Alfièri, Vittòrio (letterato)
IndiceBiografia
Poeta e scrittore italiano (Asti 1749-Firenze 1803). Nella Vita Alfieri ci ha lasciato il ritratto ideale della sua febbrile esistenza, assillata dall'ansia della gloria e incupita da una profonda malinconia: sentimenti che fanno di lui un “protoromantico” (Croce). Di antica e nobile famiglia piemontese, fu istruito dapprima da un precettore sacerdote, quindi (1758) iscritto all'Accademia di Torino dove egli, ribelle per temperamento, si sentì “ingabbiato” e costretto a uno studio infruttuoso. Uscito dall'accademia (1766), intraprese quella serie di viaggi in Italia e in Europa nei quali sembrava cercare uno sfogo alla sua giovinezza dissipata in varie passioni (preminente quella per i cavalli, duratagli tutta la vita). Amori, duelli, tentati suicidi si susseguirono in quei viaggi, che non appagavano la sua anima inquieta, attratta solo dal paesaggio desertico e sconfinato dell'Europa settentrionale. Si ritrasse invece, sdegnato, da città come Berlino (“universal caserma”) e da corti come quella di Maria Teresa d'Austria, dove aveva visto servilmente genuflesso Metastasio. Nel 1772, stabilitosi a Torino, si dedicò con metodo allo studio dei classici latini e italiani per rimediare alla frammentarietà della sua cultura, fatta fino allora soprattutto di letture degli illuministi francesi. Scoprì la sua vocazione di autore teatrale quasi per caso, componendo per ingannare il tempo, mentre assisteva un'amica malata, una tragedia, Cleopatra. Rappresentata con successo al Teatro Carignano di Torino, nel giugno 1775, lo spinse a conseguire la gloria in quel genere tragico che non aveva visto eccellere nessuno scrittore italiano. Si recò allora in Toscana per “disfrancesarsi” e iniziò la sua fervida attività letteraria, cui volle dedicarsi in piena indipendenza anche dai doveri di suddito, donando i suoi beni patrimoniali alla sorella Giulia in cambio di una pensione. A Firenze, nel 1777, conobbe Luisa Stolberg, contessa d'Albany e consorte di Carlo Edoardo Stuart, la quale fu per lui il “degno amore” e la fedele compagna fino alla morte. Soggiornò in Toscana, a Roma (dal 1781 al 1783: uno dei periodi più felici della sua vita), in Alsazia, e, dal 1787 al 1792, a Parigi, dove salutò con entusiasmo lo scoppio della rivoluzione, che poi rinnegò, sdegnato, nel suo aristocratico orgoglio, dagli sviluppi popolari e sanguinosi degli avvenimenti parigini. Tornò nel 1792 in Italia e si stabilì a Firenze, dove visse gli ultimi anni in amara e crucciata solitudine. Fu sepolto in Santa Croce, dove la Albany gli fece erigere da Canova un monumento sepolcrale.
Vittorio Alfieri in un ritratto di F.-X.-P. Fabre (Firenze, Uffizi).
De Agostini Picture Library/A. Dagli Orti
Il pensiero
Nell'opera alfieriana si rompe l'equilibrio illuministico tra natura e ragione e si annuncia drammaticamente il Romanticismo, in una serie di contraddizioni che rispecchiano il ristagno della cultura nel Piemonte del Settecento. La contraddizione fondamentale è quella di una mente che accetta la polemica antimetafisica e antireligiosa dell'Illuminismo e di un cuore che rifiuta i limiti della natura umana, svelati dalla ragione, rifugiandosi in una mitologia superumana ed eroica di suggestione umanistico-plutarchiana. Scissa da questo contrasto interiore, la personalità di Alfieri approda a un estremo individualismo, nettamente antisociale e fondamentalmente anarchico, libertario e non liberale. La libertà è, infatti, per Alfieri, negazione della storia: l'uomo, perennemente schiavo nella società, è libero solo se ne evade; ma tale evasione è negata alla plebe che non deve “mai mancare né di pane né di giustizia né di paura”. Al vertice della vita spirituale di Alfieri si colloca la poesia, legata strettamente al concetto di libertà: il letterato è un eroe “sprotetto”, è l'uomo del dissenso e della radicale contestazione di ogni tirannide. L'ideale eroico alfieriano si profila già nel giovanile Esquisse du jugement universel (1773), in cui si esprime lo sdegno per la vita frivola e corrotta dell'aristocrazia piemontese, e si precisa meglio nei Giornali, stesi in francese (1774-75), poi (1777) in italiano: un diario intimo, in cui il poeta conduce un approfondito scandaglio della sua personalità più segreta, scoprendo nell'educazione alla morte eroica il segreto della sua vocazione tragica.
