attóre

Indice

Lessico

sm. (f. -trice) [sec. XIV; dal latino actor-ōris, da agĕre, fare, rappresentare].

1) Chi recita una parte in un'azione drammatica rappresentata a teatro o al cinematografo; anche, più genericamente, chi prende parte a un pubblico spettacolo: attore comico, tragico; attore televisivo; attore di prosa, di varietà; attore giovane, attrice giovane, chi, nel teatro italiano degli inizi del Novecento, interpretava il ruolo di amoroso. Fig., chi partecipa attivamente a una vicenda della vita reale: fu l'involontario attore dell'incidente.

2) In un processo, la parte che prende l'iniziativa d'introdurre le sue accuse contro l'altra parte (convenuto).

3) Ant. toscano, agente; fattore.

Teatro

Secondo un'antica tradizione si vorrebbe che sia stato Tespi a creare l'attore, colui il quale sulla scena rappresenta una parte, impersona cioè il personaggio di un dramma o di una commedia. In realtà non si conosce il momento esatto in cui dalla narrazione indiretta si passò alla recitazione. Sappiamo di certo che nell'antica Grecia un solo attore agiva sulla scena impersonando più parti, mentre bisogna giungere a Eschilo per incontrare un secondo attore: il deuteragonista. Con Sofocle entrò poi in scena un terzo attore: il tritagonista. La parte principale era, come suggerisce il nome, del protagonista, mentre al deuteragonista spettavano le parti di secondo piano e al tritagonista quelle del prologo e dei monarchi. L'attore nell'antichità, pur considerato uomo d'ingegno, venne spesso tuttavia accomunato a maghi e stregoni. Varie furono nel tempo la sua fortuna e la considerazione in cui fu tenuto dalle leggi e dai costumi. L'onore riservato al teatro in Grecia significò anche onore per chi lo esercitava. L'attore greco, che recitava col volto coperto dalla maschera, calzando coturni, interpretava sia le parti di uomo, sia quelle di donna , poiché a quest'ultima era vietato calcare le scene, così come lo fu poi alle donne romane. Ma se tanto l'attore greco quanto quello romano potevano sovente con la loro bravura giungere a guadagnare una fortuna, in Roma l'arte della recitazione non era tenuta in alta stima. L'attore greco, cittadino di pieno diritto, poteva riunirsi in corporazioni; l'attore romano , che recitava senza maschera, era solitamente uno schiavo o un liberto e la donna, che cominciò a recitare durante il basso impero, era ancora meno stimata. Il periodo del declino teatrale inevitabilmente segnò la scomparsa dell'attore. Decadde Roma, finì l'Evo Antico e il Medioevo si configurò in un mondo alla ricerca della sua anima. Il mistero religioso che riproponeva al popolo la rappresentazione non voleva attori ma sacerdoti e fedeli, affinché le manifestazioni della fede non venissero contaminate da falsi sentimenti, mentre i misteri profani erano recitati più da saltimbanchi che da attori. Bisognò aspettare la Commedia dell'Arteper ritrovare l'attore (già unito nelle prime compagnie) alla ricerca di una sua dignità professionale, che però gli era negata dalla stessa Chiesa, che relegava gli attori in un mondo di disprezzati: concubini, usurai, bestemmiatori. La condanna si trova nel rituale di Parigi del 1654 e, se nel 1789 la Rivoluzione francese sanzionò la parità dell'attore a ogni altro cittadino sul piano del diritto, fu soltanto col Concilio di Soissons del 1849 che questi trovò la sua piena riabilitazione anche di fronte alle leggi religiose, inflessibili nel negare l'estremo conforto ai commedianti e spesso persino agli autori di teatro. Se a Crébillon venne negata una messa, ad Adrienne Lecouvreur si negò la sepoltura e la sua salma venne tumulata clandestinamente, suscitando lo sdegno di Voltaire contro l'iniquo trattamento. Ma il mutato corso della storia, con la Rivoluzione francese, aprì all'attore le porte della stima e spesso della fama. La conseguente nascita del divismo, dei mostri sacri della scena, in particolare nell'Ottocento, suscitò nuovi tentativi di distruzione morale dell'attore, (O. Mirbeau lo definì un piffero, per trarre una nota dal quale bisogna soffiarci dentro). Tuttavia, accanto alle denigrazioni, l'attore conobbe l'esaltazione, poiché egli dava vita, sentimenti e passioni alle creature della fantasia. Alla fine dell'Ottocento in Francia gli attori si riunirono in associazioni. Lo stesso accadde poco dopo in Inghilterra e l'esempio fece scuola. Con la comparsa dei “mattatori” Rossi, Salvini, Novelli, Bernhardt, Duse, ecc. (per molti dei quali gli autori scrissero opere su misura: D'Annunzio per la Duse, Rostand per Coquelin, Shaw per la Terry, secondo un costume che continuò poi a lungo, non ultimo si ricordi Pirandello per la Abba), si acuì il bisogno di ridare una nuova dimensione alla recitazione. E mentre Craig, Reinhardt e altri si schieravano contro l'egemonia del grande attore, dalla Russia giunsero le nuove teorie di Stanislavskij, che a Mosca nei primi decenni del nostro secolo insegnava il suo “sistema”, secondo il quale l'attore deve lavorare su se stesso e sul personaggio da interpretare-rivivere sino a raggiungere l'intima immedesimazione col personaggio stesso. L'attore imparò a esprimersi in modo nuovo e il “sistema” di Stanislavskij, diversamente elaborato, trovò eco in tutto il mondo: in Francia con Copeau, a Londra nel teatro Workshop, in America nell'Actors' Studio diretto da Elia Kazan e da Lee Strasberg e nelle scuole di Stella Adler, di Cheryl Crawford e Harold Clurman. In Germania nel 1928 Piscator, con la messinscena di Die Abenteuer des braven Soldaten Schweyk (Le avventure del buon soldato Sweyk) di J. Hašek (nella riduzione di Gasbarra, Lania e Brecht), consacrava il teatro epico, filtrato attraverso il teatro pedagogico, e Brecht, dal canto suo, diffondeva poi la teoria dello “straniamento”, che pone l'attore in posizione critica di fronte al personaggio da interpretare per liberare il pubblico dalla suggestione del sentimento e della passione realisticamente espressi. Opposte teorie consentono oggi all'attore di apparire in una concertata messinscena dove tutto appare armonicamente fuso, parte di un insieme, oppure incontrastato dominatore della scena, “portaparola” di un autore ch'egli non rispetta, dissacrando nella recitazione la stessa paternità dell'opera interpretata, pur sempre guidata da quell'invenzione scenica che nell'attore o nell'autore è forza viva del teatro. Ma, pur nel gioco delle tante avanguardie, oggi come ieri alla ricerca di nuove formule, l'attore resta il fondamentale mediatore tra la creazione pura dell'autore e la reinvenzione ch'egli propone al suo pubblico.

