Biografia

Filosofo, economista e uomo politico tedesco (Treviri 1818-Londra 1883). Di agiata famiglia borghese israelita, Marx si laureò in filosofia a Jena nel 1841 con una tesi sulla Differenza tra le filosofie della natura di Democrito e di Epicuro. Collaboratore e, dall'ottobre 1842, direttore della Rheinische Zeitung (Gazzetta renana), superava nella pratica del giornalismo politico i limiti della sua formazione di hegeliano di sinistra, affrontando con partecipe radicalismo democratico i più concreti problemi sociali della regione. Soppresso il giornale dal governo prussiano nel marzo 1843, Marx accoglieva e approfondiva la lezione di materialismo di Feuerbach, e si impegnava in una minuziosa Kritik der Hegelschen Staatsrechts (Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico), alla quale, trasferitosi a Parigi con la moglie Jenny von Westphalen, aggiunse una Introduzione, uscita nel 1844, nei Deutschfranzösische Jahrbücher (Annali franco-tedeschi), la quale segna la sua netta acquisizione di una prospettiva rivoluzionaria e comunista. A Parigi, per influenza di Engels e stimolato dalla fervidissima partecipazione alla vita politica dei gruppi socialisti, approfondiva le sue conoscenze di economia e di storia sociale, approdando, nei Manoscritti economico-filosofici del 1844, a una provvisoria ma affascinante sistemazione della sua dottrina e a una radicale critica delle posizioni di Bauer (Die Heilige Familie, 1845, con Engels; La Sacra Famiglia). Espulso dalla Francia nel 1845, Marx si trasferì a Bruxelles, dove scrisse con Engels Die deutsche Ideologie (L'ideologia tedesca), la cui prima parte costituisce la più ampia esposizione organica del materialismo storico. La conquistata saldezza metodologica si riflette nella polemica confutazione di Proudhon, la Misère de la Philosophie (1847), e nel celebre Manifest der kommunistischen Partei (1848; Manifesto del Partito Comunista), scritto con Engels per incarico della Lega dei comunisti. Se il Manifesto costituisce una sintesi ormai matura della concezione comunista del mondo, la Misère de la Philosophie, ancora largamente prigioniera degli schemi ricardiani, è solo il primo passo sulla strada della nuova rivoluzionaria scienza dell'economia che avrà i suoi testi classici in Zur Kritik der politischen Oekonomie (1859; Per la critica dell'economia politica) e in Das Kapital (Il Capitale; I vol.: 1867; II e III, pubblicati postumi a cura di Engels: 1885 e 1894). Marx partecipò al movimento rivoluzionario del 1848, assumendo anche la direzione a Colonia della Neue Rheinische Zeitung (Nuova Gazzetta renana), organo democratico-progressista. Ma con la vittoria della controrivoluzione nel 1849 era costretto a riprendere la via dell'esilio, stabilendosi infine con la famiglia a Londra, dove passò in gravi ristrettezze il resto della vita, sostentandosi con la collaborazione al New York Tribune e ad altri giornali e per i generosi aiuti di Engels. Compiuto fra il 1850 e il 1852 un profondo bilancio storico delle lotte di classe in Francia e in Germania dalle rivoluzioni del 1848 alla vittoria della reazione, Marx fu richiamato alla pratica politica dalla fondazione nel 1864 dell'Associazione Internazionale dei Lavoratori, di cui redasse il primo Indirizzo e una grande quantità di risoluzioni, dichiarazioni e manifesti. Sviluppi fondamentali dell'ideologia comunista enunciata nel Manifesto sono il saggio sulla Comune di Parigi (1871), esaltata quale primo concreto e fecondo esempio di democratica dittatura del proletariato, e la severa critica del 1875 del riformismo e statalismo del programma elaborato al Congresso di Gotha che diede vita al Partito Operaio Socialista di Germania (Kritik des Gothaer Programms, pubblicato da Engels nel 1891).

