Igor' Stravinskij
Igor Fëderovic Stravinskij (Oranienbaum, Pietroburgo 1882 - New York 1971) era figlio di un cantante lirico (basso) e fu avviato a studi di diritto, ma nel 1903 divenne allievo privato di N. Rimskij-Korsakov, che, oltre a dargli lezioni (fino alla morte, nel 1908), si adoperò perché le sue prime composizioni fossero eseguite. Una svolta decisiva nella carriera di Stravinskij fu l'incontro con l'impresario S. Djagilev, che gli propose di collaborare per i suoi Ballets Russes e gli commissionò la partitura dell'Uccello di fuoco (Parigi, 1910), prima grande affermazione del compositore. La collaborazione con Djagilev, a cui sono legati molti dei suoi successivi capolavori (fino al 1928), lo spinse a prolungati trasferimenti a Parigi e rese più rari i soggiorni in Russia: negli anni del primo conflitto mondiale, Stravinskij visse in Svizzera e, dopo la rivoluzione d'ottobre, decise di non tornare più in patria, risiedendo in Francia dal 1920 al 1939 e assumendo nel 1934 la cittadinanza francese. In quel periodo si dedicò anche all'attività di pianista e direttore d'orchestra. Nel 1939 accettò un invito della Harvard University e si stabilì a Hollywood, negli Stati Uniti (ne assunse la cittadinanza nel 1945). Dopo il secondo conflitto mondiale compì numerose tournée in Europa (nel 1962 anche in Russia), proseguendo inoltre l'attività compositiva fino agli ultimi anni.
Le opere "russe"
Il complesso percorso stilistico che si ravvisa nell'ampia produzione di Stravinskij è caratterizzato da svolte che suscitarono scandalo e parvero enigmatiche, anche se rivelano una rigorosa coerenza interna. Gli esordi risentono dell'influenza di Rimskij-Korsakov e anche di P.I.
Cajkovskij, A. Skrjabin e C. Debussy: dopo pagine pur notevoli, come, fra l'altro, lo Scherzo fantastique (1907-08) e Fuoco d'artificio (1907-08), L'uccello di fuoco segna nelle scelte timbriche e nell'invenzione ritmica di alcune parti la prima chiara affermazione dell'originalità di Stravinskij, anche se vi si ravvisano ancora in larga misura gli influssi sopra citati.
Il "periodo russo" prosegue con capolavori quali il balletto Petruska (Parigi, 1911), La sagra della primavera (Parigi, 1913) e Le nozze (composte nel 1916-17), tutte pagine che meglio rivelano il senso dirompente della presenza stravinskiana nel quadro della musica di quegli anni. Lo caratterizzano la presenza di un melos slavo radicato in una sostanza popolare russa (quasi sempre senza citazioni dirette), l'originale concezione timbrica, mirante a secche e asciutte profilature, o anche (specie nella Sagra) a duri blocchi sonori pietrificati, la frequente politonalità (e comunque un uso piuttosto libero delle dissonanze) e, soprattutto, un'invenzione ritmica senza precedenti, che tocca nella Sagra una complessità tale da interessare anche le recenti avanguardie. La violenza di questa partitura, ispirata a una mitica visione di una Russia arcaica, è legata anche a una sorta di impassibile oggettività con cui viene guardato lo sprigionarsi di barbariche forze primordiali. L'ineluttabilità del sacrificio nella Sagra, come l'amara sorte della marionetta in Petruska, rimanda coerentemente agli sviluppi successivi del pessimismo stravinskiano, che trova un'ulteriore, radicale espressione (con mezzi musicali diversi) nella Storia del soldato (Histoire du soldat, Losanna, 1918): si può ravvisare nell'Histoire l'inizio di una netta svolta nello stile stravinskiano, in cui, alla scelta della condizione di esule, corrisponde l'abbandono di soggetti e di inflessioni musicali "russe", accompagnato da una forte semplificazione della scrittura ritmica e da un interesse per altri fenomeni musicali, come il jazz e la musica di consumo.
La svolta "neoclassica"
Il procedimento di personale appropriazione di formule, per esempio, del jazz (svuotate del significato originario, proiettate in un contesto ambiguo e problematico) prelude da vicino alla svolta "neoclassica", il cui clamoroso inizio si fa risalire al balletto Pulcinella (Parigi, 1920) su musiche di G.B. Pergolesi (o ritenute sue).
Riprendendo pagine, temi, o più spesso atteggiamenti stilistici del passato, dal barocco a Cajkovskij, Stravinskij abbandona le punte e le tensioni che avevano spaventato il pubblico della Sagra, ma questo "ritorno all'ordine" non è affatto un recupero vitalistico e fiducioso della tradizione: al contrario, è un'operazione esercitata con amara consapevolezza, con tagliente e ambigua ironia su stilemi linguistici rinsecchiti, svuotati di senso dall'interno, collocati in un contesto deliberatamente improprio. È il "ritorno" a un ordine morto e pietrificato, lucido e consapevole frutto di una profonda sfiducia nella storia, di un radicale pessimismo che rifiuta la possibilità di costruire un linguaggio "nuovo" ed esorcizza in un implacabile oggettivismo una catastrofica condizione esistenziale.
Fra le pagine più alte della fase "neoclassica" devono essere ricordati almeno l'opera-oratorio Oedipus rex (1927, su testo di J. Cocteau tratto da Sofocle e tradotto in latino da J. Daniélou) e l'opera La carriera di un libertino (Venezia, 1951), dove più esplicito appare il tragico fatalismo stravinskiano; i balletti Apollo Musagete (1928) e Il bacio della fata (1928), Gioco di carte (1937), Orpheus (1947); la Sinfonia di salmi (1930), l'Ottetto per fiati (1923), la Messa (1948), la Sonata (1924) e la Serenata (1925) per pianoforte, il Concerto (1935), per due pianoforti, e molta altra musica strumentale degli anni 1920-50.
Le opere "seriali"
L'ultima svolta (apparente) del compositore è stata la graduale assunzione della dodecafonia (a partire dal Settimino, 1952): anch'essa viene sentita come un fatto ormai storicizzato, riducibile a fossile, disponibile alle gelide, ieratiche, ascetiche costruzioni del tardo Stravinskij, che nei confronti della musica della seconda scuola di Vienna (v. cap. 18) non tenne un atteggiamento molto diverso da quello che aveva avuto verso le tradizioni classiche. Fra i capolavori dell'ultimo periodo si ricordano il balletto Agon (1953-57); Canticum sacrum (1955) e Threni (1957-58) per soli, coro e orchestra; Movements (1958-59) per pianoforte e orchestra; la cantata A sermon, a narrative and a prayer (1961), e Requiem Canticles (1966) per soli, coro e orchestra.