ironìa

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sf. [sec. XIV; dal latino ironīa, risalente al greco eirōnéia, dissimulazione].

1) Secondo il pensiero filosofico, atteggiamento di chi attribuisce una minor importanza del giusto a se stesso (posizione socratica) o a qualche cosa di esterno che ha un intimo rapporto con se stessi (posizione romantica). § Nei dialoghi platonici, Socrate esercita l'ironia nei confronti di se stesso, ma la sollecita vivamente anche nei suoi interlocutori, perché il riconoscimento della propria ignoranza è la condizione prima della ricerca e della scienza. Il pensiero romantico, invece, esercitò l'ironia sulle cose esterne, identificandole con il finito e la morte, mere ombre della totalità e dell'assoluto. In questa valutazione l'ironia identifica se stessa con la libertà e con l'assoluto. Il concetto romantico d'ironia sarà ripreso da Kierkegaard, che stabilisce identità tra soggetto e coscienza interiore, togliendo all'ironia la funzione creativa che le aveva assegnato il romanticismo tedesco.

2) Nel linguaggio comune, il celare il proprio pensiero usando un'espressione che significa l'opposto di ciò che si vuol dire, mettendo solitamente il biasimo sotto forma di lode; la figura retorica stessa. Se ne fa uso abbastanza frequente nel linguaggio quotidiano, come quando si dice a uno sciocco come sei furbo!, a uno sprovveduto che genio!, di qualche cosa che è costata poco sforzo o fatica bella forza! In particolare, l'atteggiamento distaccato e sorridente che un poeta, uno scrittore assume nei confronti dei personaggi della sua opera: l'ironia ariostesca; l'ironia manzoniana.

3) Beffa amara, scherzo maligno, crudele; ironia della sorte, del destino si dice in occasione di capovolgimenti improvvisi di situazione, di rovesci subiti, ecc., quando sembra che il destino si faccia beffe di qualcuno.

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