«I have a dream»: un sogno che ha segnato la Storia
Il 28 agosto 1963 davanti al Lincoln Memorial di Washington, Martin Luther King pronunciava un discorso che cambiò per sempre la Storia degli Stati Uniti e delle lotte per i diritti civili.
«I have a dream»: una semplice frase, che ha fatto la Storia. A pronunciarla, Martin Luther King Jr., pastore battista e attivista per i diritti civili, morto assassinato il 4 aprile 1968. Il discorso, tra i più celebri nell’ambito della lotta contro la discriminazione razziale, è stato pronunciato il 28 agosto 1963. Ancora oggi protetto da copyright, è noto in tutto il mondo e ha ispirato tante generazioni nella ricerca di un mondo più giusto.
Chi era Martin Luther King
Nato ad Atlanta, Georgia, il 15 gennaio 1929, Martin Luther King Jr. cresce in una famiglia di religiosi battisti. King inizia la sua educazione presso l'Università Morehouse a sedici anni, dove studia sociologia e teologia. Dopo essersi laureato, frequenta il seminario teologico Crozer e successivamente l'Università di Boston, dove ottiene il dottorato in teologia. Durante i suoi studi, le idee di Mahatma Gandhi e alla sua filosofia di resistenza non violenta lo influenzano profondamente. Martin Luther King Jr. viene assassinato il 4 aprile 1968 a Memphis, Tennessee.
Le battaglie per i diritti civili
King diventa un pastore battista e partecipa attivamente alla lotta per i diritti civili degli afroamericani. In breve tempo si impone come uno dei principali leader del movimento, sostenendo l'uso della disobbedienza civile non violenta per contrastare la segregazione razziale e la discriminazione. La sua lotta porta a importanti traguardi, tra cui il Civil Rights Act del 1964, che proibisce la discriminazione razziale, e il Voting Rights Act del 1965, che elimina le restrizioni al voto per gli afroamericani.
I have a dream
«I have a dream (Io ho un sogno)» è l'incipit del più importante discorso tenuto da Martin Luther King Jr. il 28 agosto 1963 davanti al Lincoln Memorial di Washington, alla fine di una manifestazione per i diritti civili nota come la marcia su Washington per il lavoro e la libertà durante la presidenza Kennedy. Da quel momento la lotta contro il razzismo e la segregazione razziale non è stata più la stessa. Il discorso pronunciato davanti a 250.000 persone è stato uno dei più studiati (e copiati) della storia.
Storia del discorso
L'origine dello storico discorso nasconde alcuni segreti, ripercorsi da Clarence Benjamin Jones, consigliere e amico del reverendo, nonché autore del libro Behind the Dream: The Making of the Speech that Transformed a Nation. Secondo le ricostruzioni, il celebre intervento di Martin Luther King Jr. è nato a braccio. Infatti, solo i primi sette paragrafi erano stati preparati. Insieme a Jones, il predicatore aveva selezionato i temi e l'assistente aveva steso il testo.
Poi a un certo punto Mahalia Jackson, la cantante gospel che aveva aperto la manifestazione, ha iniziato a urlare: «Parla del sogno, Martin! Parla del sogno!». A quel punto King ha accantonato i fogli e ha preso a parlare a braccio. La parte che è entrata nella storia e che comincia proprio con «I have a dream» è improvvisata e forse è proprio lì che trova la sua forza. La tesi di Jones è confermata da altri storici e testimoni oculari. Tra questi anche George Raveling, un ex giocatore di basket che si trovava sul palco e che raccolse i fogli del discorso di King.
Sintesi
In questo discorso, King esprime la sua visione di un futuro in cui gli afroamericani fossero trattati con uguaglianza e giustizia, superando l'oppressione razziale che aveva schiacciato il suo popolo per anni. I temi chiave del discorso partono proprio dall'uguaglianza razziale fino a spingersi alla fine della segregazione, condannata da King. Inoltre, il predicatore sottolinea l'importanza di garantire i diritti civili a tutti gli americani, a prescindere dalla propria razza, compreso il diritto di voto, il diritto a una giusta rappresentanza e il diritto a trattamenti equi da parte delle istituzioni.
King sottolinea l'importanza del principio della non violenza per ottenere il cambiamento sociale. Il culmine del discorso, in cui pronuncia la celebre frase «Ho un sogno», è quello in cui descrive un futuro in cui segregazione e ingiustizia saranno sradicate e le persone potranno così vivere in armonia, senza essere giudicate dal colore della propria pelle.
