comune (aggettivo e sostantivo)

Indice

Lessico

(ant. commune), agg. e sm. e f. [sec. XIII; latino commūnis].

1) Agg., che è di tutti; che si riferisce a tutti o comunque a più persone o cose: sala comune; patrimonio comune, nome comune; agire per il bene comune. Anche che è proprio della maggioranza, che è condiviso, accettato dai più: opinione, diceria comune; questa è la prassi più comune; senso comune, il modo d'intendere e di pensare della maggior parte delle persone e, quindi, capacità di giudizio, buon senso; ragionamento privo di senso comune, illogico, sconclusionato. In particolare, che appartiene o si riferisce a due persone o cose o a un ristretto gruppo: avere amici comuni; genere comune; questi due tessuti hanno caratteristiche comuni; abbiamo agito di comune accordo; muro comune, quello che divide due proprietà contigue; far causa comune con qualcuno, mettersi dalla sua parte, dargli appoggio; queste teorie non hanno nulla di comune, non presentano analogie, somiglianze.

2) Per estensione, non diverso dall'ordinario, usuale, abituale: “Nulla di più comune della vita patriarcale di que' due vecchi” (Nievo). Con valore spregiativo, mediocre, grossolano, dozzinale: un'intelligenza comune, vasellame comune; non comune, singolare, straordinario: ingegno non comune.

3) Frequente, diffuso: un errore molto comune; una pianta comune nelle zone umide.

4) Sm., la maggior parte: il comune degli studenti; ant. anche sf.: “i finissimi rapporti delle idee, che alla comune degli uomini paiono separate...” (Parini). Anche ciò che è comune, che rappresenta la norma: una cosa fuori del comune, eccezionale; uscire dal comune, distinguersi. Nella loc. avv. in comune, insieme, in comunità: vivere, lavorare, studiare in comune; avere qualche cosa in comune con qualcuno, avere affinità di gusti, di opinioni, e simili.

5) Sf., in teatro, la quinta d'entrata e d'uscita comune a tutti i personaggi (da cui le espressioni tipiche entrare dalla comune e uscire dalla comune). Nelle scene d'interno distingue la porta che dà verso l'esterno dalle altre che adducono, nella finzione scenica, ad altri ambienti.

6) Nella marina militare, marinaio non graduato corrispondente, a seconda della classe, al soldato o al soldato scelto.

