Da avvocata allo Schwa: l'inclusività si realizza (anche) con la lingua?
Il linguaggio inclusivo tiene conto delle differenze, le valorizza e rifugge dagli stereotipi, anche relativi ai ruoli di genere
Di linguaggio si discute spesso e, altrettanto spesso, sorge un’obiezione: è inutile dare così tanto peso alle parole, perché quello che conta sono i fatti. Non è del tutto vero: le parole sono gli unici strumenti di cui disponiamo per descrivere la realtà in cui viviamo e, così facendo, contribuire indirettamente a plasmarla. Partiamo da qui per riflettere su cosa significa linguaggio inclusivo e, in particolare, su come anche la lingua possa contribuire a scardinare la discriminazione femminile.
Il significato di “inclusione”
Iniziamo sgombrando il campo da un equivoco: inclusività non significa azzerare le differenze. Al contrario, l’inclusività riconosce e accoglie tutte le possibili differenze, creando le condizioni giuste affinché ciascuna di esse possa esprimere la propria identità e il proprio valore.
Questo principio vale in qualsiasi campo. Pensiamo per esempio alla genitorialità. Il congedo retribuito per i neogenitori è una misura di assistenza fondamentale per permettere loro di prendersi cura del neonato (o della neonata) nei primi mesi di vita ma, da solo, non basta a garantire una conciliazione ottimale tra lavoro e vita privata. Questo secondo obiettivo, più ampio e di sistema, si ottiene offrendo flessibilità negli orari e nella sede, parità di trattamento, opportunità di crescita professionale che tengano conto anche delle esigenze di padri e madri.
Cosa significa linguaggio inclusivo
Per il linguaggio vale lo stesso principio. Inclusione significa innanzitutto dare per scontato che a leggere o ascoltare siano persone eterogenee per genere, età, professione, condizioni fisiche e sociali. A partire da questa consapevolezza, è bene adottare formule che riconoscano e rispettino queste differenze, evitando gli stereotipi. Qualche esempio:
- descrivere in modo neutro una determinata condizione senza identificarla in toto con la persona, ad esempio “persona con disabilità” (e non “handicappato” o “invalido”);
- quando si è incerti del contesto e non è necessario per motivi legali, preferire il termine “partner” rispetto a “marito o moglie”;
- non infantilizzare o ridicolizzare determinate categorie (donne, minoranze etniche ecc.) o gruppi di età (per esempio adolescenti o anziani).
Gli stereotipi di genere, poi, meritano un capitolo a parte perché sono talmente radicati nella nostra cultura da essere espressi in modo talvolta automatico. Tra gli errori da evitare c’è, per esempio, quello di:
- dare per scontato che, all’interno di una famiglia, l’uomo lavori e la donna si occupi della casa, delle pulizie e della cucina;
- presupporre che una coppia abbia intenzione di sposarsi e avere dei figli;
- in un contesto lavorativo, associare a priori gli uomini alle mansioni di responsabilità (presidente, amministratore delegato, avvocato, ingegnere ecc.) e le donne ai ruoli gerarchicamente subordinati (assistente, segretaria, infermiera ecc.);
- evitare l’articolo determinativo davanti ai cognomi femminili, poiché risulta discriminante.
Perché declinare le professioni al femminile
Proprio nell’ambito lavorativo si gioca una delle grandi battaglie del parlare femminista: quella sulla declinazione dei ruoli professionali a seconda del genere. Nell’arco degli ultimi decenni, infatti, la presenza femminile si è ampliata anche a professioni che tradizionalmente erano appannaggio quasi esclusivo degli uomini. Insistere nel denominarle al maschile (il presidente, l’avvocato, il direttore ecc.), spiega la sociolinguista Vera Gheno, significa in sostanza associare la mascolinità al prestigio. Perpetuare questo schema di pensiero può contribuireindirettamente a confermare la disparità di genere all’interno della nostra società.
Che fare, dunque? Basta semplicemente seguire le regole base della grammatica italiana, che suddivide i sostantivi in quattro categorie:
- Genere fisso: c’è un termine per il maschile e un termine diverso per il femminile, come fratello e sorella, marito e moglie.
- Genere comune: il termine resta sempre lo stesso e basta cambiare l’articolo, come il/la pediatra, il/la giornalista, il/la astronauta, il/la presidente.
- Genere promiscuo: la parola prevede un solo genere, per esempio la guardia, la sentinella, la spia.
- Genere mobile: in questi casi, che sono la maggioranza, basta seguire le regole morfologiche della lingua italiana, per esempio rettore/rettrice, ministro/ministra, avvocato/avvocata, ingegnere/ingegnera.
Il fatto che alcune parole al femminile suonino bizzarre o cacofoniche (è il caso ad esempio di architetta o ingegnera) deriva, nella maggior parte dei casi, dalla scarsa abitudine a usarle. In caso di dubbi sulla dicitura corretta è sufficiente consultare un dizionario, anche online.
Lingua e genere: dall’asterisco allo Schwa
Il fatto che la lingua italiana – a differenza per esempio dell’inglese – preveda i generi è senza dubbio un ostacolo per chi si occupa di lingua e femminismo. Quando per esempio ci si riferisce a un gruppo, consuetudine vuole che si adotti il maschile sovraesteso (es. “i dipendenti dell’azienda sono convocati…”). Se in certe occasioni si può aggirare il problema, per esempio raddoppiando il soggetto (es. “lavoratori e lavoratrici”) oppure utilizzando il sostantivo persone (“le persone dipendenti sono convocate…”), simili stratagemmi possono risultare pesanti e artificiosi soprattutto se adottati su testi molto lunghi.
In alcuni contesti, come mail, post sui social network o messaggi informali, è emersa la consuetudine di usare l’asterisco (*) al termine di sostantivi, aggettivi e verbi, per evitare di doverli declinare (“i lavorator* sono convocat*”): una soluzione del genere però è impronunciabile e dunque praticabile soltanto all’interno di brevi comunicazioni per iscritto.
Lo schwa (ә) svolge la medesima funzione, ma con il vantaggio di essere codificato nell’alfabeto fonetico internazionale e di poter essere pronunciato. Una parte della linguistica femminista, dunque, lo vede come un possibile strumento per superare il binarismo di genere.
Valentina Neri
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