Storia: la questione meridionale fino al periodo fascista

Con questione meridionale si designa il complesso problema dell'arretratezza economica, politica e sociale delle regioni italiane a Sud del Tronto e del Garigliano corrispondenti, grosso modo, all'antico regno borbonico di Napoli. Benché le cause di tale arretratezza trovino le loro radici in obiettive condizioni fisico-geologiche e in vicende storiche che si possono far risalire almeno alla dominazione spagnola, solo dopo l'unificazione si cominciò a prender chiara coscienza del grave divario esistente tra Nord e Sud e solo da allora, quindi, si può propriamente parlare di una questione meridionale in senso riflessivamente critico. Il “paese per cui Iddio aveva esaurito la sua opulenza di creazione” (secondo l'espressione di F. Petruccelli della Gattina) era in realtà una regione prevalentemente montuosa, ricca di zone abbandonate e valli franose, spesso arida o malarica e come pietrificata in un arcaico passato. Le strade erano mal tenute, le ferrovie quasi inesistenti (98 km, contro i 1303 del Piemonte, della Lombardia e delle Venezie), l'analfabetismo molto maggiore che al Nord. Il debole sviluppo dei comuni, la scarsità delle attività commerciali e manifatturiere, la mancanza di organizzazioni associative di ogni genere erano poi irrimediabilmente aggravati dalla persistenza del feudalesimo, abolito sul piano giuridico solo nel periodo napoleonico, ma sopravvivente nelle strutture economico-sociali e nelle consuetudini di vita che ne derivavano. Il monopolio della ricchezza era sempre appannaggio degli antichi baroni latifondisti che dalle leggi eversive murattiane avevano finito col ricavare un aumento di ricchezza terriera mentre i contadini avevano visto aggravarsi notevolmente le loro condizioni con l'abolizione degli usi civici e delle promiscuità. L'agricoltura, in mano a proprietari assenteisti e assolutamente restii a impegnarvi capitali, era praticata su scala estensiva e mediante l'istituto dell'affittanza (spesso a breve e brevissimo termine) che non favoriva migliorie e impediva ragionevoli guadagni ai coloni anche a causa di esosi intermediari (gabellotti). Il ceto medio (se si escludono le frange parassitarie e curiali) non esisteva; le assai fragili basi della vita pubblica e amministrativa erano spesso minate da fenomeni di tipo mafioso e camorristico. Di fronte a simili condizioni l'azione del nuovo Stato fu del tutto inadeguata e aggravò ulteriormente i problemi. Le plebi contadine, presto disilluse nelle speranze di riforma economica e sociale, inasprite dall'aumento delle imposte e dalla coscrizione obbligatoria, reagirono col banditismo e a esso si rispose con una vera e propria guerra che fece più morti di tutte le campagne d'indipendenza. L'estensione pura e semplice del regime liberista in vigore al Nord stroncò le poche industrie nascenti che non poterono reggere il peso della concorrenza inglese o francese. La politica di alienazione dei beni ecclesiastici, che nell'intenzione del governo avrebbe dovuto creare una più estesa classe di piccoli e medi proprietari agricoli, fallì completamente perché i lotti troppo estesi e la manipolazione delle aste favorirono ancora una volta i latifondisti, mentre il danaro in tal modo drenato venne impiegato al Nord dove il reddito era più certo e sicuro. L'ordinamento fiscale, applicato in maniera frettolosa e solo apparentemente uniforme, si ridusse d'altra parte in una reale ingiustizia giacché il Sud, che possedeva il 27% della ricchezza nazionale, fu sottoposto a un onere tributario pari al 32% del totale italiano, laddove le spese per opere pubbliche (finanziate anche col danaro di banche, assicurazioni e prestiti meridionali) furono senza dubbio maggiori nella parte già più fortunata del Paese. Quando poi nel 1878 e nel 1887 si tornò al regime protezionistico e in seguito all'occupazione di Tunisi scoppiò la guerra doganale con la Francia, il divario tra Nord e Sud s'accrebbe ancora enormemente. Grazie