ecclèsia o ecclesìa
sf. [sec. XIX; dal latino ecclesía, che risale al greco ekklēsía, assemblea]. Assemblea dei cittadini, presente con diversità nella composizione, nelle funzioni e nel nome stesso in tutte le antiche città greche. Nei regimi democratici comprendeva tutti i cittadini; nei regimi oligarchici la partecipazione all'ecclesia era subordinata a un certo censo, per lo più quello oligarchico, o addirittura alla nascita. In particolare, per ecclesia s'intende l'assemblea popolare di Atene, cui partecipavano tutti i cittadini di pieno diritto che avessero compiuto i vent'anni. Le sue attribuzioni, vastissime, riguardavano l'elezione dei magistrati, l'approvazione delle leggi e la decisione ultima sulla pace, la guerra e le alleanze. La legge vietava però al presidente dell'ecclesia (nel sec. V a. C. era l'epistate dei pritani) di mettere in discussione qualsiasi proposta che non fosse stata presentata dalla bulè. Ogni proposta derivante dall'iniziativa privata (tutti i cittadini avevano il diritto di prendere la parola nell'ecclesia), così come ogni emendamento a un deliberato della bulè, doveva passare attraverso la bulè stessa. Per tenere entro giusti limiti l'onnipotenza dell'ecclesia fu istituita la cosiddetta grafè parà nòmon o accusa d'illegalità, per cui chi avesse fatto proposte illegali o comunque nocive ai cittadini poteva essere condannato a un'ingente ammenda, all'esilio e persino alla morte. La votazione nell'ecclesia avveniva per alzata di mano; era invece segreta e si faceva per mezzo di pietruzze se si trattava dei diritti di un singolo cittadino. In generale i decreti dell'ecclesia erano validi senza quorum determinato; erano però necessari almeno seimila suffragi (ecclesia plenaria) per l'ostracismo, per l'impunità all'eventuale autore di una proposta illegale ma necessaria, o per le persone colpite da atimia. Durante la rivoluzione oligarchica del 411 a. C. il numero dei membri dell'ecclesia fu ristretto a cinquemila.