Il canto gregoriano
Al momento della sua nascita, il canto gregoriano, in quanto raccolta di canti per la liturgia cristiana, ha già alcuni secoli di vita. Esso contiene in sé materiale assai diversificato per età e provenienza, che verrà reso meno eterogeneo secondo i criteri di uno stile definitosi prima dell'età carolingia. Una voce particolare al suo interno è certo la matrice giudaica, influente sul suo sviluppo a fianco degli ulteriori documentati influssi che, nel corso del tempo, il canto latino subirà dai diversi contesti culturali in cui verrà a situarsi la comunità cristiana dell'Occidente europeo.
Le prime sistemazioni teoriche del gregoriano risalgono al IX secolo, che vide, parimenti al secolo successivo, una straordinaria fioritura di maestri e testi. Aureliano di Réomé (IX secolo) è l'autore del primo trattato di canto gregoriano, la Musica disciplina. Si distinse poi Ucbaldo di Saint-Amand (morto nel 930), compositore di ufficiature e teorico della tradizione liturgica.
Le premesse storiche
Una grandissima quantità di codici liturgico-musicali tramandano il gregoriano a partire dal IX secolo, fino a giungere al XIX secolo. Ma delle origini del canto monodico liturgico proprio della Chiesa romana d'Occidente, in uso a partire dal VI secolo circa, si sa poco più di nulla. Arcaiche culture musicali del bacino del Mediterraneo vi concorrono geneticamente, tanto quanto fonti ebraiche ed elleniche, in un lungo processo che non è esclusivamente redazionale, ma anche creativo.
Non si conoscono il dove e il quando della nascita effettiva del gregoriano. Tuttavia, il problema della genesi non è l'unico a incontrare risposte di tipo congetturale; anche quello inerente la musicalità del gregoriano non va molto al di là della semplice formulazione di ipotesi: non si conosce come venisse pronunciato il latino; non si conoscono la scala o le scale utilizzate, che certo solo impropriamente può o possono essere sostituita/e da quella temperata della musica colta occidentale; non si conoscono la qualità, il suono dell'emissione vocale (naturale, nasale, ingolato ecc.); non si sa quasi nulla del ritmo e delle sottolineature espressive, quali note fossero accelerate o rallentate, quali suoni legati o spezzati.
Sappiamo, invece, che, dopo un periodo di coesistenza con altri riti (mozarabico, gallicano, ambrosiano), quello romano ebbe il sopravvento, provocando la scomparsa degli altri (a eccezione di quello ambrosiano) e assumendo il nome di gregoriano in base a una tradizione che attribuiva a papa Gregorio Magno (590-604) la sistemazione e l'ordinamento del repertorio delle melodie in un Antiphonarium e la fondazione a Roma di una Schola Cantorum. Tuttavia, non è possibile documentare negli scritti e nelle fonti dell'epoca di Gregorio un suo interessamento alla musica, non esistendo ai suoi tempi libri con notazione musicale; l'attribuzione a Gregorio dell'opera di sistemazione riflette la grande autorevolezza che possedeva nel Medioevo la sua figura e poteva essere strumento per rendere indiscutibile un repertorio ufficiale.
La formazione del repertorio: la scrittura
Tra il V e il VI secolo i repertori locali migliorano la propria struttura e si sviluppa progressivamente l'impegno delle scholae a livello compositivo e anche nella prassi esecutiva. Alcuni canti solistici divengono patrimonio di un piccolo gruppo specializzato; altri canti ancora, come certi versetti offertoriali, sono riservati a un unico solista. È ipotizzabile che, in questo primo periodo, il cantore disponesse al massimo di un repertorio con l'indicazione dei brani propri di ogni azione liturgica, indicati con l'inizio del solo testo. In base poi alle analisi comparative di repertori (romano, romano-franco e ambrosiano) che tramandano le medesime melodie, si pensa che i cantori disponessero anche di agili sussidi con la segnalazione di altri elementi essenziali all'esecuzione del canto: la modalità, la nota iniziale, la formula d'intonazione, di ornamentazione, di conclusione ecc.
Secondo gli studi più recenti, la definitiva codificazione del repertorio è contemporanea alla sua diffusione nella Francia carolingia (dalla seconda metà dell'VIII secolo) ed è il risultato della tradizione dei secoli precedenti e dell'incontro con il canto gallicano. In questo secondo periodo, vicino all'anno 800, si arrivò a segnare per iscritto ogni singola nota e alcuni gruppi di poche note strettamente collegate tra loro, utilizzando anche un'indicazione segnica già in uso nell'insegnamento grammaticale e nella tradizione manoscritta dei testi letterari. I nuovi segni vennero chiamati neumi. Tra la fine del IX secolo e l'inizio del successivo si sviluppa dunque un sistema grafico che doveva servire d'aiuto al cantore perché, una volta ben apprese le melodie, le cantasse senza incertezze.
