Biografia e opere

Filosofo inglese (Westport 1588-Hardwick 1679). Compì i suoi studi universitari, giovanissimo, a Oxford. Divenne poi tutore del figlio del barone William Cavendish (poi conte di Devonshire) e lo accompagnò in un viaggio d'istruzione nel continente. Al suo ritorno strinse rapporti con Herbert di Cherbury e Bacone. Nel 1629 riprese la via del continente, al seguito del giovane sir Clifton, e a Parigi prese i primi contatti con l'ambiente culturale francese, la cui conoscenza approfondì in un terzo viaggio (1634-37), entrando in contatto con M. Mersenne, Cartesio e Gassendi. Fuggito dall'Inghilterra nel 1641, all'affermarsi della rivoluzione antimonarchica, riparò nuovamente a Parigi, dove rimase sino alla restaurazione della monarchia. Nacquero in questi anni parigini le Terze obiezioni (1641) alle Méditations di Cartesio, gli Elements of Law Natural and Politic (1650; Elementi della legge naturale e politica) e la trilogia degli Elementa Philosophiae (il De cive nel 1642, il De corpore nel 1655, il De homine nel 1658). Nel 1651, a Londra, uscì l'opera principale di Hobbes, il Leviathan, or the Matter, Form and Power of a Commonwealth Ecclesiastical and Civil (Leviathan, o la materia, la forma e il potere di una comunità ecclesiastica e civile), in cui egli giustificava, sulla base della sua visione naturalistica dell'uomo e della società, l'assolutismo politico più radicale. Già a Parigi iniziò la disputa sulla libertà del volere con il vescovo di Derry, Bramhall, che diede luogo agli scritti Of Liberty and Necessity (1654; Sulla libertà e la necessità) e The Questions concerning Liberty, Necessity and Chance (1656; Le questioni concernenti la libertà, la necessità e il caso). Ritornato in patria, Hobbes godette della protezione del re Carlo II, ma subì gli attacchi dei presbiteriani, a causa della sua nomea d'irreligiosità, e fu al centro di dispute continue in campi diversissimi. La sua pretesa di discutere questioni fisico-matematiche, spesso con mezzi concettuali inadatti, lo condusse a una dura polemica con il matematico oxoniense Wallis.

La struttura del reale e la conoscenza umana

Per Hobbes non esiste altra sostanza al di fuori della materia. A essa debbono ridursi le proprietà di tutto quanto esiste, ed essa sola è principio del reale. Questa affermazione è una conseguenza dell'impostazione della dottrina hobbesiana della conoscenza. Conoscenza è infatti per Hobbes ricerca delle cause dei fenomeni, sì da poterli ricostruire a nostro piacimento: ma ciò è possibile solo scomponendo gli oggetti e risalendo alle nature generali, cioè agli elementi semplici di cui il reale è composto. Alla radice di questi, come causa suprema, v'è il movimento, che presiede al divenire di tutti i fenomeni: esso però non è più da intendersi qualitativamente, nell'ambito di una visione metafisica della sostanza, bensì quantitativamente, come relazione matematica determinabile. Conseguentemente, se presupposto di ogni conoscenza possibile è la presenza di un oggetto tale da poter essere esattamente quantificabile, solo la materia, il corpo, e il movimento come principio proprio di essi rispondono alle esigenze del conoscere. Oltre al razionalismo, l'altro carattere di fondo di questa posizione è il nominalismo. Se per conoscere occorre poter ricostruire la cosa facendola generare davanti a noi dalle sue cause, il nostro atteggiamento conoscitivo non potrà consistere nel semplice accogliere dai corpi i dati che ci si presentano all'interno delle sensazioni, ma in una ricostruzione genetica svolgentesi interamente nell'ambito del nostro pensiero. Solo dove il pensiero può costruire v'è conoscenza, e ciò significa che noi conosciamo solo quanto noi stessi operiamo, e che l'intero processo conoscitivo è libera costruzione secondo un ordine e una connessione rigorosamente deduttivi, in una serie causale, all'interno del nostro pensiero. Il pensiero stesso è concepito come un insieme di operazioni elementari, come composizione di elementi semplici, calcolo. Queste operazioni sono rese possibili dal linguaggio, cioè dall'istituzione arbitraria di segni per significare le cose pensate. Solo il linguaggio permette infatti quel distacco dalla percezione immediata e quella generalizzazione che rendono possibile la conoscenza come costruzione nell'ambito del nostro pensiero. I segni del linguaggio, che proprio grazie all'arbitrarietà con cui sono scelti e riferiti agli oggetti possono stare per questi, divengono gli elementi delle operazioni del pensiero. L'enunciato o proposizione è allora la forma propria del ragionare: ivi infatti due termini o nomi vengono congiunti (sommati) quando stanno per una medesima cosa. La dottrina nominalistica della proposizione è così presupposto necessario della gnoseologia di Hobbes e garantisce la possibilità di una conoscenza costruttiva e deduttiva dotata di universalità e capace di cogliere “il più e il meno” come principio proprio del reale, quello stesso più o meno che è possibile rinvenire nel movimento e permette una conoscenza esatta della realtà corporea.

