Siciliàna, scuòla-
Indicemovimento, o, secondo la definizione di Dante (De vulgari eloquentia), gruppo di poeti, che ebbe il suo centro alla corte di Federico II di Svevia (1194-1250) a Palermo. La scuola siciliana fu costituita, oltre che dal re stesso e dai suoi figli Manfredi, Enzo e Federico d'Antiochia, da nobili cortigiani e alti dignitari del regno, da trovatori e giullari venuti dalla Provenza o da varie regioni di Italia che, durante il sec. XIII, diffusero la poesia lirica (Rambertino Buvalelli, Lanfranco Cigala, Bonifazio Cibo, Bartolomeo Zorzi, Sordello da Goito ecc.). Il codice letterario e cavalleresco proprio delle corti provenzali, trovò fertile terreno particolarmente a Palermo. La maggiore novità, di carattere tutto formale, fu l'uso, da parte dei poeti, di linguaggi volgari dell'Italia centrosettentrionale e meridionale, non esclusivamente del volgare siciliano, liberati dagli elementi troppo provinciali e dialettali, così da creare un linguaggio originale che non aveva riscontro nell'uso quotidiano e popolare, ma nemmeno nell'ambito della stessa corte. Artificiosi e convenzionali furono anche i contenuti della lirica siciliana, quindi assolutamente privi di notazioni autobiografiche: vi compare prevalentemente l'amore di tipo feudale, di sicura ispirazione cortese e provenzale, secondo il quale il poeta dichiara la sua servitù assoluta alla irraggiungibile donna amata, cioè “leanza, timore, soggezione e fede”, tipiche virtù del vassallo perfetto. Gli argomenti più frequenti di cui i poeti si avvalsero nelle loro liriche si possono facilmente raggruppare: lamenti di fanciulle maritate per forza, o desiderose di essere amate, “contrasti” fra innamorati, come quello, famoso, di Cielo d'Alcamo, tradimenti, canti della lontananza ecc. Se alla scuola siciliana mancò un'originalità di stile e di sentimenti, fondamentale fu, tuttavia, questa esperienza per lo svolgimento della storia della letteratura e della cultura italiane. La lingua letteraria ricevette un prezioso avvio, sulla scia di quei primi esemplari: molti rimatori e poeti successivi si rifecero ai modelli di tale scuola e rielaborarono il linguaggio poetico della corte di Federico II. Di lì a poco, cioè dopo la battaglia di Benevento (1266), un analogo tipo di attività poetica si ebbe in Toscana (scuola di transizione), con spunti più originali e sinceri, e motivi del mondo borghese, ispirati alle lotte politiche, alla morale, alla fede religiosa, con poeti come Guittone del Viva d'Arezzo, Chiaro Davanzati, Bonagiunta Orbicciani ecc. Molto dovettero alla scuola siciliana gli stessi poeti dello “stil novo” tra cui lo stesso Dante. Fra i poeti che più degli altri dimostrarono una certa vena originale e una potenza espressiva – anche se sempre offuscata da un eccessivo formalismo – possono essere ricordati il notaio imperiale Iacopo da Lentini, specialmente per la canzoneMeravilliosamente; Giacomino Pugliese, che si valse quasi sempre di motivi provenzaleggianti; Rinaldo e Iacopo d'Aquino, forse appartenenti alla stessa famiglia da cui era uscito San Tommaso; il messinese Odo delle Colonne, a cui viene attribuito il celebre lamento Oi lassa, 'namorata...; il già ricordato Cielo d'Alcamo che è forse l'unico a introdurre nella sua poesia elementi di gusto realista e popolare (Rosa fresca aulentissima...) e che forse, però, nativo di Salerno, come alcuni ritengono, non appartenne nemmeno alla cerchia palermitana, ma costituì un fatto letterario a sé stante. Rarissime le notizie su tutti questi autori, tra cui vi sono anche il protonotaio Pier della Vigna ricordato da Dante, Iacopo Mostacci, Ruggero d'Amici, Guido delle Colonne, Ruggerone da Palermo, Stefano Protonotaro, Mazzeo di Rico, e alcuni poeti dell'Italia centrale e settentrionale, come il senese Folcacchiero de' Folcacchieril'aretino Arrigo Testa, il genovese Parcivalle Doria. Suggestiva l'ipotesi proposta da alcuni studiosi, secondo la quale i testi dei poeti siciliani sarebbero stati trascritti nei primi anni del Trecento da copisti toscani, forse a Bologna, perdendo per sempre la loro fisionomia dialettale: ne sarebbero testimonianza l'inesattezza attuale di molte rime che può essere corretta riportando nei testi le corrispondenti parole in volgare siciliano. Inoltre, solo pochi testi ci sono pervenuti nella versione originaria siciliana, il che fa supporre che effettivamente, giunte in Toscana o a Bologna, le liriche abbiano subito un più o meno pesante intervento da parte di fautori del toscanismo.
Bibliografia
A. Monteverdi, Saggi e studi sulla letteratura italiana dei primi secoli, Milano-Napoli, 1954; G. Contini, Poeti del Duecento, Milano-Napoli, 1960; E. Pasquini, A. Quaglio, Le origini e la scuola siciliana, Bari, 1981.