alle favorevoli tariffe doganali l'industria settentrionale iniziò il suo decollo trascinando con sé un importante moltiplicarsi di infrastrutture e attività commerciali: ma a spese del Meridione, tenuto in condizione semicoloniale e costretto a comperare a caro prezzo i prodotti dell'industria che avrebbe potuto avere a miglior mercato dall'estero. Contemporaneamente i piccoli proprietari del Sud che coltivavano la vite per esportazione e il frumento per consumo familiare furono danneggiati dalle mancate vendite in Francia senza per altro trarre vantaggio dal dazio sui cereali che favorì invece ancora una volta la grande proprietà latifondista del Mezzogiorno e creò una pericolosa convergenza di interessi tra di essa e il capitalismo settentrionale praticamente sovvenzionato dallo Stato. Agli elementi più attivi della popolazione meridionale non rimase allora altro rimedio che l'emigrazione. La vastità di tale movimento se da un lato privò la regione di molte delle sue migliori energie, dall'altro attenuò la concorrenza tra i contadini, favorì la stipulazione di patti agrari meno esosi e consentì attraverso le rimesse degli emigranti e i loro risparmi la formazione di piccoli capitali che ravvivarono in qualche modo l'economia. All'inizio del secolo, sotto la pressione delle circostanze e di un'opinione pubblica sempre più avvertita della gravità del problema, fu poi emanata una serie di leggi speciali a favore del Sud (per la Basilicata, 1904; per Napoli, 1904; per la Calabria, 1906; per le province meridionali e le isole, 1906), ma, per quanto utili, furono pur sempre palliativi che non poterono risolvere il problema che avrebbe dovuto essere affrontato su scala nazionale. Nel periodo fascista lo sforzo a favore del Mezzogiorno proseguì con la bonifica integrale che avrebbe dovuto superare la tradizionale concezione limitata al risanamento idraulico e alla lotta contro la malaria per un più ampio programma di trasformazione agraria. In realtà, però, esso si limitò a un certo numero di opere pubbliche con cui la questione fu dichiarata semplicisticamente risolta.

Storia: la questione meridionale dal secondo dopoguerra a oggi

Nel secondo dopoguerra la cronica diversità tra i due poli della nostra penisola apparve ancor più aggravata dai disastri del conflitto. Dopo alcuni provvedimenti slegati e di emergenza si ebbe così nel 1950 l'istituzione della Cassa per il Mezzogiorno per realizzare con piani d'intervento straordinario e notevoli fondi la creazione di infrastrutture, incentivare l'insediamento di nuove imprese al Sud e preparare la manodopera e i quadri della futura società industrializzata. Per quel che riguardava inoltre l'agricoltura, si provvide con la riforma agraria all'esproprio di 500.000 ettari di terreno e all'insediamento di 70.000 nuovi proprietari. I risultati complessivi non furono però pari alle speranze. Dalla fine della seconda guerra mondiale all'inizio degli anni Settanta si stima siano emigrati al Nord oltre 5 milioni di meridionali, attratti dal boom economico di quegli anni, mentre dimensioni consistenti ha raggiunto anche l'emigrazione internazionale, direttasi principalmente verso la Germania e la Svizzera: il fenomeno, che ha deprivato vaste zone della popolazione più giovane pur riversandovi discreti flussi di rimesse, è quasi venuto a esaurirsi solo negli ultimi due decenni ed essenzialmente non per l'avvio di processi endogeni di sviluppo ma in conseguenza della riduzione delle opportunità d'impiego esterne. L'economia del Meridione del resto non ha conosciuto i progressi auspicati, registrando quindi livelli crescenti di disoccupazione (attorno al 20%) e un'erosione solo parziale del distacco dalla rimanente parte del Paese. Il settore manifatturiero non è riuscito ad affermarsi in modo adeguato, malgrado le agevolazioni concesse risentendo della limitatezza dell'intervento del capitale settentrionale privato e dell'inadeguatezza dell'investimento pubblico: a parte il caso dell'Alfasud (a Pomigliano