Accoglienza
Il discorso suscitò reazioni contrastanti. I sostenitori dei diritti civili, i media progressisti e alcuni leader politici lo giudicarono un messaggio di pace, uguaglianza e speranza. Lo stesso Kennedy, presidente del momento, definì King «dannatamente bravo». Ma chi si opponeva al cambiamento come i politici e i media conservatori videro in quelle frasi una minaccia allo status quo e una potenziale causa di disordine sociale.
Curiosità sul discorso «I have a dream» di Martin Luther King Jr.
- Il Colonnello George R. Mundy, capo della sicurezza del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti, suggerì a King di evitare il riferimento al sogno nel discorso. Riteneva che la frase potesse apparire inappropriata e avrebbe potuto far sembrare King troppo radicale. Fortunatamente, King non seguì questo consiglio, e la frase diventò un simbolo duraturo nella lotta per i diritti civili.
- Una copia scritta del discorso di King fu consegnata all'Associated Press poco prima dell'evento. Questa copia autografata del discorso è stata venduta all'asta nel 2020 per oltre 6 milioni di dollari, evidenziando il valore storico e culturale del testo.
I fogli originali sono invece tuttora custoditi dall'ex giocatore di basket George Raveling, - Il discorso di King è stato spesso descritto come un inno per i diritti civili e un richiamo all'uguaglianza e alla giustizia. Contribuì in modo significativo a mobilitare l'opinione pubblica e a sostenere l'adozione del Civil Rights Act del 1964 e del Voting Rights Act del 1965.
- Nel dicembre del 1963, pochi mesi dopo aver tenuto il discorso, King fece causa a due società americane – la Twentieth Century Fox Records Company e la Mister Maestro Inc. – che vendevano la registrazione del discorso senza la sua autorizzazione: il giudice diede ragione a King e gli assegnò la proprietà intellettuale del discorso. Dopo la sua morte, avvenuta nel 1968, i diritti passarono alla sua famiglia, che li detiene tuttora.
I primi problemi sorsero nel 1999, quando, dopo molti anni di libera diffusione del video e del testo del discorso, la famiglia King decise di fare causa alla rete televisiva americana CBS per averne usato alcuni spezzoni durante un documentario televisivo. In una seduta di appello del processo, il giudice dichiarò che anche se il discorso di King si era svolto in pubblico la sua riproduzione audio e video fu diffusa dai mezzi di informazione giornalistici – e quindi secondo il Copyright Act del 1909 non poteva essere considerato di pubblico dominio. Per poter essere tale il video avrebbe dovuto essere fruibile in maniera esplicitamente pubblica.
Nel 2000 la CBS decise di patteggiare prima di arrivare alla sentenza definitiva. La piega che aveva preso il processo scoraggiò molti a intentare una causa per rendere di pubblico dominio la registrazione del discorso. Joseph Back, uno degli avvocati della famiglia King, nel 2006 ha detto che la famiglia King «ha sempre facilitato l’accesso a questi dati a scopo educativo e ha incoraggiato le persone interessate a contattare il King Center ad Atlanta». Solo ascoltando le parole del discorso si può davvero coglierne la forza, ma al momento è impossibile, per esempio, per una televisione o un broadcaster riprodurre legalmente il video del discorso. L'unico modo legale per farlo è acquistare il Dvd dal negozio del King Center al prezzo di 20 dollari. La proprietà intellettuale del discorso scadrà nel 2038, settanta anni dopo la sua registrazione ufficiale. Nel frattempo, la famiglia King nel 2009 ha firmato un accordo con la casa discografica EMI per la gestione dei diritti sulle registrazioni.
Il discorso integrale
Sono felice di unirmi a voi in questa che passerà alla storia come la più grande dimostrazione per la libertà nella storia del nostro paese. Cento anni fa un grande americano, alla cui ombra ci leviamo oggi, firmò il Proclama sull’Emancipazione. Questo fondamentale decreto venne come un grande faro di speranza per milioni di schiavi negri che erano stati bruciati sul fuoco dell’avida ingiustizia. Venne come un’alba radiosa a porre termine alla lunga notte della cattività.
Ma cento anni dopo, il negro ancora non è libero; cento anni dopo, la vita del negro è ancora purtroppo paralizzata dai ceppi della segregazione e dalle catene della discriminazione; cento anni dopo, il negro ancora vive su un’isola di povertà solitaria in un vasto oceano di prosperità materiale; cento anni dopo; il negro langue ancora ai margini della società americana e si trova esiliato nella sua stessa terra.
