Foléngo, Teòfilo
Indicepoeta italiano (Mantova 1491-Campese, Bassano, 1544). Di nobile casato, entrò nell'ordine benedettino (del quale facevano già parte cinque suoi fratelli), cambiando il suo nome da Girolamo in Teofilo. Compì gli studi superiori nel convento di S. Giustina a Padova, entrando in contatto con il fervido goliardismo di quella università, dove fioriva già da tempo la produzione in versi maccheronici. Nel 1524, per motivi ignoti, uscì dall'ordine e riparò a Venezia. Dopo avere trascorso un periodo di eremitaggio sul Conero (Ancona), e a Punta Campanella,, presso Sorrento (dove ebbe modo di frequentare i circoli letterari di Scipione Capece e di Vittoria Colonna), nel 1534 fu riammesso nell'ordine. Trascorse gli ultimi anni a Brescia, in Sicilia, e infine nel convento di S. Croce, a Campese. Folengo è il massimo esponente della poesia maccheronica, che, da stravaganza accademica, diventò con lui espressione di una nuova lingua poetica: non più il “latinazz” universitario, ma una composizione originale e geniale, che presupponeva una raffinata educazione umanistica. L'impasto del latino classico con il dialetto mantovano e altri dialetti settentrionali ebbe un effetto di rottura nei confronti della lingua aulica e cortigiana, degradando il latino aureo con l'immissione di un lessico bizzarro, che a sua volta veniva depurato della sua immediatezza troppo facile e corriva per acquistare un'espressività colorita e realistica. Le Maccheronee, pubblicate da Folengo con lo pseudonimo di Merlin Cocai, apparvero in quattro redazioni successive (1517; 1521; 1539-40; 1552, postuma); nella versione definitiva, esse comprendono: la Moscheide, poemetto che, sulla falsariga della pseudomerica Batracomiomachia, narra la guerra fra le mosche e le formiche; la Zanitonella, sive innamoramentum Zaninae et Tonelli, componimento che racconta l'infelice vicenda dell'amore del villano Tonello, rappresentando la vita campestre con un'immediatezza che non trova riscontro nella poesia bucolica e georgica del Rinascimento; e infine il Baldus, in cui giunge al culmine la contrapposizione tra la campagna, con la sua vitalità anarchica e incontrollata, e il mondo della città, dove l'ordine si allea con l'ipocrisia e il privilegio. Di fondo popolare è, nel poema, il tema dell'ossessione del cibo, che si risolve nella rappresentazione triviale delle funzioni del ventre e nell'esaltazione della vitalità degli istinti, preludendo al naturalismo del più geniale imitatore di Folengo, François Rabelais. Oltre alle Maccheronee, Folengo compose, in italiano, l'Orlandino, un poema in ottave, scritto intorno al 1525, che contiene episodi ispirati a un violento anticlericalismo, e il Caos del Triperuno (1526), opera mista di prosa e versi di vario metro, che contiene molte allusioni alle esperienze conventuali dell'autore. Di scarso rilievo sono le opere latine e volgari di argomento sacro: l'Hagiomachia, poema in esametri, diviso in 18 passiones (vite di martiri); l'Humanità del figlio di Dio e la Palermitana, libri in terzine rispettivamente sul Vecchio e sul Nuovo Testamento; l'Atto della Pinta, sacra rappresentazione. Più interessante è il Varium poema, che raccoglie le poesie scritte in Campania, offrendo un'ulteriore conferma della fine educazione umanistica che colloca Folengo tra i più significativi scrittori del maturo Rinascimento.
Teofilo Folengo in un ritratto del Romanino (Firenze, Uffizi).
Firenze, Uffizi
Teofilo Folengo. Frontespizio dell'Humanità del figlio di Dio (Milano, Biblioteca Trivulziana).
Milano, Biblioteca Trivulziana
Bibliografia
E. Bonora, Le “Macaronee” di Teofilo Folengo, Venezia, 1957; R. Ramat, Saggi sul Rinascimento, Bologna, 1969; E. Bonora, Retorica e invenzione, Milano, 1970; C. Mutini, Lettura del “Baldus”, in “Il Veltro”, XV, 1971; M. Chiesa, Teofilo Folengo tra la cella e la piazza, Alessandria, 1988.