d'Arco), è stata infatti perseguita soprattutto un'industrializzazione fondata su “poli di sviluppo” dei settori di base, a ridotto impatto occupazionale (petrolchimica in Sicilia e siderurgia a Taranto), rivelatisi poi incapaci di stimolare la crescita di un solido indotto o di un tessuto produttivo locale. L'intervento dello Stato nell'economia locale, oltre che attraverso la discussa esperienza della Cassa per il Mezzogiorno (istituita nel 1950, soppressa nel 1984 e sostituita nel 1986 da un'agenzia a struttura finanziaria), si è quindi attuato per il tramite di un rigonfiamento della pubblica amministrazione e più in generale di una spesa pubblica a carattere assistenziale che ha operato un sensibile trasferimento di risorse alle famiglie: l'arretratezza della struttura produttiva e delle sue prestazioni rispetto a quelle del resto d'Italia non trova così riscontro esattamente proporzionale nei pur squilibrati livelli dei consumi. Peraltro, soprattutto a partire dalla fine degli anni Settanta, l'Italia meridionale si è andata diversificando fino a non poter più essere considerata una realtà economicamente indifferenziata: al degrado sociale e urbanistico dell'area metropolitana di Napoli e all'immobilità di vaste aree delle regioni più povere (Calabria, Sicilia e Sardegna), e particolarmente dell'entroterra, si è contrapposta infatti la crescita relativamente dinamica del fronte adriatico, soprattutto della sua sezione abruzzese e di talune zone della Puglia, in cui hanno trovato spazio attività più qualificate e innovative. Mutate talune caratteristiche della questione meridionale, e in primo luogo il significato della disoccupazione e della povertà che ne hanno da sempre costituito le più drammatiche manifestazioni, la riduzione degli squilibri economico-territoriali a favore del Sud rimane comunque ancora negli anni Novanta uno dei principali nodi da risolvere per il futuro dell'intero Paese: l'impatto a medio termine dell'evoluzione demografica sulla situazione occupazionale nell'eventuale persistenza delle difficoltà del sistema produttivo locale oltre a poter generare la ripresa di flussi d'emigrazione rischierebbe infatti anche di favorire l'estensione della criminalità organizzata, già pesantemente condizionante in almeno tre regioni, e quindi di consolidare i meccanismi di un circolo vizioso di sottosviluppo ormai in parte operante. Sul finire degli anni Novanta, appare sottesa, da un lato, dall'emergenza di una disoccupazione devastante (oltre il 20%, in media, ma con punte del 50% in numerose aree critiche, in particolare calabresi e siciliane, e nelle classi di età giovanili); dall'altro lato, dalla ricerca di un nuovo modello di sviluppo, dopo la dismissione della Cassa per il Mezzogiorno e il trasferimento della politica meridionalistica alle Regioni, mediante la gestione dei sostegni finanziari sia nazionali sia comunitari. Per il primo aspetto, la crisi che ha colpito l'industria di base, invece di offrire l'occasione per trasferire al Mezzogiorno il governo dell'economia locale, favorendo il processo di conversione e specializzazione ad alta qualificazione tecnica (avvenuto solo all'interno di singole logiche aziendali, guidate dall'esterno), è stata affrontata in termini di ammortizzatori sociali, a spese del bilancio pubblico, nell'illusione – sostenuta dai tradizionali mediatori del consenso politico – di attenuare le ricadute negative sull'occupazione facendo ricorso ai prepensionamenti e alla cassa integrazione. Per il secondo aspetto, un indirizzo strategico pubblico non si è espresso neppure verso le imprese operanti in quelle aree che la scuola geografico-politica facente capo a F. Compagna aveva definito “Nord del Mezzogiorno”: Lazio meridionale, Abruzzo, area napoletana settentrionale in direzione di Caserta, triangolo pugliese Bari-Brindisi-Taranto, Sicilia orientale, area cagliaritana. Negli anni Novanta, tuttavia, la società meridionale è molto cresciuta in termini di iniziativa nel campo dell'economia