Per questo siamo venuti qui, oggi, per rappresentare la nostra condizione vergognosa. In un certo senso siamo venuti alla capitale del paese per incassare un assegno. Quando gli architetti della repubblica scrissero le sublimi parole della Costituzione e la Dichiarazione d’Indipendenza, firmarono un "pagherò" del quale ogni americano sarebbe diventato erede. Questo "pagherò" permetteva che tutti gli uomini, si, i negri tanto quanto i bianchi, avrebbero goduto dei principi inalienabili della vita, della libertà e del perseguimento della felicità.
È ovvio, oggi, che l’America è venuta meno a questo "pagherò" per ciò che riguarda i suoi cittadini di colore. Invece di onorare questo suo sacro obbligo, l’America ha consegnato ai negri un assegno fasullo; un assegno che si trova compilato con la frase: "fondi insufficienti". Noi ci rifiutiamo di credere che i fondi siano insufficienti nei grandi caveau delle opportunità offerte da questo paese. E quindi siamo venuti per incassare questo assegno, un assegno che ci darà, a presentazione, le ricchezze della libertà e della garanzia di giustizia.
Siamo anche venuti in questo santuario per ricordare all’America l’urgenza appassionata dell’adesso. Questo non è il momento in cui ci si possa permettere che le cose si raffreddino o che si trangugi il tranquillante del gradualismo. Questo è il momento di realizzare le promesse della democrazia; questo è il momento di levarsi dall’oscura e desolata valle della segregazione al sentiero radioso della giustizia.; questo è il momento di elevare la nostra nazione dalle sabbie mobili dell’ingiustizia razziale alla solida roccia della fratellanza; questo è il tempo di rendere vera la giustizia per tutti i figli di Dio. Sarebbe la fine per questa nazione se non valutasse appieno l’urgenza del momento. Questa estate soffocante della legittima impazienza dei negri non finirà fino a quando non sarà stato raggiunto un tonificante autunno di libertà ed uguaglianza.
Il 1963 non è una fine, ma un inizio. E coloro che sperano che i negri abbiano bisogno di sfogare un poco le loro tensioni e poi se ne staranno appagati, avranno un rude risveglio, se il paese riprenderà a funzionare come se niente fosse successo.
Non ci sarà in America né riposo né tranquillità fino a quando ai negri non saranno concessi i loro diritti di cittadini. I turbini della rivolta continueranno a scuotere le fondamenta della nostra nazione fino a quando non sarà sorto il giorno luminoso della giustizia.
Ma c’è qualcosa che debbo dire alla mia gente che si trova qui sulla tiepida soglia che conduce al palazzo della giustizia. In questo nostro procedere verso la giusta meta non dobbiamo macchiarci di azioni ingiuste.
Cerchiamo di non soddisfare la nostra sete di libertà bevendo alla coppa dell’odio e del risentimento. Dovremo per sempre condurre la nostra lotta al piano alto della dignità e della disciplina. Non dovremo permettere che la nostra protesta creativa degeneri in violenza fisica. Dovremo continuamente elevarci alle maestose vette di chi risponde alla forza fisica con la forza dell’anima.
Questa meravigliosa nuova militanza che ha interessato la comunità negra non dovrà condurci a una mancanza di fiducia in tutta la comunità bianca, perché molti dei nostri fratelli bianchi, come prova la loro presenza qui oggi, sono giunti a capire che il loro destino è legato col nostro destino, e sono giunti a capire che la loro libertà è inestricabilmente legata alla nostra libertà. Questa offesa che ci accomuna, e che si è fatta tempesta per le mura fortificate dell’ingiustizia, dovrà essere combattuta da un esercito di due razze. Non possiamo camminare da soli.
E mentre avanziamo, dovremo impegnarci a marciare per sempre in avanti. Non possiamo tornare indietro. Ci sono quelli che chiedono a coloro che chiedono i diritti civili: "Quando vi riterrete soddisfatti?" Non saremo mai soddisfatti finché il negro sarà vittima degli indicibili orrori a cui viene sottoposto dalla polizia.
Non potremo mai essere soddisfatti finché i nostri corpi, stanchi per la fatica del viaggio, non potranno trovare alloggio nei motel sulle strade e negli alberghi delle città. Non potremo essere soddisfatti finché gli spostamenti sociali davvero permessi ai negri saranno da un ghetto piccolo a un ghetto più grande.
