratori immigrati, e della loro realtà sociale. In Le crime de Monsieur Lange (1935-36) il discorso si approfondì, sul piano del linguaggio, che si fece più raffinato con gli apporti letterari di J. Prévert, e del contenuto di classe, che risentì del clima del Fronte Popolare anche nel tema trattato della solidarietà dei lavoratori attraverso l'autogestione in cooperativa. Nel 1936 il capofila del realismo cinematografico francese girò due mediometraggi: uno collettivo, commissionato dal partito comunista e ammirevole per spontaneità e verità proletaria, La vie est à nous; l'altro assai personale, Une partie de campagne da Maupassant, gioiello rimasto allora incompiuto, montato solo nel 1946 (da Marguerite Renoir) e considerato il vertice del suo impressionismo culturale. Del 1936 fu anche Verso la vita, che calava i Bassifondi di Gorkij in atmosfera francese, e dell'anno successivo La grande illusione, la sua opera più famosa, con cui raggiunse un successo internazionale che lo ripagò di una lunga serie di disastri commerciali. Mentre con La Marsigliese (1937), prodotto dai sindacati su sottoscrizione, affrontò in modo incompleto ma originale il film storico, con La bête humaine (1938; tit. it. L'angelo del male) riprese contatto con Zola, con la cronaca nera, con l'ambiente di lavoro (i ferrovieri) e ottenne popolarità anche in Italia. Invece quello che probabilmente è il suo capolavoro, La règle du jeu, dove tirò le fila del suo impegno satirico antiborghese e cui partecipò anche come attore importante, fu respinto dal pubblico parigino degli Champs-Elysées e accusato di disfattismo nell'imminenza del crollo militare.
Le ultime opere
Costretto all'esilio a Hollywood e ad abbandonare incompiuto a Roma Tosca (di cui aveva girato solo alcune inquadrature), Renoir smarrì i collegamenti con la sua terra e diede spazio ai lati più evasivi del suo temperamento contraddittorio. Girò cinque film salvandosi, a volte, con il mestiere e con gli scampoli del suo realismo, specie in L'uomo del Sud (1945) dove affermò un nuovo rapporto con la natura, poi ulteriormente elaborato, ma in una sorta di panteismo mistico, nel film girato in India, Il fiume (1950). Con La carrozza d'oro (1952), realizzato in Italia a colori come il precedente e i successivi (salvo Le testament du docteur Cordelier, prodotto con tecniche televisive), rinunciò alla realtà per il teatro, per il puro gioco scenico. Ritornò in Francia con French Can-Can (1954), con Eliana e gli uomini (1956), con qualche regia teatrale tra il 1954 e il 1957 (compresa quella di una propria commedia, Orvet, nel 1955), ormai proclive alla commedia fine a se stessa, a un'irriverenza pagana ma antiscientifica (i due risultati migliori furono, nel 1959, Le déjeuner sur l'herbe ovvero Picnic alla francese e il già citato Le testament du docteur Cordelier ovvero Il testamento del mostro), perfino alla caricatura di La grande illusione in Le strane licenze del caporale Dupont (1962). Si congedò nel 1969 con un programma televisivo in quattro episodi, Le petit théâtre par Jean Renoir, trasmesso anche in Italia, per dedicarsi, dopo il libro sul padre (1962) e un romanzo di “ricordi d'amori e di guerra” (1966), alla raccolta dei propri interventi sul cinema (1974), pubblicata, come i volumi precedenti, anche in Italia (La vita è cinema. Tutti gli scritti 1926-1971, 1978).
Bibliografia
P. Davay, Jean Renoir, Bruxelles, 1957; A.-J. Cauliez, Jean Renoir, Parigi, 1962; P. Leprohon, Jean Renoir, Parigi, 1967; A. Bazin, Jean Renoir, Parigi, 1971; L. Chiarini, Renoir, in “Cinema e film”, Roma, 1972; C. G. Fava (a cura di), Francia 1937-1982 tra i divi e la storia, Venezia, 1982.