Amitābha
IndiceReligione
Uno dei più importanti Dhyāni-Buddha della religione buddhista; la sua concezione ebbe rilevanti sviluppi nella storia del buddhismo extra-indiano. Gli attributi principali di Amitābha sono la misericordia e la luminosità; viene localizzato nell'estremità occidentale dell'universo, che costituisce una specie di paradiso. La venerazione di Amitābha si organizza già nel sec. IV nelle elaborazioni originali del buddhismo cinese. Sorge una setta, detta Terre Pure da un nome del paradiso di Amitābha. Vi si insegna che chi non riesce a conquistare la salvezza con i propri meriti può sempre sperare nella misericordia di Amitābha. Di qui la pratica essenziale: la continua invocazione di Amitābha. Quando il buddhismo penetra in Giappone, il culto di Amitābha (amidaismo) trova una buona diffusione e si perfeziona nella setta jodo che si riallaccia alla cinese Terre Pure.
Iconografia
Con l'evoluzione della dottrina Mahāyna (Grande Veicolo) si moltiplicano nei cieli buddhistici le presenze metafisiche di Buddha e Bodhisattva, ampliando così di nuovi temi il repertorio iconografico. Il culto di Amitābha, il maggiore tra i cinque Dhyāni-Buddha che occupano precisi posti nello spazio cosmologico della fede, sorse in un territorio di frontiera tra l'Iran e l'India, ricco di fermenti religiosi. Nella medesima epoca in cui il Buddha storico assume sembiante umano attraverso le espressioni stilistiche della plastica di Mathura, di Amaravati e soprattutto delle scuole greco-buddhistiche del nord-est (sec. I-II), il culto di Amitābha si diffonde nella Cina degli Han. Qui sarà raffigurato nell'arte delle Sei Dinastie in triade con i due Bodhisattva Kuan-Yin (Avalokitesvara) e Mahāsthāmaprāpta, emanazioni o riflessi incarnati dei suoi caratteri essenziali. Nel corso del sec. VII l'esaltazione iconografica di Amitābha appare compiuta nelle manifestazioni contemporanee dell'arte cinese, centroasiatica, giapponese e, poco dopo, anche in quella khmer e giavanese e quindi nel Tibet. Nell'arte dell'Asia centrale, più che i Dhyāni-Buddha sono i Bodhisattva a offrire con la loro sontuosa presenza il tema più ricercato. Tuttavia una rara rappresentazione di O-mi-t'o (l'Amitābha cinese) fu accolta nelle pitture rupestri delle 1000 grotte (oggi 486) di Tun-huang, secondo lo stile tipico dell'arte centroasiatica fiorita tra le grandi oasi lungo la Via della Seta, terreno di fecondi incontri tra la civiltà cinese e le correnti indoiraniche. Intorno alla stessa epoca le prime immagini di Amida (trasposizione giapponese di Amitābha) figurano in quelle che sono le manifestazioni più alte dell'arte giapponese del periodo Nara. Esse sono documentate nel gruppo bronzeo di Amida Nyorai (Tōkyō, Museo Nazionale) e in trinità con i due accoliti Kannon (Avalokiteśvara) e Daiseishi (Mahāsthāmaprāpta) nell'Hōryūji di Nara. A questo stesso periodo appartiene anche la raffigurazione di Amitābha come piccola immagine posta sulla fronte dell'acconciatura di Kwannon (Tōdaiji di Nara). Con vigoroso senso monumentale la divinità è interpretata nel tardo periodo Heian dallo scultore Jōchō. Nel pantheon buddhistico giapponese l'iconografia di Amitābha è ricca di originali variazioni, ma una delle più umane e dolci invenzioni è quella del Raigo (Amida-Raigō), composizioni pittoriche apparse dopo il Mille. Nell'arte del Tibet Amitābha (Od-dpagmed) è definito, come gli altri Dhyāni-Buddha, da precise caratteristiche. Negli spazi divini occupa il posto dell'Ovest, dove è assiso tra i suoi due accoliti nel gesto della meditazione (spesso tiene tra le mani la ciotola delle elemosine, pātra). La sua veste è di colore rosso e verde l'aureola. È raffigurato sempre con il pavone accanto. Molto diffusa nel Tibet è l'immagine di Amitāyus (il Buddha di lunga vita), che viene distinta, a differenza di quanto accade in Cina e in Giappone, da quella di Amitābha. Vestito con preziose sete e ornato di braccialetti, collane e orecchini, Amitāyus tiene tra le mani unite in dhyānamudrā il vaso d'ambrosia (amrita).
Bibliografia
J. C. Huntington, A Gandhāran Image of Amitāyus Sukhāvatī, in “Annali dell'Istituto Orientale di Napoli”, vol. 40, Napoli, 1980; O. Botto, Buddha e buddhismo, Milano, 1984; S. e J. C. Huntington, Art of Ancient India, Tōkyō-New York, 1985.