e capacità di controllo della classe politica: mentre, in precedenza, il Sud non riusciva a partecipare in alcun modo al processo decisionale relativo ai modelli di crescita, oggi la sua classe imprenditoriale e professionale esprime sempre maggiore autonomia nelle attività legate sia alla produzione ed esportazione di beni e manufatti, sia ai consumi urbani e ai servizi. E mentre i successi della cosiddetta “terza Italia”, fondati sulla piccola dimensione d'impresa e sull'urbanizzazione diffusa, fanno guardare al “distretto industriale” come al modello vincente nei confronti della grande industria privata del Nord-Ovest e pubblica del Sud, gli analisti del territorio si interrogano sull'applicabilità di tale modello all'economia meridionale. Si scopre, così, che aree produttive specializzate, a carattere endogeno, esistono nel Mezzogiorno e, in molti casi, affondano le loro origini in epoche passate, anche assai remote: è il caso, per fare un esempio, del distretto conciario di Solofra, in provincia di Avellino. Sistemi locali di sviluppo endogeno si “scoprono”, così in Abruzzo (Val Vibrata, nel Teramano, per il settore dell'abbigliamento), in Puglia (Barletta e Casarano, per le calzature; Putignano, ancora per l'abbigliamento), in Basilicata (Matera, per il mobilificio, con la particolare produzione di salotti); e, allargando l'ottica ai settori non industriali, dal Salernitano (coltura e trasformazione del pomodoro), fino alla Sardegna (granito di Buddusò, formaggi di Thiesi, sughero di Calangianus). Secondo una ricerca dell'Istituto Tagliacarne e del CENSIS (1992), condotta sulla banca-dati delle Camere di commercio, ben 47 delle 187 aree italiane di piccola impresa ricadrebbero nel Mezzogiorno continentale e insulare. L'interrogativo di fondo riguarda le reali capacità autopropulsive di tali aree meridionali, generalmente calate in contesti rurali, e pertanto carenti di un idoneo supporto terziario. In effetti, la parallela analisi dell'armatura urbana denota caratteri funzionali deboli soprattutto nei servizi di rango elevato, e dunque di tipo “metropolitano”: sotto questo profilo, tornano a dominare le grandi aree monocentriche (Napoli, Palermo, Catania, Bari), affiancate da poche altre in formazione, peraltro assai controversa (Pescara-Chieti, Taranto, Cosenza, Reggio Calabria, Messina, Cagliari). Ma il problema forse più grave è dato dalla vera e propria crisi di rigetto che il Centro-Nord e, in particolare, la “terza Italia” sembrano esprimere nei confronti del Sud. Nel cercare di interpretarla, C. Muscarà, il principale continuatore del pensiero di Compagna, sottolinea come qualsiasi politica a favore del Mezzogiorno debba mettere al primo posto l'azione di disinquinamento dal peso di organizzazioni criminali (mafia, camorra, ‘ndrangheta) a cui i sistemi locali pagano un prezzo non sostenibile da nessuna economia che debba compiere il salto verso il mercato. In secondo luogo, nel Sud, le Regioni devono essere messe in grado di avviare il superamento delle faide locali e dei campanilismi, attraverso riforme istituzionali che tolgano ai livelli inferiori il potere di interdizione per tutte le materie per le quali si riconosca che le scelte debbano essere compiute a scala più ampia. Ma il realizzarsi di queste due condizioni non è comunque sufficiente al dispiegarsi di una politica a favore del Mezzogiorno se finalmente non sarà superato il maggiore paradosso di fronte a cui si trova oggi il rapporto fra le “tre Italie”. Infatti, benché ingenti siano state, negli ultimi anni del Novanta, le agevolazioni finanziarie, fiscali e contributive, gli investimenti produttivi sono rimasti limitati. Identificando il Sud con il potere centrale dello Stato e con la responsabilità stessa di una classe politica accusata del debito pubblico e del conseguente forte fiscalismo che colpisce il mondo della produzione, l'avversione alla politica meridionalistica è oggi molto più forte di ieri. L'esigenza fondamentale che il mondo delle