Tratti generali della filosofia analitica
Storicamente la corrente di pensiero denominata “filosofia analitica” si è diffusa nella prima metà del ’900 in Inghilterra, Stati Uniti e paesi scandinavi, per poi affermarsi, dagli anni ’70, nel resto d’Europa. Essa si è sviluppata grazie ai contributi di L. Wittgenstein, del positivismo logico centroeuropeo e delle analisi del linguaggio ordinario. Se ha dei precursori, costoro vanno identificati, proprio per il loro metodo d’indagine, in Hume e nell’empirismo inglese, nella scuola scozzese del senso comune, in Frege, Bolzano, Brentano, Meinong e, per certi versi, anche in Husserl e nei primi esponenti della fenomenologia. Gli autori che si rifanno a questo indirizzo non costituiscono una “scuola” in senso proprio, ma hanno in comune uno stile, sia di indagine sia di scrittura, e un atteggiamento metodologico generale: preferiscono le chiarificazioni minuziose piuttosto che l’invenzione di teorie, in quanto risultano più stimolanti i problemi delle soluzioni; mirano alla chiarezza e al rigore, utilizzando, se necessario ma non in modo esclusivo o privilegiato, gli strumenti e i risultati della logica formale; argomentano sempre in modo serrato e controllabile, con stile sobrio e uso di esempi tratti dalla vita quotidiana, ricorrendo frequentemente al senso comune mirano per evitare le forme auliche di molta filosofia speculativa, accusata di confondere l’oscurità del testo con la profondità e l’originalità del pensiero; tendono a perseguire un fine “terapeutico”, per eliminare i falsi problemi o le confusioni tra regole linguistiche di livello o ambito diversi. A partire dagli anni ’70 gli indirizzi di ricerca della filosofia si sono molto diversificati, senza la chiara prevalenza di alcuno. Si è approfondito il legame con il pensiero di Frege (M. Dummett) e non sfuggono più le connessioni con la prospettiva di Brentano e di Husserl; si cerca anche di mostrare come l’approccio analitico possa affrontare i problemi della filosofia classica (E. Tugendhat). Dalle analisi puramente linguistiche si è passati anche a questioni di contenuto, soprattutto nell’etica, dove si è avuto un rinnovato interesse per il tema delle virtù (P. Foot, P.T. Geach, G.E.M. Anscombe, I. Murdoch). Le teorie del significato sono divenute più attente alla dimensione pragmatica e al contesto concreto in cui la conversazione si svolge, con le sue presupposizioni e le sue implicazioni (P. Grice); mentre il tema della verità ha spinto a inserire il discorso entro la cornice globale dell’agire razionale e della sua interpretazione (D. Davidson). Questi sviluppi tendono a superare le astrattezze di un tecnicismo eccessivo e a permettere alla filosofia analitica di coniugarsi con altre prospettive affini.
Tra i precursori: Frege
Il logico, matematico e filosofo tedesco Friedrich Ludwig Gottlob Frege (Wismar 1848 - Bad Kleinen 1925) insegnò matematica a Jena e visse in solitudine fra le varie difficoltà provenientigli dal mancato apprezzamento del suo giusto valore e dai contrasti con i colleghi accademici che gli ostacolarono la carriera. Eppure fu in vario modo maestro e interlocutore principale di filosofi quali B. Russell, G. Peano, E. Husserl e L. Wittgenstein. Il suo programma di ricerca di una fondazione rigorosa e definitiva della matematica, di cui affermò la componente linguistica, e le opere che lo attuarono e lo divulgarono furono poi, postumamente, al centro di un ampio dibattito e di un’adeguata, piena rivalutazione. Tra i principali temi che Frege lasciò in eredità alla filosofia del linguaggio troviamo: l’irriducibilità della logica alla psicologia; l’idea che una parola abbia significato solo nel contesto di un enunciato; la definizione di pensiero come senso di un enunciato; e soprattutto la distinzione tra senso (Sinn) e significato inteso come riferimento (Bedeutung). Ogni espressione del linguaggio simbolico si riferisce a una entità: i nomi si riferiscono a oggetti, i predicati a concetti e relazioni, gli enunciati a valori di verità. Il senso è il modo in cui queste entità vengono date nel linguaggio. Un discorso analogo vale per gli enunciati: il loro riferimento è un valore di verità e il loro senso è il pensiero che l’enunciato è vero. La visione di Frege circa il senso degli enunciati come condizione di verità venne sviluppata nel Tractatus logicophilosophicus di L. Wittgenstein.
La filosofia del linguaggio ordinario
Ispirandosi anche alla concezione dei “giochi linguistici”, delineata da Wittgenstein negli anni di Cambridge, ci si accorge che il linguaggio ha una struttura molto complessa, della quale l’elemento descrittivo e quello logico-formale costituiscono solo una parte, e nemmeno quella principale. Molti altri tipi di discorso vanno analizzati, come quello etico, metafisico, teologico, giuridico, prescrittivo: se ne devono coprire regole interne e relazioni reciproche, oltre che i rapporti con i diversi contesti di vita in cui sono usati. Pur attribuendo solo all’uso descrittivo la possibilità di informare sulla realtà, di accrescere la conoscenza e di essere vero o falso, gli analisti ritengono che il linguaggio ordinario sia molto spesso usato non per descrivere, ma secondo regole e convenzioni atte a conferire un preciso significato ai rispettivi termini: proprio di tali regole d’uso dovrebbe occuparsi l’analisi. Rimane poi il compito di evitare gli “errori categoriali” (Ryle), cioè la confusione tra forma logica e forma grammaticale e tra regole appartenenti a giochi linguistici diversi. L’analisi, soprattutto con i lavori di Austin, diventa sempre di più una fenomenologia del linguaggio ordinario: ci si basa su di esso, poiché possiede la ricchezza, complessità e duttilità, sedimentate in una lunga tradizione. Le indagini si applicano a campi assai vari: si precisano le categorie fondamentali del pensiero; ci si interroga sul senso del discorso religioso; si riformula il dibattito tra nominalisti e realisti circa l’esistenza degli universali; si indaga il rapporto tra fatti e valori in etica; ci si interroga sulla natura della verità.