Approfondimenti
- Il monologo di Medea
Il monologo di Medea
“Me infelice, tra quanto grandi e quali sventure mi trovo! Da ogni parte il mio cuore non ha che angoscia e impotenza. Nessun rimedio alla pena, alla fiamma ferma che brucia. Come vorrei che mi avessero uccisa le frecce veloci di Artemide, prima che io lo (Giasone) vedessi, prima che una nave greca portasse qui i figli di mia sorella Calciope: un dio o un'Erinni li ha guidati di là per il mio dolore e il mio pianto. Muoia! Se il suo destino è di morire sul campo. Ma io come potrei preparare il rimedio, nascondendolo ai miei genitori? E cosa dire? Quale il pensiero, l'inganno che mi dia aiuto? Posso vederlo rivolgendomi a lui solo, senza compagni? Infelice! Anche quando sia morto non spero di avere respiro dai mali : allora per me verrà la sventura, quando avrà perso la vita. Alla malora il pudore e la fama, e lui, salvo per mio volere, se ne vada via illeso, dove il suo cuore desidera. Ma io il giorno stesso quando avrà compiuta la prova, morrò appendendo il mio collo al soffitto, o bevendo il veleno che distrugge la vita. Eppure anche da morta, lo so, scaglieranno contro di me le voci maligne; l'intera città griderà la mia sorte e le donne di Colchide mi porteranno con spregio di bocca in bocca, l'una con l'altra: “Colei che amò un uomo straniero fino a morirne e disonorò la sua casa e i suoi genitori, cedendo alla lusinga”. Quale non sarà la vergogna? Quale la mia sventura! Meglio, meglio sarebbe in questa notte stessa, in questa stanza lasciare la vita per un destino nascosto, sfuggendo a tutti i rimproveri, prima di aver compiuto colpe innominabili.”
(Argonautiche, libro III, vv. 771-801)