Diritto

In un ordinamento giuridico è detto diritto comune il complesso di norme che hanno valore generale in contrapposto ad altre parti limitate al diritto locale, a quello individuale o a quello speciale. In particolare però, con l'espressione diritto comune s'intende il sistema giuridico fondato sul diritto romano-giustinianeo e sul diritto canonico. La reviviscenza, nel sec. XIII, dello ius commune va collocata in un contesto storico che vedeva il Sacro Romano Impero e la Chiesa cattolica impegnati nel massimo sforzo di dare all'Europa occidentale unità politica, riconsacrandola nei comuni ideali religiosi e nel riconoscimento dell'unità imperiale, che si voleva fondata anche nell'unità del diritto per conferirle nuova “sacralità” e saldezza. A questo sforzo delle due massime autorità di allora diede un validissimo contributo lo Studio bolognese, che sui ritrovati testi del Corpus iuris giustinianeo ricomponeva le strutture del diritto comune, mentre la Chiesa ordinava il diritto canonico in strumento universalmente valido. Prodromi di questo orientamento si erano già avuti nel sec. XI con Irnerio che, meditando sulla crisi del diritto nell'incontro della latinità con il germanesimo, aveva preparato questo ritorno alla lex romana, sempre viva per le sue doti di universalità e fatta propria anche dalla Chiesa come lex saeculi accanto alla lex spiritualis. Ma la visione di un diritto unico che emana da un'unica autorità sovrana e diventa diritto comune presuppone l'esistenza contemporanea di un diritto non comune (diritto nuovo, scritto o consuetudinario, statutario o regio) che nasce dalla spinta dei nuovi bisogni e che riesce a imporsi accanto o addirittura in deroga al diritto di Roma. Questa situazione si avverò tra la seconda metà del sec. XII e il XIII quale segno di un primo cedimento dell'unità medievale. Da questo comune pericolo, avvertito sia dall'Impero sia dalla Chiesa, nacque l'esigenza di un diritto comune che disciplinasse e offrisse tutela agli interessi comuni e che nel contempo godesse di tanta autorità e prestigio da poter scendere in mezzo alle numerose forze politiche e legislative come diritto capace di un'applicazione generale e che, pur tollerando deviazioni, a esse concedesse protezione e tutela solo se rispondenti a particolari requisiti da esso stesso posti. Tale fu la nascita del diritto comune “come espressione giuridica della monarchia universale nel suo duplice aspetto terreno e spirituale e volta alla cura degli interessi generali dell'umanità”. Base precipua del diritto comune fu senza dubbio il diritto romano-giustinianeo nell'interpretazione delle scuole medievali di diritto, ma accanto a esso sorse uno ius novum, che dagli stessi glossatori assunse una configurazione propria quanto più essi si sforzavano di ricondurlo alla matrice giustinianea. Di qui l'interessante problema di stabilire in qual misura il diritto comune fosse diritto romano, evoluzione di questo o ius novum: la questione adhuc sub iudice est. Altro problema di non minor interesse è di stabilire come dall'unica legge romana imperiale e pontificia si sia passati all'accettazione di altre leggi e alla consonanza di queste con il vecchio diritto ora detto diritto comune. Fatto salvo il carattere comune del diritto di Roma e il suo prestigio, riconosciuta l'esigenza della fedele osservanza della legge divina, del diritto naturale e di quello delle genti, la legge propria (o particolare) poteva prevalere sulla legge comune e generale solo quando la sua applicazione era invocata dall'interessato, ma in ogni caso doveva essere tenuta nei limiti più ristretti, per cui la deroga dal diritto comune era la minore possibile e solo intesa a rendere giustizia al richiedente. Di qui derivò un'interpretazione stretta del diritto proprio e tale che esso riceveva interpretazione dal diritto comune e risultava il meno dissonante possibile dalle prescrizioni generali. In questo gioco di delicati equilibri fra diritto comune e diritto proprio, il concetto stesso di ius commune andò subendo alterazioni nel significato e nella sostanza in rapporto ai tempi e ai diversi Paesi: da sommo elemento unificante dell'Impero e della Chiesa, nel tardo Medioevo era già passato a indicare, nell'ambito della civitas, il diritto statutario in essa vigente, traesse o meno i suoi principi dal diritto romano. Il concetto era ormai tanto lontano dal suo significato originario che nel Quattrocento le scuole giuridiche discutevano se la definizione di diritto comune fosse ancora riferibile al diritto romano o non piuttosto al diritto della città dominante o del principe. Nel Seicento la situazione sarà addirittura rovesciata e diritto comune sarà la legge del sovrano nel suo principato e le leggi romane diventeranno leggi particolari, emanate solo perché così piace al principe. Per conferire veste legale a norme statutarie particolari, le scuole giuridiche si preoccuparono di trovar loro un nuovo fondamento giuridico e lo identificarono nello ius statuendi, più o meno riconosciuto dall'imperatore, mentre la legge imperiale doveva sottostare, per la sua esistenza, all'accettazione dei vari principi. Continuò la denominazione di diritto comune, ma per indicare il diritto del principe, mentre il diritto romano passava alla funzione di diritto sussidiario. Seguendo il movimento espansivo del diritto comune, questo ebbe pieno il suo significato di unità delle due leggi imperiale e pontificia volta a conseguire l'unità giuridica dei popoli solo in Italia e in Germania, mentre negli altri Stati europei il diritto romano, in quanto diritto comune, fu recepito come consuetudine o perché accettato esplicitamente o implicitamente dal principe o come insieme di principi utili a conoscersi, ma privi di ogni valore coattivo di legge. In tal modo con l'affermarsi degli Stati nazionali il diritto comune, inteso nel significato originario, venne perdendo sempre più della sua unità e del suo contenuto e con il movimento delle codificazioni (sec. XIX) rimase sempre più impregnato di diritto locale.

Linguistica

Si dice di un nome che si può applicare a un'intera specie o categoria di persone, di animali, di cose, di concetti astratti, in contrapposizione al nome proprio che indica distintamente una singola persona, o animale, o luogo. Un nome proprio può a volte essere usato come nome comune, come è il caso di perpetua nel significato di “domestica di un sacerdote” dal nome proprio della famosa domestica di don Abbondio. Nomi comuni sono diventati anche certi nomi di sovrani o di altri personaggi per indicare speciali monete da loro coniate (i napoleoni, i luigi), o certi nomi propri di località per indicare particolari generi prodotti in tali località (marsala, champagne, vini che prendono appunto il nome dal luogo di produzione). Si dice anche del genere dei sostantivi che hanno un'unica forma per il maschile e per il femminile e che sono quindi distinti solo dal diverso articolo: il nipote, la nipote; il parente, la parente; il cantante, la cantante, ecc. Nomi di genere comune si trovano anche nelle lingue antiche: latino, comes (compagno, compagna), canis (cane, cagna); greco, ho theós (il dio), hē theós (la dea); ho boûs (il bue), hē boûs (la vacca). Comune si dice anche di una fase linguistica originaria che sta alla base delle diverse lingue che si suppongono da essa derivate: così il germanicocomune sarebbe la presunta unità linguistica da cui sarebbero derivate le varie lingue germaniche (tedesco, inglese, neerlandese, danese, svedese, norvegese, islandese) e analogamente dallo slavocomune si sarebbero formate le varie lingue slave (russo, polacco, ceco, slovacco, serbo-croato, sloveno, bulgaro). È detta anche comune una lingua che si è sovrapposta ai diversi dialetti locali come strumento di espressione di un'intera comunità.

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