Le tragedie
Nel 1775 era apparsa la prima opera, Cleopatra, che Alfieri escluderà dal corpus delle sue tragedie: ma nel personaggio di Antonio affiora già l'eroe che lotta invano contro le lusinghe della passione e la crudeltà del destino. Era necessario ad Alfieri liberarsi dal patetismo e dall'enfasi: ciò avviene con le altre due tragedie ideate nel 1775, Filippo e Polinice, nelle quali sono applicate già le tre caratteristiche fasi “dell'ideare”, dello “stendere” in prosa, del “verseggiare”. Centrali, nelle due opere, sono rispettivamente le figure di Filippo (robusta raffigurazione di monarca spietato fino a sacrificare al suo assolutismo la vita del figlio e nello stesso tempo dolorosamente cosciente della propria disumana e infelice condizione) e di Eteocle, eroe mostruoso e barbarico, che immola al suo odio smisurato ogni affetto familiare: personificazione estrema dell'anarchismo alfieriano. Seguono, nel 1776, tre grandi tragedie: l'Antigone, in cui vive di alta vita poetica la protagonista, drammaticamente divisa tra l'ansia eroica della morte e il timore umanissimo della sua femminilità tenera e delicata; l'Agamennone, dominato dall'alternarsi angoscioso dell'illusione di libertà mediante il delitto e della successiva delusione davanti al sorgere di nuovi, inesorabili limiti; l'Oreste, il cui protagonista, pur essendo uno dei più intensi personaggi alfieriani, non è tra i più tipici, mancandogli la piena consapevolezza del suo atroce matricidio. Nel 1777 Alfieri scrisse “d'un solo fiato” il trattato Della tirannide: alla potenza del tiranno, fondata sulla viltà dei sudditi e sostenuta dalla casta militare, da quella sacerdotale e da quella nobiliare, si contrappone la ferma ostilità dell'uomo libero, pronto al suicidio o al tirannicidio. Vicina all'impeto rivoluzionario della Tirannide è la prima delle tre “tragedie di libertà”, la Virginia (1777), opera fervida e appassionata, il cui vero protagonista è tutto un popolo; seguono la Congiura dei Pazzi (1777), la più violenta e più funebre espressione della concezione libertaria alfieriana, e il Timoleone (1779), tragedia di idee più che di creature umane, esemplarmente scarna ed essenziale. Meno intense poeticamente sono le tragedie composte tra il 1778 e il 1781: la fiacca Maria Stuarda, che l'autore stesso definì “la sola forse che non vorrebbe aver fatto”; l'impetuosa Rosmunda, viziata da una tensione eccessiva; il fosco Don Garzia, tecnicamente ben costruito, ma troppo calcolato e macchinoso. Di questo stesso periodo è però l'Ottavia, la cui protagonista si annovera tra le indimenticabili creature femminili di Alfieri: vittima rassegnata al suo destino, non eroica come Antigone, ma come lei ricca di fierezza e, insieme, di dolcezza.