piccole e medie imprese esprime in questi anni, in varie forme, è di contare nelle scelte di politica economica più di quanto non sia avvenuto finora. Non solo le piccole e medie imprese industriali che si sono sviluppate nell'Italia centro-settentrionale, ma anche le nuove piccole aziende del terziario, dei servizi, del commercio, dell'artigianato produttivo e delle professioni, che hanno accompagnato la trasformazione dell'economia italiana verso la fase postindustriale, si sentono oggi sottorappresentate rispetto ai “poteri forti” dello stato centralistico, della sua burocrazia, dell'economia pubblica, dei partiti politici, dei sindacati, che operano spesso d'intesa con il mondo delle grandi imprese e della finanza. Questa domanda non si configurerebbe necessariamente in un conflitto se chi la esprime come legittima richiesta di rappresentanza all'interno del mondo politico non avesse maturato il convincimento di costituire, per un verso, la parte più dinamica e moderna della società e dell'economia italiana; e, per altro verso, non si fosse reso conto che il dissesto dell'economia pubblica è conseguenza necessaria del disinteresse manifestato, in precedenza, per la vita politica e per le sue scelte. Ma è successo che, non appena la richiesta di contare di più nelle scelte politiche nazionali si è trasformata in richiesta di una linea politica diversa, quella che era una semplice domanda di maggiore rappresentanza politica, si è trasformata in conflittualità geografica. Non è facile sintetizzare come e perché ciò sia avvenuto, perché il Paese si sia spaccato lungo le linee di una geografia politica che tiene conto, in qualche misura, della contrapposizione tra Italia sviluppata e Italia arretrata, ma anche delle “tre Italie” e della stessa geografia elettorale, con quelle che sono state chiamate le regioni “bianche”, le regioni “rosse” e le regioni “nere”. In particolare, la diagnosi che viene proposta da chi lamenta una sottorappresentanza accusa il mondo politico di non avere tenuto adeguatamente conto dei cambiamenti intervenuti nell'economia e nella società italiana e di avere continuato ad agire, anzi, come se nessun cambiamento fosse intervenuto, creando in questo modo un solco tra la dinamica economica moderna del Paese e la sua classe politica. Il Sud, in questa diagnosi, finisce per venire appiattito e confuso con la capitale, non solo perché molta parte della classe burocratica e dei sostenitori dello Stato accentrato sono di origine meridionale, ma anche perché si è finito col ritenere che l'indebitamento pubblico sia la risultante del peso che la politica meridionalistica, senza risolvere i problemi del Mezzogiorno, avrebbe finito per scaricare sull'economia del Nord. La contrapposizione ha raggiunto il suo parossismo e si è configurata come una vera e propria guerra tra Nord e Sud quando una diffusa tendenza a riversare su movimenti locali l'opposizione alla politica sostenuta dai grandi partiti nazionali ha trovato il suo collante in un programma di secessione fondato anche su una contrapposizione culturale che si pensava superata dal secolo e più di vita unitaria. Non è facile prefigurare quale possa essere lo sbocco di questa difficile congiuntura. Le proposte federalistiche, emerse come tentativo di offrire una soluzione, portano tutte il marchio della consapevolezza che la divisione nelle regioni ufficiali è inadeguata a tenere conto delle esigenze dell'economia moderna, ma che una tripartizione basata sulla geografia elettorale, oltre a non costituire una soluzione alle contrapposizioni politiche attuali, potrebbe rappresentare un incentivo all'ulteriore divisione del Paese. Insomma, comincia a essere evidente che la questione geografica e, all'interno di essa, la questione meridionale, è problema centrale per uno Stato che ha 140 anni di vita, e lo scarso peso che le si è dato nel dibattito culturale potrebbe rivelarsi come un grave errore. Alla fine dell'ultimo decennio del Novecento è, quindi, sorta l'esigenza di