Economia: “anatomia” e destino del capitalismo

La scienza marxiana dell'economia ha i suoi presupposti ontologici e metodologici nel materialismo dialettico e nel materialismo storico. Perciò non è né normativa né apologetica, ma teoretica, individuando (in polemica con gli economisti classici inglesi) i nessi economici nella loro dialettica storicità. Il suo oggetto non è così un'astratta realtà economica in sé, ma “il modo capitalistico di produzione” e i “rapporti di produzione e di scambio che gli corrispondono” (Prefazione di Il Capitale). L'intera ricchezza della società capitalistica si presenta come una “immane raccolta di merci”. La merce è, in primo luogo, una cosa che si può scambiare con un'altra. L'utilità di una cosa fa di essa un valore d'uso. Il valore di scambio è il rapporto secondo il quale una certa quantità di valori d'uso di una specie viene scambiata con una certa quantità di valori d'uso di un'altra. Ma che cosa hanno in comune le merci più diverse che consente loro di scambiarsi reciprocamente in un rapporto determinato? Il fatto che sono prodotti del lavoro. La grandezza del valore di una merce è così determinata dalla quantità (cioè dal tempo) di lavoro socialmente necessario per la sua produzione. Le merci possono misurare i loro valori in comune in una stessa merce specifica, ossia in danaro. È noto a tutti che nella circolazione capitalistica il danaro aumenta. Ma da dove scaturisce quest'aumento? Non dallo scambio delle merci, che è scambio fra equivalenti, e neppure da un aumento dei prezzi, perché i guadagni e le perdite reciproche del venditore e del compratore si compenserebbero. Per realizzare quest'aumento il possessore di danaro deve trovare una merce il cui valore d'uso costituisca un processo di creazione di valore, sia la fonte di una specie di miracolosa moltiplicazione dei beni. Questa merce esiste ed è la forza-lavoro dell'uomo: il suo uso è il lavoro e il lavoro crea il valore. Il possessore di danaro compra la forza-lavoro al suo valore, determinato come per ogni altra merce dal tempo di lavoro socialmente necessario per la sua produzione, cioè in questo caso dal costo del mantenimento dell'operaio e della sua famiglia. Il possessore di danaro “usa” o “consuma” la forza-lavoro acquistata obbligandola per contratto a lavorare, per esempio, per otto ore. Ma accade che in quattro ore l'operaio crea un prodotto che basta a coprire le spese del proprio mantenimento. Sicché nelle quattro ore rimanenti fornirà al capitalista un prodotto “supplementare” e non pagato: il plusvalore. Ma al capitalista non basta il possesso delle merci prodotte. Egli ha bisogno della sua ricchezza in danaro, per ingrossare continuamente il suo capitale e garantire la sua sopravvivenza come capitalista, oltre che per aumentare i suoi consumi personali. Le merci vanno dunque vendute. Ma in luogo della pianificazione da lui controllata che dominava nella fabbrica, sul mercato trova l'anarchia più completa: la lotta mortale con tutti i suoi concorrenti, la necessità vitale di conquistare il mercato, di vendere sempre di più, che si ripercuote nella corsa alla produzione. Questo sviluppo convulso dell'economia determinato dall'unica molla del profitto conduce alle crisi cicliche di sovrapproduzione: alla dilatazione della produttività e delle ricchezze seguita da contrazioni e sprechi periodici. Infatti, “il mercato si allarga più lentamente della produzione, o nel ciclo che il capitale percorre durante la sua riproduzione – ciclo in cui non si riproduce semplicemente, ma su scala allargata, descrivendo non un circolo, ma una spirale – viene un momento in cui il mercato sembra essere troppo stretto per la produzione. Ciò avviene al termine del ciclo” (Storia delle teorie economiche, vol. II). La sovrapproduzione si stabilisce naturalmente rispetto alla domanda solvibile, non alla domanda sociale. Anzi, “la causa ultima di tutte le crisi effettive è pur sempre la povertà e la limitazione di consumo delle masse in contrasto con la tendenza della produzione capitalistica a sviluppare le forze produttive a un grado che pone come unico suo limite la capacità di consumo assoluto della società” (Il Capitale, Libro III). Ma il capitalismo non patisce soltanto di queste malattie intermittenti. La concentrazione di capitali e la crescente applicazione all'industria delle scoperte scientifiche e tecniche comportano, insieme con l'aumento della produttività e quindi del plusvalore, anche un più rapido accrescimento del capitale costante (valore dei mezzi di produzione) rispetto al capitale variabile (valore della forza-lavoro impiegata), e perciò una “caduta tendenziale del saggio del profitto” (cioè del rapporto tra il plusvalore e tutto il capitale, non soltanto la sua parte variabile). Questa tendenza, ancorché contrastata e ritardata da numerose spinte antagonistiche esaminate dallo stesso Marx, rende in ultima analisi sempre meno appetibili gli investimenti produttivi di capitale eccedente e determina un progressivo ristagno dell'economia: destino del modo di produzione capitalistico che esacerbando l'insoddisfazione proletaria promuove la tensione rivoluzionaria per il socialismo.

