Panorama storico
Nel corso del I secolo a.C. la res publica visse un profondo disorientamento degli spiriti, determinato dal logorio stesso delle istituzioni repubblicane e dalle consistenti trasformazioni sociali in atto. Portate a termine vittoriosamente le guerre di conquista, l’intero bacino del Mediterraneo si era venuto a trovare sotto la diretta amministrazione di Roma. Un territorio immenso, che, per la convivenza di popolazioni diversissime per lingua e tradizioni, poneva problemi organizzativi e gestionali che non potevano essere certo affrontati con gli strumenti di un tempo, adatti a governare un’area molto più limitata e quindi facilmente controllabile. La res publica era ormai divenuta di fatto una potenza mondiale. Segno tangibile di una tale trasformazione fu l’afflusso di ingenti ricchezze, destinate però alle tasche di pochi, e di nuove masse di schiavi, che misero in ginocchio l’economia tradizionale, fondata sulla piccola proprietà terriera, con una serie di ripercussioni a catena su tutta la struttura sociale. Le mutate condizioni economiche, che segnarono una linea di demarcazione sempre più netta tra la classe dominante, detentrice delle ricchezze, e i piccoli agricoltori e lavoratori nullatenenti, si combinarono in modo lesivo con altri fattori, di varia natura, che avviarono una profonda crisi etica e istituzionale. Deleteria fu la politica faziosa dei gruppi politici, ovvero la lotta per il potere tra i cosiddetti optimates e i populares, che distrusse nell’animo dei Romani ogni residua fiducia nelle istituzioni. Ambedue questi gruppi non formavano un partito nel senso moderno della parola, perché non avevano un programma politico ben definito. Erano due schieramenti politici dai contorni alquanto indeterminati, che non costituivano dei blocchi unitari, rispecchiavano anzi a volte interessi diversificati: l’uno e l’altro gruppo politico, a suo modo, affermava di essere il vero protettore delle istituzioni repubblicane. A questo stato di cose si aggiungeva la miope e predatoria amministrazione delle province, considerate latifondi del popolo romano, e talora anche un semplice bottino di guerra: si assisteva indifferenti al sistematico e selvaggio sfruttamento di intere regioni (un metodo che a lungo andare doveva risultare controproducente per la stessa classe dirigente). L’emergere, infine, di grandi personalità, che assunsero tale autorità e prestigio da arrogarsi il diritto di non dover rendere conto del loro operato innanzi alle leggi, rese palese atutti l’insufficienza di un apparato statale ormai logoro e disgregato. Prima c’erano stati Mario e Silla, ora, in un primo momento, Cesare e Pompeo, e poi Ottaviano ed Antonio si trovarono al centro di vicende drammatiche. Con quelli che ormai erano divenuti i loro eserciti personali, si diedero ad in-seguire un miraggio di gloria e potere, protagonisti e responsabili di cruente e fratricide guerre civili. Dopo la morte di Silla la crisi della repubblica si aggravò ulteriormente. Nel 73 a.C., mentre le legioni comandate da Pompeo Magno stavano per avere la meglio sull’insurrezione iberica, guidata da Quinto Sartorio, in Italia esplose una tremenda quanto imprevedibile rivolta servile (73–71 a.C.). Spartaco, uno schiavo della Tracia, aveva raccolto attorno a sé parecchie migliaia di schiavi ribelli e di malcontenti: fu annientato da Licinio Crasso solo dopo una lunga e difficile lotta. Pompeo e Crasso, ristabilito l’ordine in Spagna e in Italia, potendo contare sull’appoggio dei loro eserciti si fecero eleggere al consolato e nel 70 abrogarono parte della costituzione sillana, della quale erano stati dieci anni prima fautori convinti. Questo improvviso mutamento di opinione era un evidente segno che nella vita politica romana prevalevano ormai l’opportunismo e le ambizioni personali dei generali. Nel 67, su proposta del tribuno della plebe Aulo Gabinio, furono concessi a Pompeo amplissimi poteri per consentirgli di liberare il Mediterraneo dalle pericolose incursioni dei pirati e di concludere in modo definitivo la guerra contro Mitridate. Ambedue queste missioni, furono da Pompeo portate a termine con successo, mentre a Roma Cicerone scopriva e annientava un tremendo complotto contro lo Stato, la congiura di Catilina (63 a.C.). La popolarità di Pompeo giunse a tal culmine che tutti ebbero timore che volesse imporsi come dittatore. Pompeo invece, per accattivarsi le simpatie del senato, con atto di deferenza, sciolse le legioni. Nell’estate del 60 però, non esitò a stringere con Cesare e con Crasso un’intesa personale (primo triumvirato), che doveva decidere delle sorti della repubblica senza alcun riguardo per le leggi e per le istituzioni. Degli accordi presi si giovò soprattutto Cesare che, fattosi assegnare il proconsolato della Gallia Cisalpina e della Provenza, ne approfittò per conquistare la Gallia indipendente e procurarsi prestigio, ricchezze e forze militari: tutto quanto era necessario per imporre il suo potere personale. Di lì a poco, nel 49, Cesare varcò il Rubicone. L’inevitabile guerra civile non terminò nemmeno con la sua morte (44 a.C.), ma trasse nuovo vigore dagli accordi del secondo triunvirato (43 a.C.) ed ebbe il suo cruento prosieguo fino alla battaglia di Azio (31 a.C.), quando Ottaviano, sconfitto Antonio, restò unico arbitro dello Stato e diede avvio al principato.