Cinema

Agli inizi del cinema, il nome del personaggio era più importante di quello del suo interprete . Il fisico, la presenza, una particolare fotogenia valevano giustamente più di un'esperienza teatrale e l'attore doveva puntare su modi espressivi diversi: la mimica facciale, il controllo dei gesti, ecc. . Uomo “visibile” (come scrisse nel 1924 il teorico B. Balázs), in virtù del primo piano egli veniva ingrandito e avvicinato allo spettatore . Così, in URSS, il predominio dell'attore-massa ricondusse alla funzionalità dei tipi, dei volti plastici, ecc. e riportò in secondo piano la scuola del Teatro d'Arte di Mosca. Ma quando tale educazione estetica fu compiuta col muto, arrivò il sonoro a sconvolgere tutto con il rinnovato peso della parola. Rispuntarono gli interpreti educati sul palcoscenico, sebbene proprio Hollywood, istruita dai fenomeni divistici del muto, lanciasse contemporaneamente una nuova leva di attori spontanei, dotati di sex-appeal e di un'estrema naturalezza di atteggiamenti . Costoro, per la verità, recitarono un po' sempre la stessa parte, specializzandosi in determinati generi di film ; mentre gli altri, quelli di scuola teatrale, si affermarono con la varietà dei ruoli: furono gli assi del trasformismo, i mostri sacri dello schermo, oltre che, come accadeva sovente, del palcoscenico . Altrettanto avveniva in Europa, sebbene in Francia la generale tendenza al populismo chiedesse agli attori una specifica caratterizzazione di vita vissuta . In URSS, con il realismo socialista, si rovesciarono le carte rispetto al periodo rivoluzionario: ristabilito il ruolo dell'individuo, l'interprete riprendeva quota come artista creatore. Mentre il neorealismo italiano rilanciò l'interprete “preso dalla strada” , al contrario il cinema americano tornò a scuola (Actors' Studio) per l'approfondimento dei metodi psicologici . Dopo l'ultima esplosione di divismo esclusivamente sessuale , oggi lo star-system è in ritirata dovunque e un equilibrio sembra, forse per la prima volta, profilarsi tra le due tendenze fondamentali (l'attore improvvisato e il professionista, l'interprete come “materiale plastico” e l'artista creatore), che sempre più mirano a coesistere anche nello stesso film . Ciò è soprattutto possibile laddove la personalità di un regista predomini, o dove prevalgano sistemi di lavoro che non ammettono scandalose sperequazioni economiche tra i vari componenti del cast.

Per il cinema

L. Chiarini, U. Barbaro, L'attore, 3 voll., Roma, 1938 seg.; L'acteur, in “Cahiers du Cinéma”, XI, 66, Parigi, 1956; G. C. Castello, Il divismo, mitologia del cinema, Torino, 1957; V. Pudovkin, La settima arte, Roma, 1961; E. Morin, I divi, Milano, 1963; G. Aristarco, Il mito dell'attore, Bari, 1983.

Per il teatro

C. Tamberlani, L'interpretazione nel teatro e nel cinema, Roma, 1941; L. Chiarini, U. Barbaro, L'arte dell'attore, Roma, 1950; G. Calendoli, L'attore. Storia di un'arte, Roma, 1959; Autori Vari, L'attore di teatro al cinema e alla televisione, in “Bianco e Nero”, n. 8, Roma, 1959; A. M. Ripellino, Il trucco e l'anima, Torino, 1965; K. Stanislavskij, Il lavoro dell'attore sul personaggio, Bari, 1988.

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