Va osservato, inoltre, che la scrittura musicale presentò una fioritura di scuole grafiche assai diversificate fra loro. In pratica, ogni centro ecclesiale di un certo rilievo aveva la propria grafia neumatica. Fino all'XI secolo la scrittura neumatica fu estremamente duttile. Il tratto grafico si modificava via via per cercare di rendere nel modo meno inadeguato possibile la musica con la sua linea melodica e tutte le particolarità dinamiche. All'occorrenza, quando si percepiva l'insufficienza dei neumi, si faceva ricorso all'aiuto di segni supplementari, costituiti dalle lettere dell'alfabeto: le litterae significativae. Anche l'utilizzo di tali lettere differì, però, da zona a zona.
I maggiori centri di scrittura dei codici contenenti canto gregoriano (nell'IX-XII secolo) si collocano in un'area comprendente la Francia settentrionale, la Svizzera e la Germania (Reichenau, Magonza, Fulda, Einsiedeln, Treviri, Metz, Chartres, Rouen, Tours, Corbie, San Gallo, Luxeuil) e, in Italia, i centri monastici di Nonantola, Montecassino e Bobbio.
Il sistema duplice di neumi, con moltissime modifiche morfologiche e litterae significativae, si sviluppò soprattutto nei centri transalpini, per esempio, presso l'abbazia svizzera di San Gallo, probabilmente per ovviare a un certo impaccio nell'esecuzione di un repertorio dalle connotazioni marcatamente italiche.
Nuove forme del canto liturgico:
tropi, sequenze, "historiae"
Nel IX secolo si diffuse una tendenza, iniziata alla fine del secolo precedente, volta a integrare i testi tradizionali all'interno delle comunità, che li arricchirono della propria specifica cultura spirituale e della propria sensibilità poetica. Nascono così i tropi, ampliamenti di un brano liturgico già dato. La loro tipologia è triplice: 1) tropi puramente musicali, cioè vocalizzi che vanno ad aggiungersi, in alcuni punti, alle melodie tradizionali; 2) tropi costituiti da nuovi testi, che si inseriscono in un brano utilizzando in un percorso sillabico un melisma già presente nel medesimo pezzo (si pone una nota di un vocalizzo precedentemente cantato su ciascuna sillaba di un nuovo testo); 3) tropi che inseriscono nel brano originale un nuovo testo con una nuova musica. Quanto alla loro collocazione, si distinguono: tropi d'introduzione, cantati quale premessa ai brani liturgici; tropi intercalari, segmenti che si inseriscono tra gli incisi o le strofe del canto liturgico tradizionale; tropi di conclusione, che costituiscono un nuovo finale.
Le sequenze rappresentano la seconda novità formale che si afferma nella liturgia a partire dall'età carolingia, grazie soprattutto ai monasteri, che nel X secolo ne costituirono i centri di diffusione più attivi. Al contrario dei tropi, la sequenza è originariamente congiunta a un unico tipo di canto: l'alleluia della messa. Essa ne prolunga lo jubilus, il lungo vocalizzo che conclude la parola alleluia e che quasi sempre è ripetuto alla fine del versetto alleluiatico.
L'altra forma liturgica che si diffonde in quest'epoca è l'historia: una raccolta omogenea di testi relativamente brevi che riproducono per tratti essenziali una "storia" della salvezza, trascorrendo dalle epopee dei patriarchi biblici ai santi cristiani in onore dei quali celebrano le ufficiature.
Caratteristiche del repertorio
Il repertorio dei canti gregoriani si presenta oggi come un insieme di canti monodici, su testi latini tratti dalla Sacra Scrittura, dell'Ufficio delle Ore e della messa (solo gli inni, i tropi e le sequenze risalgono a poeti medievali). Musicalmente esso riflette un'originaria influenza di componenti soprattutto orientali ed ebraiche, ma devono essere approfonditi i rapporti di affinità e influenza con gli altri riti gemelli (gallicano, ambrosiano e mozarabico) e con la Chiesa bizantina.
Le melodie si possono dividere in melodie composte originariamente per uno specifico testo, melodie tipo (applicabili a diversi testi) e melodie frutto di un lavoro di centonizzazione (costruite, cioè, accostando formule preesistenti): esse hanno un carattere sillabico (una nota per ogni sillaba del testo), neumatico (gruppi di più note per ogni sillaba), melismatico (con molti e lunghi vocalizzi, come nell'Alleluia).
