intelligènza
IndiceLessico
sf. [sec. XIV; dal latino intelligentía].
1) Facoltà di intendere con la mente; capacità di affrontare e risolvere situazioni e problemi che ci vengono sottoposti dall'ambiente che ci circonda: il progresso è il frutto dell'intelligenza umana; quoziente d'intelligenza.
2) Più comune, capacità di intendere e ragionare: persona di intelligenza non comune. In particolare, attitudine a intendere con prontezza, con facilità: ha dato parecchie prove d'intelligenza. Anche abilità, competenza, perizia: lavoro fatto con intelligenza.
3) Per estensione, persona, ente dotato di grandi capacità intellettuali: le migliori intelligenze del nostro tempo; la prima intelligenza, Dio; le intelligenze celesti, gli angeli.
4) Non comune, intendimento, comprensione, interpretazione: un testo di difficile intelligenza. Per estensione, accordo, intesa: avere intelligenze col nemico. § Nel diritto penale, chiunque tiene intelligenze con lo straniero a scopo di guerra contro lo Stato italiano è punito con la reclusione non inferiore a 10 anni (art. 243 Codice Penale). Le intelligenze con lo straniero per impegnare lo Stato italiano alla neutralità o alla guerra sono punite con la reclusione da 5 a 15 anni (art. 245 Codice Penale). Le intelligenze con lo straniero per favorire le operazioni militari del nemico in danno dello Stato italiano sono punite con la reclusione non inferiore a 10 anni o con l'ergastolo se lo scopo è raggiunto (art. 247 Codice Penale).
5) Ant., competenza in un determinato campo.
6) In marina, bandiera o luce che serve a indicare che il segnale ricevuto è stato capito.
7) In cibernetica, intelligenza artificiale.
Etologia
Il termine è stato applicato in modi diversi: talvolta esso equivale alle capacità, e in particolare alla velocità di apprendimento, talaltra implica la capacità di astrazione, di analisi delle esperienze pregresse, ecc. (vedi, per esempio, intuizione). Dato che ogni animale è adattato al suo ambiente, spesso le sue capacità di apprendimento non possono essere paragonate a quelle di altri animali se non nel contesto di specifiche situazioni. Un ratto, per esempio, apprende assai meglio di una rana a percorrere labirinti (è adattato a trascorrere gran parte dell'esistenza in cunicoli sotterranei), ma una rana impara a discriminare i sapori altrettanto bene di un ratto. Pertanto il paragone fra l'intelligenza di specie diverse dovrebbe tenere in considerazione se le differenze riscontrate nello svolgimento di un determinato test derivano da differenze nelle capacità motorie o percettive piuttosto che dalle capacità cognitive. È pertanto opinione di molti etologi che l'intelligenza degli animali, inclusa la specie umana, possieda molti aspetti, quali le capacità di discriminazione e generalizzazione, l'immaginazione, la memoria, la capacità di risolvere problemi, la capacità di utilizzare esperienze precedenti per valutare le situazioni nuove, ecc.
Psicologia: cenni storici
Il concetto di intelligenza è indubbiamente uno dei più discussi e difficili da definire dell'intera psicologia contemporanea. Ogni autore che si è occupato del problema ne ha dato una diversa definizione (già nel 1954, lo psicologo americano L. J. Bischoff elencava cinquanta definizioni diverse). Per di più, molte definizioni apparentemente uguali sono poi costruite su sistemi teorici talmente diversi da non coincidere affatto. All'interno del discorso sull'intelligenza è venuta a confluire tutta una serie di elementi di carattere estraneo che hanno ulteriormente confuso le idee. Si allude sia ai problemi relativi alla misurazione dell'intelligenza, sia ad altri di carattere più “politico”, che discendono anche da un certo uso e da certe interpretazioni delle misure. Si è così venuta spesso a creare una situazione per certi versi paradossale, per cui vi sono autori che negano addirittura l'esistenza di una funzione mentale che possa essere indicata come intelligenza, altri che si limitano a un discorso grossolanamente operazionale, evitando con cura qualsiasi teorizzazione (“l'intelligenza è ciò che viene misurato dai test di intelligenza”, secondo la famosa espressione di A. Binet); e d'altro canto sono sempre più numerose le definizioni di intelligenza di tipo sommamente vasto (e al limite scarsamente utili sul piano operativo) secondo le quali l'intelligenza è globalmente la capacità dell'individuo di adattarsi all'ambiente che lo circonda, risolvendo i problemi che questo gli presenta. L'autore che forse ha più posto l'accento sull'adattamento in rapporto all'intelligenza è stato lo psicologo svizzero J. Piaget, secondo il quale l'intelligenza va vista come il processo attraverso cui l'individuo trova un equilibrio con l'ambiente. Ciò si verifica attraverso due processi, quello dell'assimilazione (attraverso il quale l'individuo incorpora nei propri schemi mentali dati provenienti dall'esterno) e quello dell'accomodamento (attraverso cui l'individuo modifica i propri schemi d'azione sulla base delle richieste dell'ambiente). Tra le altre numerose definizioni di intelligenza di frequente riscontro, si segnalano quelle che considerano l'intelligenza stessa come l'insieme dei processi cognitivi, o almeno di quelli legati all'attività di pensiero, o la identificano con alcuni aspetti particolari dell'attività di pensiero (pensiero astratto, capacità di usare simboli, di risolvere problemi, ecc.). Negli ultimi decenni del sec. XX, soprattutto a seguito delle ricerche degli psicologi americani J. P. Guilford ed E. P. Torrance, si è dato un grande valore, all'interno degli studi sull'intelligenza, al pensiero divergente, e quindi alla creatività.
