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  • L'opera saggistica di Thomas Mann

L'opera saggistica di Thomas Mann

Nei saggi si esprime quella che Thomas Mann, nel 1937, definiva la sua vocazione, che – egli diceva – non era quella del martire, bensì del rappresentante, consapevole di esserlo. A quell'autodefinizione – resa in una difficile ora storica nella quale egli, dinanzi al dilagare del nazionalsocialismo, andava assumendo sempre di più il ruolo di portavoce ufficiale e autorizzato dell'umanesimo e della democrazia – lo scrittore aggiungeva alcune incoraggianti specificazioni, dicendo di essere nato per recare al mondo un po' di superiore serenità. Come molte parole di Mann dettate dal suo senso di responsabilità etico-politica e dalla sua sorvegliata amministrazione del proprio genio e della propria figura, pure quella chiosa tendeva a smorzare la verità dell'affermazione centrale, il disagio di chi si sente chiamato non tanto a vivere quanto a rappresentare la vita.

La coscienza della distanza che c'è tra la vita e la rappresentazione – che per ritrarla non può evitare, almeno parzialmente, di perderla – è la coscienza della necessità, per l'artista moderno, d'instaurare questa distanza e di ricorrere a questa rappresentazione. I saggi analizzano e illustrano questo motivo, presente sin dai primissimi scritti di Mann, sia discutendolo in generale, sia cogliendo nelle sfumature e dimensioni diverse ch'esso assume nei più diversi autori della letteratura universale, da Goethe a Tolstoj, da Nietzsche a Dostoeskij. I saggi spiegano quel tema così complesso ed ambiguo pure nel senso etimologico del termine ricordato da Benjamin a proposito delle interpretazioni delle parabole, “spiegate” anche come il foglio col quale è fatta una barchetta di carta, che viene disteso e reso liscio sul tavolo. I saggi manniani recano realmente una “superiore serenità”; la loro profondità così amabile, lo stile armonioso e affabile, la sintassi sinuosa e perfetta che impone ordine alle ambiguità e alle contraddizioni più tortuose, la sonda che scandaglia l'abisso e aiuta a evitarlo, lo stesso piacere della bella parola e della bella frase – d'una bellezza pastosa ma sobria, aliena da ogni lenocinio estetizzante – recano un reale conforto, danno al lettore l'impressione di essere in qualche modo sorretto e giustificato.

Claudio Magris, I saggi di Thomas Mann, una custodia per i “Buddenbrook”, saggio introduttivo a T. Mann, Nobiltà dello spirito e altri saggi, a cura di Andrea Landolfi, Mondadori, Milano 1997, pp. XI-XII.