procedere al riordino dei soggetti pubblici di promozione imprenditoriale operanti a scala nazionale, di assoggettarli a un'unica unità di coordinamento, di ricondurli a un legame più stretto con le finalità fissate dagli organi della programmazione nazionale, i quali a loro volta venivano intanto ridisciplinati e organizzati su nuove basi. Tra la fine del 1997 e gli inizi del 1998, sono stati presentati ben cinque disegni di legge per il Mezzogiorno, in materia di promozione industriale, ed è stato elaborato dalla Commissione Bilancio e Attività Produttive un documento che configura le linee di un efficiente sistema di promozione imprenditoriale per le aree depresse del Paese, e che punta a guadagnare spazi operativi sempre maggiori, con un graduale disimpegno dalle forme di sostegno diretto da parte dello Stato. In base a questo documento il governo si è, dunque, impegnato a istituire una società per azioni, finalizzata allo sviluppo delle attività produttive e dell'occupazione, e al riordino, sotto il suo controllo, delle società di promozione e sviluppo, sempre nel rispetto delle normative sulla tutela della concorrenza. Si è delineata, così, la creazione di un gruppo aziendale, a base tecnico-manageriale, che assicura servizi e contemporaneamente svolge una funzione di agenzia di supporto allo sviluppo. Funzionale a questa visione è il modello organizzativo, che la Commissione Bilancio e Attività Produttive ha delineato e che si incardina su una capogruppo (Sviluppo Italia), con compiti di coordinamento e controllo, e su due unità operative (Progetto Italia e Investire Italia), con missioni specifiche e complementari. Spingendosi, infine, fino al dettaglio, per definire la struttura operativa, sia al livello societario sia al sottostante livello divisionale, la Commissione è arrivata a delineare una ipotesi di ricollocamento dei soggetti attuali nel nuovo involucro organizzativo. Sono stati prospettati, infine, interventi di fusione o soppressione di enti con finalità omologhe o complementari, di riduzione del numero dei componenti degli organi collegiali, di razionalizzazione della vigilanza ministeriale, con l'esclusione, di norma, di rappresentanti ministeriali negli organi di amministrazione, ecc. Il 9 gennaio 1999, quindi, è nata Sviluppo Italia, la nuova agenzia per il Mezzogiorno, alla testa di un raggruppamento a cui fanno capo 8 enti.

Storia: gli studi sulla questione meridionale

La controversa, e per molti aspetti immutabile, questione meridionale è stata tema d'indagine di eminenti studiosi meridionali a partire dalle Prime Lettere Meridionali (1861) del napoletano Pasquale Villari che per primo fece conoscere all'intero Paese il desolante quadro socio-economico del Mezzogiorno. A loro volta, dalle polemiche pagine della Rassegna Settimanale (1878-82), Franchetti e Sonninossero esemplari inchieste sul Napoletano e sulla Sicilia. Alla stessa rivista collaborò tra gli altri il lucano Giustino Fortunato, il quale contestò lo schema tradizionale secondo cui l'arretratezza meridionale sarebbe derivata dal lassismo dei contadini e richiamò invece l'attenzione sull'erosione del suolo e l'aridità del clima aggravata dall'incostanza delle precipitazioni (Il Mezzogiorno e lo Stato Italiano, 1911). Fortunato sostenne dapprima la necessità di un intervento statale (riforma del sistema tributario e del regime doganale) per orientarsi più tardi verso un'iniziativa in senso tipicamente liberale. Contemporaneamente F. S. Nitti esaminava la questione meridionale (Nord e Sud, 1900) inserendola nel più ampio contesto dell'intero Stato italiano. Nitti riponeva in particolare nell'industrializzazione del Sud, con Napoli centro motorio, le speranze di trasformare radicalmente il Meridione depresso. Intanto, influenzato dal federalismo di C. Cattaneo, il repubblicano N. Colajanni, avversando la soluzione unitaria, sosteneva la tesi di un cambiamento che investisse in primo luogo la società meridionale nel suo complesso. Dal canto suo Ettore