Psicologia: i test mentali
I primi tentativi scientificamente validi di misurare l'intelligenza si devono, nella seconda metà dell'Ottocento, all'inglese F. Galton. Questi si muoveva in una prospettiva evoluzionista e pensava che l'intelligenza (o meglio, le abilities, o capacità, in senso lato) fosse ereditaria. Uno degli psicologi che fu più influenzato dagli studi di Galton fu l'americano J. McKeen Cattell, che può essere considerato l'iniziatore della teoria moderna dei test mentali. L'opera di Cattell passò però, all'inizio del secolo, in secondo piano, quando comparvero i risultati delle ricerche del francese A. Binet, il vero creatore dei test di intelligenza modernamente intesi. Nel 1904 il Ministero dell'Educazione francese affidò a Binet il compito di mettere a punto degli strumenti di misura che consentissero di individuare precocemente gli allievi con bassa efficienza intellettiva, in modo da poterli indirizzare verso scuole speciali. Con la collaborazione di T. Simon, Binet mise a punto una scala di intelligenza, che era costruita sulla base di un concetto fondamentale: l'età mentale. Secondo Binet, infatti, era ragionevole assumere che, normalmente, l'intelligenza di un individuo aumentasse nel corso del suo sviluppo. Egli allora preparò tutta una serie di problemi, di difficoltà crescente, graduati per età. In altri termini, vi erano dei problemi che di norma venivano risolti dai bambini che avevano un'età cronologica di quattro anni, altri risolti da bambini di cinque anni, e così via. Bastava allora vedere quali problemi era in grado di risolvere un bambino per determinare quale fosse la sua età mentale, indipendentemente dall'età reale o cronologica. Binet propose di utilizzare, come indice di intelligenza, la differenza tra età cronologica ed età mentale. Tale indice venne però criticato nel 1912 dallo psicologo tedesco W. Stern, che osservò come l'uso della differenza portasse a valutazioni inattendibili, solo che si variasse l'età dei soggetti presi in esame. Egli propose quindi di utilizzare il rapporto tra età mentale ed età cronologica. A tale rapporto, moltiplicato per 100, viene dato il nome di quoziente intellettivo, o QI, ed è ormai divenuto di uso universale. La scala di Binet e Simon ha avuto numerose revisioni (due a opera dello stesso Binet); tra queste, le più importanti si devono allo psicologo americano L. M. Terman e sono ancora di corrente uso in psicodiagnostica. Negli stessi anni in cui Binet elaborava la sua prima scala, però, uno psicologo inglese, C. Spearman, dava l'avvio a una nuova corrente di ricerche che avrebbero avuto una notevole importanza negli studi sull'intelligenza. Spearman aveva osservato come, di norma, pur essendo i test intellettivi composti di prove molto diverse l'una dall'altra (intelligenza verbale, memoria, spazialità, ecc.), potesse facilmente rilevarsi che i vari soggetti avessero risultati abbastanza simili nelle varie prove. Spearman elaborò allora una tecnica particolarmente raffinata di elaborazione statistica dei dati, l'analisi fattoriale, attraverso la quale credette di poter dimostrare l'esistenza di un fattore unitario alla base di tutte le prestazioni che coinvolgevano l'intelligenza. A tale fattore egli diede il nome di g, o fattore di intelligenza generale. L'ipotesi di Spearman non fu però in seguito confermata, anche se l'analisi fattoriale si rivelò un elemento pressoché insostituibile in psicologia, non solo nel campo dell'intelligenza. Verso la fine del sec. XX sono nati molteplici strumenti per misurare l'intelligenza, sia nei suoi aspetti generali sia nelle abilità specifiche di cui si compone. Sono però anche nate numerose polemiche, che hanno posto seriamente in dubbio la validità dei classici strumenti di misura, e concetti quali quello di QI. In particolare, la discussione si è appuntata sul problema dell'influenza dei fattori culturali sull'intelligenza, sulla base del fatto che soggetti appartenenti a gruppi sociali socialmente svantaggiati o a particolari gruppi etnici o subculture (per esempio gli afroamericani) mostrano risultati, in termini di QI, molto inferiori a quelli di appartenenti a gruppi socialmente privilegiati. Se alcuni autori hanno sostenuto, sulla base di tali risultati, un'inferiorità razziale, per esempio dei neri (e tra questi, nel 1969, provocando un'accesa polemica, lo statunitense A. R. Jensen), l'opinione prevalente è che i fattori culturali influiscono notevolmente sullo sviluppo dell'intelligenza, e che comunque gli strumenti a nostra disposizione non ci consentono ancora di discernere nelle risposte del soggetto tra quanto è dovuto e no al suo patrimonio culturale. Lo sforzo è quindi rivolto a cercare di creare, accanto a test che presentano precisi limiti culturali (detti culture-bound), altri che ne siano privi (culture-free).