Filosofia: scienza della rivoluzione e ideologia comunista

I socialisti utopisti avevano denunciato vigorosamente e spesso acutamente le sofferenze della classe operaia sfruttata dal primo capitalismo industriale, invocando l'instaurazione di un ordine sociale comunistico, ma non avevano scoperto né la logica di sviluppo e quindi di crisi insita nel capitalismo, né individuato la forza sociale capace di creare la nuova società. Marx mostra invece come il comunismo non sia “un ideale al quale la realtà dovrà conformarsi, ma il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente” (L'ideologia tedesca), movimento che ha il proletariato quale suo artefice fisico, intellettuale e morale, in quanto forza sociale sempre più numerosa e compatta nella comunanza degli interessi a mano a mano che il capitalismo si estende, educata dalla lotta sociale e dal lavoro socializzato della grande industria, e in quanto sempre più lontana nei suoi costumi dalla morale e dall'ideologia borghese. Così il proletariato è passato dalla ribellione “luddista” alle prime associazioni operaie per la difesa del salario e quindi ai tentativi di organizzazioni sindacali nazionali. Ma per trasformarsi in vera “classe politica” e muovere all'attacco dell'ordine sociale il proletariato ha ormai bisogno del partito comunista, di un'avanguardia risoluta e cosciente che indichi nell'abolizione della proprietà privata l'unico obiettivo veramente liberatore delle radici stesse dello sfruttamento e chiami senza illusioni le masse alla rivoluzione violenta quale solo mezzo che possa abbattere lo Stato macchina del potere della borghesia. Con la rivoluzione verrà instaurato un nuovo tipo di Stato che “non può essere altro che la dittatura rivoluzionaria del proletariato” (Critica del programma di Gotha), la quale dovrà realizzare il massimo di democrazia all'interno del proletariato secondo l'esempio della Comune di Parigi: dove erano stati aboliti l'esercito e la polizia, tutti i deputati, i giudici e i magistrati erano eletti a suffragio universale e sempre revocabili e ricevevano uno stipendio di livello operaio, e si esaltavano il decentramento e l'iniziativa dal basso della collettività. La dittatura del proletariato deve realizzare un primo stadio di società comunista, fondata sulla proprietà comune dei mezzi di produzione, sulla pianificazione degli investimenti e sulla distribuzione ai singoli proporzionale al lavoro individuale prestato. In una fase superiore del comunismo, con lo sviluppo generale delle capacità, delle forze produttive e della ricchezza, allora, alla scomparsa della divisione fra lavoro intellettuale e manuale, la società potrà amministrarsi secondo la regola: “Da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni!” (Critica del programma di Gotha).

Bibliografia

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