Piazza Fontana, 12 dicembre 1969: la testimonianza dell'ultimo sopravvissuto
Lo scoppio della bomba, i soccorsi confusi, i ricordi indelebili di una strage senza colpevoli, attraverso gli occhi e la parole di Fortunato Zinni.
Fortunato Zinni il 12 dicembre del 1969 si trovava all’interno della Banca nazionale dell’agricoltura per fare il suo lavoro, come tutti i giorni: assistere alle contrattazioni tra gli agricoltori. Un lavoro che lo portava spesso tra la gente e che lo rendeva, forse più di altri, un punto di riferimento per chi frequentava la banca. Zinni è oggi l’ultimo testimone vivente della strage di Piazza Fontana e da oltre cinquant’anni racconta a ragazzi e studenti i suoi ricordi di quella giornata. Un racconto che ha condiviso anche con la redazione di Sapere.it, nel corso di una lunga intervista, e che qui riportiamo integralmente.
«Io lavoravo dentro al Salone. Assistevo alle contrattazioni e, una volta che le due parti avevano trovato un'intesa, la sancivo con un gesto simbolico della mano e consegnavo a entrambi una ricevuta che attestava l’accordo.
Era quello che stavo facendo quel giorno, con due anziani agricoltori. Dovevo solo occuparmi della ricevuta. Ero a pochi passi dal luogo dell’esplosione. Fui richiamato al piano di sopra, per firmare un comunicato sindacale sulla bozza di accordo che avevamo raggiunto la sera precedente sul contratto dei bancari. Il tempo di salire le scale e raggiungere il piano superiore, che la bomba esplose.
Cercai subito, come tanti, di guadagnare l’uscita, alla fine delle scale. Lì vicino si trovava il bancone dei telefoni della portineria, che suonavano all’impazzata. Ne sollevai uno: era la questura di Milano. Voleva sapere da me cosa fosse successo, perché era scattato il segnale d’allarme. L’ho risentito l’audio di quella telefonata: parlavo a monosillabi, chiedevo di poter andare via, perché era tutto buio e avevo paura. L’agente pensava fosse scoppiata la caldaia, ma la caldaia si trovava dalla parte opposta del luogo dell’esplosione. Riuscii a spiegarglielo, nonostante fossi in stato di shock. Lui capì e allora mi chiese “Lei continua a dire che è buio, possibile che non riesca a vedere nulla?”. Mi guardai attorno. “Vedo un braccio”, gli dissi. In quel momento mi resi conto che non c’era nient’altro di quello che prima era un corpo e riattaccai.
Subito dopo arrivarono altri colleghi: cercavano di portarmi fuori dalla banca, ma io mi divincolai e andai verso il salone. Inconsciamente pensavo di dover dare la ricevuta ai due agricoltori che avevano appena concluso la contrattazione. Avevo fatto solo pochi passi, quando mi sentii chiamare. Era un cliente, mi aveva riconosciuto e mi chiedeva soccorso. Si trascinava a terra, in un lago di sangue: aveva perso una gamba. “Mi aiuti, la prego!” mi diceva. Mi inginocchiai, tremavo e piangevo, gli chiesi di lasciarmi andare, perché non sapevo cosa fare. “No, resta qui”, disse lui. Mi teneva per le braccia e mi dava istruzioni. Io non so esattamente cosa accadde in quel momento. Quel cliente, che aveva perso la gamba con lo scoppio della bomba, si ripresentò in banca due mesi dopo con un pacchetto. Mi disse “Grazie, è suo”. Lo aprii e dentro c’era la mia cintura dei pantaloni. Lui sosteneva che io me la fossi tolta per legare ciò che restava della sua gamba ferita. Io ancora oggi sono sicuro di non averlo fatto. È vero, la cintura era la mia, ma io non sarei mai stato in grado di fare una cosa del genere.
So solo che mentre cercavo di soccorrerlo, a un certo punto arrivarono degli infermieri. Uno di loro mi ripulì il viso dal sangue e, visto che riuscivo a camminare, mi disse di uscire e raggiungere le ambulanze. Ma non sono uscito verso le ambulanze.
Sono andato verso il salone e lì ho trovato i due anziani agricoltori a cui non avevo dato la ricevuta. Il primo nella descrizione delle carte processuali è così descritto “Morto per detroncazione degli arti inferiori”, il secondo praticamente spirò fra le mie braccia.
Mentre avevo tra le braccia questo cliente, arrivò dai piani superiori il direttore che gridando mi cercava. Lui sapeva che io ero l'unico impiegato che non lavorava dietro il bancone, ma nel salone in mezzo agli agricoltori. Mi vide, mi riconobbe e mi abbracciò. Mi disse “Meno male. Perché sei così insanguinato?” e io invece di rispondergli dissi: “Direttore, ma sente questo odore? È esplosa una bomba”. Lui, un marcantonio di quasi un metro e novanta, mi coprì la bocca con la mano e disse: “Guarda, siamo già sufficientemente spaventati qui. Come fai a dire che è stata una bomba?”. Ma io quell’odore me lo ricordavo bene, perché da bambino abitavo in riva al Sangro, in Abruzzo, dove c’era la linea Gustav. Quando scoppiavano le granate tra gli ulivi, si sentiva quell’odore. L’odore della mandorle amare, l’odore della guerra. “Ma lì c’era la guerra”, mi disse il direttore, “Qui siamo dietro al Duomo!” e poi aggiunse “io so che vuoi andare via, però tu devi fare per me un'ultima cosa. Non solo per me, ma anche per ciò che resta di queste persone che ci sono per terra. Tu li conoscevi, tu sai chi sono, io ne avrò visto qualcuno ogni tanto, ma non so neanche il nome”. Poi mi diede un foglio di carta e disse: “Adesso per favore, scrivi chi sono, così possiamo informare le famiglie”. E così io non ebbi più neanche il tempo di piangere e spaventarmi. Ho dovuto fare l'elenco dei morti. Quel foglio è pubblicato in calce al mio libro "Piazza Fontana nessuno è Stato".
Sono gli stessi nomi che pronuncio quando vado nelle scuole a raccontare la mia giornata. Chiedo ai ragazzi di rendere omaggio a Giovanni Arnoldi, Giulio China, Eugenio Corsini, Pietro Dendena, Carlo Gaiani, Calogero Galatioto, Carlo Garavaglia, Paolo Gerli, Luigi Meloni, Vittorio Mocchi, Gerolamo Papetti, Mario Pasi, Carlo Perego, Oreste Sangalli, Angelo Scaglia, Carlo Silva, Attilio Valè.
Qualcuno tra loro si stupisce che a 82 anni io mi ricordi ancora i loro nomi a memoria. Ma quelli erano tutti amici miei. Li chiamavo per nome tutti i giorni, non avevo bisogno di impararli a memoria».
A cura di Marco Vannicelli