Non potremo mai essere soddisfatti finché i nostri figli saranno privati della loro dignità da cartelli che dicono: “Riservato ai bianchi". Non potremo mai essere soddisfatti finché i negri del Mississippi non potranno votare e i negri di New York crederanno di non avere nulla per cui votare. No, non siamo ancora soddisfatti, e non lo saremo finché la giustizia non scorrerà come l’acqua e il diritto come un fiume possente.
Non ha dimenticato che alcuni di voi sono giunti qui dopo enormi prove e tribolazioni. Alcuni di voi sono venuti appena usciti dalle anguste celle di un carcere. Alcuni di voi sono venuti da zone in cui la domanda di libertà ci ha lasciato percossi dalle tempeste della persecuzione e intontiti dalle raffiche della brutalità della polizia. Siete voi i veterani della sofferenza creativa. Continuate ad operare con la certezza che la sofferenza immeritata è redentrice.
Ritornate nel Mississippi; ritornate in Alabama; ritornate nel South Carolina; ritornate in Georgia; ritornate in Louisiana; ritornate ai vostri quartieri e ai ghetti delle città del Nord, sapendo che in qualche modo questa situazione può cambiare, e cambierà. Non lasciamoci sprofondare nella valle della disperazione.
E perciò, amici miei, vi dico che, anche se dovrete affrontare le asperità di oggi e di domani, io ho sempre davanti a me un sogno. È un sogno profondamente radicato nel sogno americano, che un giorno questa nazione si leverà in piedi e vivrà fino in fondo il senso delle sue convinzioni: noi riteniamo ovvia questa verità, che tutti gli uomini sono creati uguali.
Io ho davanti a me un sogno, che un giorno sulle rosse colline della Georgia i figli di coloro che un tempo furono schiavi e i figli di coloro che un tempo possedettero schiavi, sapranno sedere insieme al tavolo della fratellanza.
Io ho davanti a me un sogno, che un giorno perfino lo stato del Mississippi, uno stato colmo dell’arroganza dell’ingiustizia, colmo dell’arroganza dell’oppressione, si trasformerà in un’oasi di libertà e giustizia.
Io ho davanti a me un sogno, che i miei quattro figli piccoli vivranno un giorno in una nazione nella quale non saranno giudicati per il colore della loro pelle, ma per le qualità del loro carattere. Ho davanti a me un sogno, oggi!
Io ho davanti a me un sogno, che un giorno ogni valle sarà esaltata, ogni collina e ogni montagna saranno umiliate, i luoghi scabri saranno fatti piani e i luoghi tortuosi raddrizzati e la gloria del Signore si mostrerà e tutti gli essere viventi, insieme, la vedranno. È questa la nostra speranza. Questa è la fede con la quale io mi avvio verso il Sud.
Con questa fede saremo in grado di strappare alla montagna della disperazione una pietra di speranza. Con questa fede saremo in grado di trasformare le stridenti discordie della nostra nazione in una bellissima sinfonia di fratellanza.
Con questa fede saremo in grado di lavorare insieme, di pregare insieme, di lottare insieme, di andare insieme in carcere, di difendere insieme la libertà, sapendo che un giorno saremo liberi. Quello sarà il giorno in cui tutti i figli di Dio sapranno cantare con significati nuovi: paese mio, di te, dolce terra di libertà, di te io canto; terra dove morirono i miei padri, terra orgoglio del pellegrino, da ogni pendice di montagna risuoni la libertà; e se l’America vuole essere una grande nazione possa questo accadere.
Risuoni quindi la libertà dalle poderose montagne dello stato di New York.
Risuoni la libertà negli alti Allegheny della Pennsylvania.
Risuoni la libertà dalle Montagne Rocciose del Colorado, imbiancate di neve.
Risuoni la libertà dai dolci pendii della California.
Ma non soltanto.
Risuoni la libertà dalla Stone Mountain della Georgia.
Risuoni la libertà dalla Lookout Mountain del Tennessee.
Risuoni la libertà da ogni monte e monticello del Mississippi. Da ogni pendice risuoni la libertà.
E quando lasciamo risuonare la libertà, quando le permettiamo di risuonare da ogni villaggio e da ogni borgo, da ogni stato e da ogni città, acceleriamo anche quel giorno in cui tutti i figli di Dio, neri e bianchi, ebrei e gentili, cattolici e protestanti, sapranno unire le mani e cantare con le parole del vecchio spiritual: "Liberi finalmente, liberi finalmente; grazie Dio Onnipotente, siamo liberi finalmente".
Stefania Leo