Nell'VIII-IX secolo fu introdotta una classificazione teorica delle melodie secondo 8 modi, modellata sull'oktoechos bizantino. L'interpretazione dei canti gregoriani secondo questa teoria, che rimase in vigore nella pratica musicale fino alla fine del Cinquecento e all'affermazione della tonalità, presenta molti problemi, perché, a quanto sembra, fu adattata a posteriori a un repertorio preesistente, che spesso sfugge a questa classificazione didattica. Essa distingue 4 modi autentici e 4 modi plagali (collocati una quarta al di sotto del relativo modo autentico). Comune all'autentico e al plagale è la nota finalis (così detta perché su di essa deve finire la melodia). Ai modi sono stati applicati anche i nomi delle scale greche, con le quali, però, non esiste alcuna corrispondenza.
Problemi complessi presenta anche il ritmo gregoriano: oggi si applica una sorta di ritmo libero sul quale gli studiosi sono tutt'altro che concordi, come discussa è l'interpretazione dei segni ritmici sui codici neumatici (segni che scomparvero con l'introduzione del rigo, mentre la perdita delle tradizioni orali provocava guasti e un uniforme rallentamento nell'esecuzione).
Il canto gregoriano ha avuto comunque una grande importanza nella tradizione musicale europea, influenzando la monodia medievale (trovatori, laudi ecc.) ed entrando nella polifonia sacra medievale e rinascimentale sotto forma di cantus firmus.
Pedagogia e riforme musicali: Guido d'Arezzo
Fra i primi documenti in cui si dia risposta a una preoccupazione di tipo pedagogico, con ogni probabilità ben più antica, sono da annoverare i diffusi trattati di pedagogia grammaticale dell'Ars minor e dell'Ars maior di Donato (IV secolo). Anche in questo caso, è però nel IX e X secolo che si assistette a una produzione inconsueta.
Una collocazione eminente spetta in questo quadro assai ricco a Guido d'Arezzo (morto nel 1050). Dopo essere stato monaco nell'abbazia di Pomposa e avervi studiato musica, verso il 1023 si stabilì ad Arezzo, insegnando canto nella cattedrale. Ebbe ai suoi tempi larghissima fama e fu stimato da papa Giovanni XIX. Fra i molti trattati teorici a lui attribuiti, sono risultati finora autentici soltanto Regulae rhytmicae e Micrologus disciplinae artis musicae, quest'ultimo diffusissimo fino al XV secolo. Gli si deve l'invenzione di un sistema mnemonico ("mano guidoniana") per intonare correttamente la scala, basato sulle prime sillabe dei versi dell'inno a San Giovanni Battista. Esposta nell'Epistola ad Michaelem de ignoto cantu e nel Prologus in Antiphonarium, tale tecnica sta alla base della solmisazione, cioè dell'antica pratica di identificazione dei gradi di una scala musicale per mezzo di lettere (il nome deriva dalle note sol, mi).
Guido ricorse alla solmisazione quando ricavò le sillabe dell'esacordo, cioè la serie dei sei suoni consecutivi della scala diatonica (ut, re, mi, fa, sol, la). I nomi delle note dell'esacordo furono tratti dalle sillabe dei primi 6 emistichi di un inno dedicato a san Giovanni (Ut queant laxis / Resonare fibris / Mira gestorum / Famuli tuorum / Solve polluti / Labii reatum), la cui intonazione corrispondeva alla successione tono-tono-semitono-tono-tono; essi non indicavano l'altezza assoluta dei suoni, bensì soltanto la posizione relativa all'interno dell'esacordo: mi-fa designano sempre il semitono e ut la nota iniziale. Partendo dall'estensione di due ottave e mezza già considerata da Oddone da Cluny, l'esacordo più grave ebbe come base il sol (hexachordum durum), per cui il semitono mi-fa corrispondeva in realtà al nostro si-do; seguiva un esacordo la cui nota di partenza era realmente il do (hexachordum naturalis) e ancora un altro che partiva dal fa (hexachordum molle), il cui semitono mi-fa coincideva con l'odierno la-si bemolle. La sequenza degli esacordi proseguiva fino a ricoprire l'intera estensione, per un totale di 7 gruppi di 6 note parzialmente sovrapposti l'uno all'altro. Il sistema costituiva un utile espediente didattico in grado di offrire ai cantori punti di riferimento, in particolare per l'intonazione del semitono.