Quadèrni del càrcere
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Opera di A. Gramsci, vasta sintesi dei problemi storici e culturali della società italiana, interpretati nell'ambito di un'approfondita e spesso originale rielaborazione della concezione marxista, che concerne in particolare i rapporti fra teoria e prassi e i condizionamenti tra struttura e sovrastruttura alla luce del materialismo storico e dialettico. Gramsci iniziò la stesura dei Quaderni del carcere nel 1929, nel carcere di Turi. I 29 quaderni scolastici a righe, 17 dei quali scritti a Turi e 12 a Formia, più alcuni estratti dai quaderni contenenti esercizi di traduzioni, sono stati integralmente pubblicati, nel 1975, nell'edizione critica dell'Istituto Gramsci, a cura di V. Gerratana, dopo un decennale lavoro di restauro filologico e teorico. L'obiettivo ultimo che Gramsci ha voluto conseguire con la sua opera è quello di fornire una risposta all'esigenza pratica di congiungere marxianamente democrazia e razionalità in rapporto al socialismo, mediante la riproposta del leninismo. La teorizzazione politica gramsciana si sviluppa intorno ad alcune tesi fondamentali: il partito politico come “intellettuale collettivo”; la distinzione tra intellettuali tradizionali e intellettuali “organici”; il centralismo democratico; la critica del parlamentarismo; la teoria dell'egemonia.
La riforma intellettuale e morale
La funzione storica assegnata da Gramsci al Partito comunista è quella di essere il “moderno principe” che (analogamente al principe invocato da Machiavelli perché si ponesse alla testa dell'unità nazionale) deve realizzare il nuovo “blocco storico” tra gli operai del Nord, i contadini del Sud e gli intellettuali, assegnando al proletariato la funzione dirigente per la conquista del potere. Al fine di formare tale “volontà collettiva”, il moderno principe deve attuare una “riforma intellettuale e morale”, che comporta la diffusione tra le masse della concezione marxista quale indispensabile premessa per ottenere il superamento del dualismo tra governanti e governati che occuperà un'intera epoca storica. Secondo Gramsci una tale riforma etico-intellettuale ha già ricevuto in molti Paesi d'Europa uno stimolo dal protestantesimo, che ha favorito il progresso delle scienze e l'economia manifatturiera, mentre è stata bloccata in Italia dalla presenza della Chiesa, che ha saputo incanalare in senso universalistico e metapolitico tutto il complesso di frustrazione degli intellettuali tradizionali, ansiosi di evadere dai limiti angusti del provincialismo. L'assenza di una genuina cultura nazionale-popolare italiana è appunto dovuta all'incontro tra l'eredità della cultura rinascimentale, degenerata in sterile accademia, e l'ideologia ecclesiastica del conformismo religioso; incontro che ha dato luogo al fenomeno novecentesco della letteratura “sacrestana” dei “nipoti di padre Bresciani” (da Papini e Soffici a Ojetti e Prezzolini e a tanti altri). Si può superare l'alternativa tra accademia e sacrestia solo colmando l'abisso tra “scrittori” e “popolo” e creando la figura nuova dell'intellettuale “organico” alla classe operaia, che smetta l'abito sterilmente cosmopolitico dell'intellettuale tradizionale e sia capace di assommare in sé le qualità dello “specialista” e del “politico”. La funzione ideologica degli intellettuali organici è quella di allargare il “consenso” delle masse, mentre la funzione storica del gruppo dirigente del partito è quella di organizzare correttamente il rapporto con le masse stesse, evitando gli opposti scogli del burocratismo e dello spontaneismo. Ne deriva la necessità di un “centralismo” che sia democratico e non burocratico, che eviti cioè la cristallizzazione in casta dell'apparato centrale e la sua scissione dalle masse; e, affinché la volontà collettiva si realizzi, occorre abbandonare ogni deteriore machiavellismo e rivendicare il valore rivoluzionario della verità: occorre cioè che i capi dicano la verità alle masse e che le masse, a loro volta, esercitino un controllo sui capi usufruendo della possibilità di accedere alla verità. Tale metodo gramsciano della verità rivoluzionaria è l'arma più valida del partito inteso come autentico portatore di una nuova cultura, che mira ad affermare non solo una completa democrazia economica ma una forma più alta di civiltà.
Il primato della società civile
Molto netta è in proposito l'avversione di Gramsci per quel tipo di “democrazia mistificata” che è il parlamentarismo, inteso come forma di Stato e come sua trasposizione, all'interno dei partiti operai, nell'aspetto delle “correnti” organizzate: nel primo caso il parlamentarismo degenera nella demagogia, nel secondo nel settarismo. Il regime rappresentativo come Gramsci lo concepisce deve invece promuovere l'autogoverno, fondato sul principio dell'eleggibilità di tutte le cariche. Infine il contributo più notevole dato da Gramsci al marxismo riguarda il concetto di “egemonia”, intesa come “primato della società civile su quella politica” (H. Portelli). Mentre il partito di governo reprime anche con la violenza gli interessi delle classi diverse, applicando una politica di “dominio”, cioè la dittatura del proletariato, nel rapporto verso i gruppi assimilabili alla sua strategia rivoluzionaria deve invece esercitare l'egemonia, non solo prima, ma anche dopo la conquista del potere: un'egemonia che si traduce in critica liberatrice degli elementi repressivi dello Stato. Riscoperto anche fuori della “provincia” italiana come il teorico della rivoluzione in Occidente, definito da Eric J. Hobsbawn come “un filosofo che si trasforma in dirigente politico, un pensatore antidogmatico che guarda alla pratica”, Gramsci ha lasciato nei Quaderni del carcere la fertile eredità di una nuova scienza della politica, che si colloca nell'ambito di una “filosofia della prassi”, cioè di un materialismo storico inteso come superamento critico del vecchio e sterile contrasto tra i due opposti paradigmi del materialismo a sfondo positivista e dell'idealismo d'impronta storicistica.
Bibliografia
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