La conquista di Pizarro
La conquista non si presenta come un’impresa facile e Pizarro preferisce tornare in Spagna per chiedere i finanziamenti per organizzare una grande spedizione. Sono necessari quasi cinque anni per convincere il re Carlo V a concedergli le navi e un piccolo esercito di poco piú di 200 uomini tra cavalieri e fanti, e finalmente, nel 1532, Pizarro può tornare alla carica, sbarcando ancora una volta a Tumbes dove aveva lasciato un manipolo di spagnoli nella speranza di trovare un porto sicuro. Ma nel frattempo la situazione politica nell’impero è totalmente cambiata. L’ultimo grande sovrano Huayna Capac, l’undicesimo della dinastia Inca, è morto per un’epidemia di vaiolo – malattia importata dagli Spagnoli – e tra i suoi figli si è scatenata un’aspra lotta per la successione: da una parte si trova Atahualpa, il figlio illegittimo che si è impadronito delle regioni settentrionali insediandosi a Quito e a Cajamarca, dall’altra si è imposto il figlio legittimo Huascar, trincerato a Cuzco, l’antica capitale degli Inca. Entrambi gli eredi al trono vengono informati dai messi dell’arrivo degli uomini bianchi, armati, protetti da corazze di metallo e seduti su strani animali chiamati cavalli: ciò conferma le profezie dei sacerdoti, i quali da tempo erano preoccupati per i cattivi presagi mandati dagli dèi.
Pizarro vuole approfittare della guerra fratricida tra gli Inca e decide di dirigersi senza indugio verso le montagne, a Cajamarca, dove risiede quello che egli ritiene sia il piú autorevole dei due antagonisti, Atahualpa. Nel tardo autunno del 1532 Pizarro è alle porte di Cajamarca, sorvegliata da 30.000 guerrieri. Atahualpa, asserragliato nella reggia, rimane impassibile davanti al pericolo e a tutt’oggi sembra inspiegabile l’atteggiamento dell’Inca, a tratti guardingo e minaccioso, a tratti passivo e rassegnato: piú volte avrebbe potuto annientare la sparuta armata degli Spagnoli durante la marcia, intrappolandoli nelle strette gole di montagna su strade che essi non conoscevano, e invece attende che i nemici giungano davanti ai suoi occhi. In veste di ambasciatore Pizarro invia suo fratello Hernando (che nel corso della conquista ha un ruolo tutt’altro che marginale), il quale riesce a farsi ricevere da Atahualpa e a convincerlo a incontrarsi con Pizarro nella grande piazza della città.
Al tramonto del giorno seguente – era il 16 novembre del 1532 – l’apparizione dell’Inca suscita negli Spagnoli un misto di stupore e di terrore: Atahualpa, il figlio del Sole, si presenta nelle sue vesti piú belle avvolto in un mantello di vigogna, cinto della corona dalla frangia rossa intessuta di scaglie d’oro e di piumaggi tra i piú rari. Il suo pettorale d’oro brilla al sole e nelle mani regge il segno del potere: uno scettro a forma di ascia dall’asta lunghissima. Il corteo è preceduto da uno stuolo di servitori che spazzano la terra davanti alla lettiga dal baldacchino tempestato di lamine d’argento sulla quale è adagiato l’Inca, circondato da 300 arcieri, 1000 lancieri e guerrieri armati di mazze d’argento e di rame.
Pizarro schiera la sua cavalleria di appena 37 unità e per alcuni minuti gli avversari si misurano silenziosamente. I cronisti dell’epoca raccontano che un sacerdote cristiano si avvicina all’Inca e gli porge una Bibbia esortandolo a dare ascolto alla “parola dell’unico vero Dio” e a sottomettersi al re di Castiglia e al papa di Roma. Atahualpa si porta il libro all’orecchio e poi lo getta infastidito per terra dicendo “questa cosa non parla!”. Per gli Spagnoli il disprezzo della Bibbia è come un segnale d’attacco: a sorpresa Pizarro scaglia le sue truppe contro gli indios convenuti sulla piazza, fa chiudere gli stretti vicoli per impedire ogni via di fuga, uccide la scorta dell’Inca e scatena una sarabanda infernale tra cavalli e soldati che finisce in un massacro collettivo senza che gli Indios possano reagire. La strage, i saccheggi, l’uccisione di gente inerme continuano per tutta la notte e il giorno seguente. Atahualpa viene messo in catene ed è imprigionato nel suo palazzo.
Quando si sparge la notizia della cattura di Atahualpa l’Impero cade nel caos e nel panico. L’imperatore rivale Huascar fa sapere agli Spagnoli che in cambio dell’uccisione del fratellastro sarebbe disposto a colmare d’oro i conquistadores e a sottomettersi alla Corona spagnola: ma la sua proposta arriva in ritardo perché nel frattempo i sostenitori di Atahualpa riescono ad assassinare Huascar nel suo palazzo di Cuzco. Pizarro allora non ha piú scrupoli e propone un patto diabolico: in cambio di una stanza (della capienza di 88 metri cubi) riempita di oggetti d’oro e d’argento, sarebbe disposto a concedere la libertà a Atahualpa. In pochi giorni viene raccolto il riscatto, che consiste in 5.720 chili d’oro e 11 000 chili d’argento. Ovviamente Pizarro non ha la minima intenzione di salvare l’Inca e dopo aver allestito un processo sommario nel quale Atahualpa viene accusato di idolatria, lo fa condannare alla morte sul rogo – una fine ingloriosa e terribile per un Inca che crede nella conservazione del corpo oltre la vita, per cui le salme venivano mummificate, avvolte in preziosi tessuti e esposte durante le cerimonie religiose.
Forse per questa ragione Atahualpa – il quale non si fa piú illusione sulla sorte che lo attende – accetta all’ultimo momento di essere battezzato, in modo che la condanna venga tramutata in morte per garrotamento. Eseguita la sentenza per strangolamento, il corpo viene esposto nella piazza e poi sepolto “cristianamente” nella chiesa di San Francisco a Cajamarca, costruita in tutta fretta dai missionari che accompagnano l’armata. Secondo una leggenda peruviana, la salma viene trafugata nottetempo e trasferita a Quito, dove si troverebbe il misterioso sepolcro di Atahualpa.