Panorama storico
Con la morte di Nerone termina la dinastia Giulio-Claudia, ma quella duplicità di orientamento politico, che aveva visto il succedersi di prìncipi inclini o ad un regime dispotico ellenizzante (cesarismo) o ad una linea politica rispettosa delle prerogative del senato (diarchia augustea), segnerà anche gli anni successivi. Si apre nell’anno 69 (anno dell’anarchia militare) un breve periodo di lotte per la successione, durante il quale gli eserciti acclamano imperatori i loro rispettivi generali, mentre da più parti si leva un profondo risentimento contro le popolazioni privilegiate d’Italia e contro le classi ricche delle province più romanizzate. Si avvicendarono così al potere Galba, Otone e Vitellio. Alla fine su tutti prevalse Vespasiano, che, impegnato fin dal 66, in Palestina, nella repressione della rivolta giudaica, venne acclamato da tutte le legioni orientali, e, sconfitto e trucidato Vitellio, ottenne dal senato i pieni poteri (69). Tito Flavio Vespasiano, proveniente da modesta famiglia della Sabina, ma dotato di acume politico, subito capì che, per regnare in sicurezza doveva risolvere i due problemi più importanti legati al governo: legittimare il suo potere nei confronti del senato, su di una concreta base giuridica, e risolvere la crisi militare, per non dipendere dalla volubilità delle truppe. Suo primo atto fu la promulgazione della Lex de imperio Vespasiani, con la quale si delimitavano reciprocamente (de iure e non solo de facto) i poteri del senato e quelli del principe. Quanto all’esercito, congedò le legioni italiche, troppo inclini ad interferire nelle faccende politiche, e provvide ad arruolare nuove truppe nelle province da più tempo legate a Roma: all’atto dell’arruolamento garantiva, a chi non l’avesse, la cittadinanza romana. La sua politica si orientò al modello augusteo e, nel corso dei dieci anni (69–79) del suo regno, diede frutti di rilievo. In particolare: il principe rinsaldò i confini occidentali dell’impero; immise nel senato numerosi elementi della classe equestre e del nuovo ceto medio italico e provinciale (sicché, dopo pochi anni del suo governo, l’assemblea risultava profondamente mutata); risollevò lo Stato dalla pesante crisi economica (il dissesto economico iniziato con gli sperperi di Nerone, si era aggravato a seguito delle recenti guerre civili); superò l’ormai antiquata distinzione fra italici e provinciali; promosse opere pubbliche e migliorò le vie di comunicazione tra le varie parti dell’impero. Gli successe il figlio Tito, che regnò poco tempo (79–81). Al di là di certi atteggiamenti orientaleggianti, continuò la politica paterna di pacifica coesistenza con il senato, al punto da ottenere buona e duratura propaganda (basti pensare che Svetonio lo definisce amor et deliciae generis umani). Tito si mostrò nel complesso più munifico del padre nelle spese per i giochi del circo e nelle elargizioni al popolo. Sotto di lui venne, tra l’altro, ultimato il Colosseo, che era stato iniziato per volontà di Vespasiano. Mostrò tutta la sua generosità nel sovvenire il popolo in occasione di una pestilenza scoppiata a Roma e a seguito dell’eruzione del Vesuvio del 79 d.C. Una svolta si ebbe con suo fratello Domiziano (81–96). Il nuovo principe perseguì senza incertezze un indirizzo politico che conduceva alla monarchia assoluta. Guadagnandosi il favore del popolo, con ampie elargizioni, e delle milizie, con l’aumento delle retribuzioni militari (soldo), diede inizio ad una lotta a fondo contro la classe senatoria. Assunse il titolo di dominus et deus, per affermare in modo indiscusso il suo primato, e volle la censura a vita, per colpire i senatori con condanne e confische di beni. Ancora, poi, aprì le porte del senato ad elementi nuovi, tra cui anche degli orientali, al fine di alterare la composizione di quell’assemblea e di comprometterne il carattere di oligarchia repubblicana: a questo punto il senato non risultava più il centro di un potere politico ed economico omogeneo, quindi capace di contrapporsi con efficacia alle iniziative assolutistiche del principe. La lotta iniziata da Domiziano contro la nobilitas assunse forme persecutorie e suscitò una vasta opposizione, che portò ad alcune congiure e alla rivolta di Lucio Saturnino (89), legato della Germania Inferiore. Il tentativo sovversivo venne prontamente represso, ma la diffidenza del principe nei confronti di coloro che lo circondavano aumentò: il risultato fu un ulteriore inasprimento delle misure di sicurezza. Negli ultimi anni del suo governo (i cosiddetti tempora saevitiae) s’instaurò un vero e proprio clima di terrore, simile a quello di Tiberio e Nerone, che fu deleterio non solo sotto l’aspetto politico, per l’inevitabile contrazione, e addirittura paralisi, delle iniziative di governo, ma anche perché di fatto il principe finì per alienarsi il favore di tutti. Domiziano nel 96 cadde vittima di una congiura. In quest’età non mancano iniziative poetiche di rilievo. Valerio Flacco, Silio Italico e Papinio Stazio si riallacciano all’epica di Virgilio, pur in modo del tutto nuovo. Quintiliano, teorico dell’oratoria, cerca di recuperare la lezione di Cicerone. L’opera di Marziale si inserisce nella tradizione degli epigrammi e mira a restituire il gusto dell’uomo e della vita, pur nei limiti di una vena spesso caricaturale. Plinio il Vecchio dà un alto esempio di dottrina.