Etica e politica

La filosofia di Hobbes si propone un'estensione dei principi meccanici a tutto il campo della vita umana. Le categorie di corpo e movimento sono fondamentali anche per la considerazione della vita pratica dell'uomo. Sensazione e immaginazione sono riducibili a movimenti di livello e intensità diversa verificantisi all'interno del corpo: dall'oggetto si genera un movimento verso l'organo di senso, che provoca in questo una reazione riflettentesi a sua volta sulla cosa. La risultante di questi due movimenti inversi è la sensazione; il persistere, per inerzia, di tale movimento anche in assenza dello stimolo esterno genera l'immaginazione. Dai movimenti causati dagli oggetti nasce anche l'emozione, che si distingue però dalla sensazione perché in essa la reazione non ritorna verso l'esterno, ma si riflette all'interno stesso del soggetto. Secondo la qualità dello stimolo, si avrà inoltre un'appetizione positiva o negativa: si potrà provare cioè attrazione o avversione per un oggetto qualora esso susciti in noi piacere o dispiacere. Bene e male non sono altro che l'oggetto rispettivamente dell'appetizione positiva e dell'avversione. La volontà stessa si riduce allo svolgersi dell'appetito prevalente e non può quindi dirsi libera perché indipendente dagli oggetti esterni. Libertà sarà allora solo l'assenza di impedimenti esteriori all'azione, facoltà di dar seguito senza limitazioni all'appetito prevalente. Se la vita pratica dell'individuo si riduce alla soddisfazione dei propri bisogni e all'attuazione di quanto richiesto dai propri appetiti, non sarà possibile costruire una dottrina della convivenza sociale se non sulla base dei principi che regolano il meccanismo delle azioni individuali. Primo risultato ne sarà che, avendo gli uomini, per l'eguaglianza della loro natura, desiderio d'impossessarsi delle stesse cose per soddisfare i propri appetiti, e non esistendo altra fonte di diritto che questa stessa natura comune, ciascun individuo avrà eguale diritto ed eguale brama nei confronti dei beni comuni. Lo stato di natura, cioè, sarà una guerra di tutti contro tutti, in cui ciascuno tenderà a sopraffare il proprio simile per contendergli l'oggetto del comune diritto: il possesso esclusivo di tutti i beni. Ma a questo stato di guerra continua cui la natura condurrebbe necessariamente, con la conseguente distruzione dello stesso genere umano, si contrappone la ragione naturale, che, come s'è visto, permette all'uomo di staccarsi dalla pura dipendenza dagli oggetti esterni, e di comprendere i fenomeni ricostruendoli con le proprie forze, operando previsioni e intervenendo su di essi. Che la ragione sia calcolatrice comporta anche la sua capacità di suggerire i mezzi per superare lo stato naturale di guerra e per creare una legge naturale (perché fondata sul principio della ragione stessa, che impone a ciascuno di evitare con ogni mezzo la propria morte violenta) che induce alla rinuncia all'universalità del diritto trasferendone una parte a un determinato soggetto, così da poter garantire con questa stessa alienazione la conservazione della parte di diritti trattenuta. Sorge così, da un contratto stipulato tra gli uomini, lo Stato, che è espressione della volontà di tutti, e, come unità delle volontà in una volontà unica, è una persona nuova e diversa dalla stessa somma degli individui che lo compongono. Lo Stato è una creazione dell'uomo, ma non per questo la sua realtà è secondaria o transitoria. Gli individui non possono abrogare o rescindere unilateralmente il contratto con cui gli hanno dato vita. Esso è la sorgente di ogni potere e colui che lo rappresenta, il sovrano, ha potere assoluto su tutti gli altri, i sudditi. Lo Stato è il nuovo Leviatano, un Dio immortale contro cui non vale né è lecita la difesa. Esso stesso non è sottoposto a leggi, perché non è obbligato verso nessuno, ma è totalmente libero, costituendo l'anima e la vita della stessa collettività, che senza esso non sussisterebbe. Hobbes attua così il suo proposito di fondare un'onnicomprensiva dottrina meccanicistica dell'uomo dando vita alla più radicale e coerente difesa dell'assolutismo che il suo tempo abbia offerto.

Bibliografia

E. Cassirer, Storia della filosofia moderna, Torino, 1955; M. Cattaneo, J. Chauteur e altri, Hobbes Forschungen, Berlino, 1968; N. Bobbio, Thomas Hobbes, Torino, 1989.

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