Le opere del periodo romano e parigino
Nel periodo romano (1781-83) si verifica una nuova esplosione del furore libertario dell'Alfieri con le cinque odi L'America libera, in cui si esalta il “liber uomo” Washington ma non si comprendono le ragioni economiche della rivoluzione americana, e con il poemetto L'Etruria vendicata, antistorica ed esagitata rappresentazione dell'assassinio di Alessandro de' Medici per mano di Lorenzino. Non più che un esercizio letterario, pur animata da una sottile vena elegiaca, è la tragedia Merope (1782), cui segue, nello stesso anno, il Saul, la più potente creazione alfieriana, in cui la figura del grande re biblico s'impone sugli altri personaggi col suo smisurato orgoglio di tragico superuomo, invano anelante a oltrepassare il limite della realtà, personificato dal tremendo e occulto potere del dio ebraico e travolto alla fine dalla follia e dalla morte. Dopo il Saul, l'Alfieri interrompe l'attività tragica in seguito alla forzata lontananza dalla sua donna: da questo stato d'animo di doloroso abbattimento ha origine la prima parte, e la più copiosa, delle Rime, nelle quali l'Alfieri rinnova la tradizione della lirica petrarchesca, con accenti talora intensi e originali, specie nel gusto del paesaggio orrido e cupo e nel linguaggio aspro e spezzato. Il prevalere di un'intonazione lirica ed elegiaca, già affermatosi nel diario poetico delle Rime, perdura anche nelle tragedie ideate nel 1784, l'Agide e la Sofonisba; ma l'ispirazione tragica ritorna possente nella Mirra (1784), dramma di un'orrenda passione concepita da un'innocente giovinetta: il limite contro cui si battono disperatamente gli eroi alfieriani è qui avvertito con una consapevolezza nuova dell'inanità della lotta e, dunque, con l'accentuazione della componente pessimistica su quella titanica. Vicini al pessimismo della Mirra sono il Panegirico di Plinio a Traiano (1785), in cui l'eroismo individuale è esaltato anche a prezzo della rovina dello Stato, e il dialogo Della virtù sconosciuta (1786), dove si esprime un superbo disdegno della morale comune. Una viva fede nella creatività poetica anima invece il trattato Del principe e delle lettere (1786), in cui si profila la figura del letterato nuovo, ma deciso oppositore del potere costituito grazie al suo “forte sentire” congiunto a un “robusto pensare”. Il trattato si chiude significativamente con la machiavelliana “Esortazione a liberar l'Italia dai barbari”. È così posta la premessa del ritorno alle tragedie politiche (Bruto primo e Bruto secondo, 1786), che chiudono il teatro alfieriano, non essendo l'Alceste seconda (1798) e la “tramelogedia” (fusione fra tragedia e opera in musica) Abele altro che esercizi letterari.
Le ultime opere
L'ultima grande opera alfieriana è la Vita (1790-1803). Senza falsarne i dati, Alfieri ricostruisce la sua biografia, dividendola in quattro epoche e dando rilievo a quegli avvenimenti e a quei tratti del suo carattere da cui emerge la sua forte e prepotente personalità, tesa a riconoscere la sua vocazione di scrittore e a perseguirla con tenacia. Staccatosi dai suoi fantasmi tragici e incupito da una precoce vecchiaia, Alfieri compose, negli ultimi anni, opere satiriche e polemiche: le Satire, volte a deridere la società settecentesca, e il Misogallo, cinque prose miste a versi, dominate dall'odio contro la Francia e la rivoluzione, che pure aveva esaltato nell'ode Parigi sbastigliato. Documento della sua amara e crucciata solitudine sono infine le sei Commedie (1800-1803): quattro (L'uno, I pochi, I troppi, L'antidoto) satireggianti le istituzioni politiche, e due (La finestrina, Il divorzio) di argomento morale. Ma la poesia ritorna ancora una volta nell'ultima parte delle Rime, composta dopo il 1794, in cui al paesaggio drammatico dei sonetti precedenti succede il paesaggio consolatorio dei colli fiorentini e all'ira e alla malinconia subentra una pacata contemplazione della morte.
Bibliografia
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