Ciccotti, pur legato a un'ottica socialista, si convinse dell'impossibilità di far capo a un'ideologia moderna in una società strutturalmente ancorata alla fase precapitalistica. E, abbandonata la eventualità di un'azione classista, si volse all'elaborazione d'una politica di tipo “assistenziale” che tenesse conto, in senso riformistico, delle esigenze immediate dei ceti più poveri. Allo spontaneismo di Ciccotti, che fidava nell'evoluzione e nella presa di coscienza di tutta la popolazione meridionale, il pugliese Gaetano Salvemini (Scritti sulla questione meridionale, 1896-1955) oppose una visione strettamente politica che investiva direttamente il Partito socialista. Individuata nel latifondismo la causa del ristagno economico e politico, si fece portavoce della necessità di stabilire un collegamento tra operai settentrionali e contadini meridionali. Salvemini reputava inoltre indispensabile estendere il suffragio elettorale alle masse meridionali, le quali solo in tal modo si sarebbero svincolate dalle imposizioni della classe dominante. Il pensiero salveminiano non mancò d'influenzare l'avellinese Guido Dorso (La rivoluzione meridionale, 1925), il quale ravvisò nel Meridione un potenziale rivoluzionario che avrebbe finito con il condizionare, in senso positivo, l'intero Paese. Più meditato il meridionalismo di Benedetto Croce (Storia del Regno di Napoli, 1925), volto soprattutto alla considerazione della cultura meridionale chiaramente inserita nell'area culturale europea. Sempre da Croce è stata segnalata la parte sostenuta dagli intellettuali nella grande tradizione culturale del Meridione, un'élite già pronta per assumere la guida del Paese. Luigi Sturzo, propugnatore di un'organizzazione politica dei cattolici, sostenne un programma di riforme che conducesse alle autonomie regionali e che portasse a soluzione il problema delle aree sottosviluppate. Nucleo del pensiero sturziano era la riforma agraria basata sulla piccola proprietà contadina in opposizione alle tesi “statali” dei socialisti e dei liberali. Un nuovo, originale disegno è stato proposto da Antonio Gramsci, autore d'un saggio incompiuto: Alcuni temi della questione meridionale (1926), ora in La questione meridionale. Gramsci, dopo aver ravvisato nella cattiva amministrazione dei governi succedutisi dal Risorgimento le cause tangibili dell'arretratezza meridionale, ha denunciato il blocco storico conservatore riaffermando la necessità strategica dell'alleanza fra operai e contadini, in quanto solo dal proletariato rivoluzionario sarebbe potuta venire la sconfitta del blocco agrario. Nel secondo dopoguerra gli studi sulla questione meridionale si sono moltiplicati e hanno investito commissioni ministeriali, centri-studi di partito, riviste specializzate (come Cronache Meridionali, Nord e Sud, ecc.). Un nuovo impulso al dibattito scientifico sulla società meridionale veniva dato negli anni Ottanta dall'Istituto meridionale di storia e scienze sociali (IMES) con la pubblicazione (1987) della rivista quadrimestrale Meridiana.

Bibliografia

S. F. Romano, Storia della questione meridionale, Roma, 1946; C. Barbagallo, La questione meridionale, Milano, 1948; A. Gramsci, La questione meridionale, Roma, 1951; G. Salvemini, Scritti sulla questione meridionale (1896-1955), Torino, 1956; F. Compagna, Mezzogiorno d'Europa, Roma, 1958; F. S. Nitti, Scritti sulla questione meridionale, 2 voll., Bari, 1958; R. Villari, Il Sud nella storia d'Italia, Bari, 1961; P. Villani, Mezzogiorno tra riforme e rivoluzione, Bari, 1973; B. Finocchiaro, Le questioni meridionali, Bari, 1974; A. Lepre, P. Villani, Il Mezzogiorno nell'età moderna e contemporanea, Napoli, 1974; L. Cafagna, Dualismo e sviluppo nella storia d'Italia, Venezia, 1982; S. Cafiero, Tradizione e attualità del meridionalismo, Bologna, 1989; G. Bodo, P. Sestito, Le vie dello sviluppo. Dall'analisi del dualismo territoriale una proposta per il Mezzogiorno, Bologna, 1991.

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