Euripide
Le prime opere
Prime in ordine cronologico fra le tragedie pervenute, ma già appartenenti alla maturità del poeta, sono Alcesti (438 a.C.), Medea (431 a.C.) e Ippolito (428 a.C.), che, pur nella diversità dei temi, possono essere accostate tra di loro per la creazione di grandi figure tragiche, specialmente femminili.
Alcesti
L'Alcesti era rappresentata dopo la trilogia tragica (non pervenuta) e quindi assolveva alla funzione di dramma satiresco. In questo senso, si possono spiegare non tanto il lieto fine quanto soprattutto la coloritura comica della seconda parte del dramma. Il dio Apollo ottiene da Thanatos – la morte – che Admeto, re di Fere in Tessaglia, sfugga alla morte se qualcuno vorrà morire per lui. Né il padre né la madre di Admeto vogliono sacrificarsi. Solo la sposa Alcesti è pronta a offrire la sua vita e, dopo aver pronunciato un commovente addio, muore tra le braccia del marito. Admeto e suo padre Ferete si scontrano rimproverandosi il meschino attaccamento alla vita che li ha indotti a lasciar morire Alcesti. Eracle, ospitato nella reggia di Fere, apprende da un servo la verità e corre a strappare Alcesti a Thanatos per restituirla all'amore dei cari. L'opera è diseguale nelle sue parti e negli esiti raggiunti: la grande figura di Alcesti si contrappone a quella, psicologicamente contraddittoria, di Admeto, troppo tardivamente consapevole delle conseguenze delle proprie scelte.
Medea
Medea, principessa della Colchide, dopo aver aiutato Giasone nella conquista del vello d'oro e averlo accompagnato fino a Corinto, si vede ora da lui abbandonata per Creusa, figlia del re Creonte, e condannata all'esilio e alla miseria. Decisa a vendicarsi, ottiene prima da Creonte che la sua potenza sia ritardata di un giorno, poi riceve dal re ateniese Egeo, giunto a Corinto reduce da Delfi, solenne promessa di asilo. Sicura di trovare un rifugio, dopo un inutile colloquio con Giasone, Medea attua il suo piano di vendetta. Manda in dono a Creusa una veste impregnata di veleno; la giovane sposa l'accoglie ignara, e la veste strazia le sue carni. Creonte si getta sul corpo agonizzante della figlia e viene anch'egli ucciso dal veleno. Medea entra poi nel palazzo e uccide i figli avuti da Giasone. Quando Giasone arriva vede Medea condotta in alto dal carro del Sole con i cadaveri dei figli, che ella stessa seppellirà nel santuario di Hera.
Diversamente dall'Alcesti, la struttura della Medea è molto compatta: il tormento della gelosia, lo scacco dell'orgoglio tradito, la frustrazione per la condizione femminile (particolarmente precaria nel caso di Medea, donna straniera e a tutti sospetta), la feroce determinazione nel compiere la vendetta si fondono nella creazione di un personaggio tra i più grandi della drammaturgia di ogni tempo. Il conflitto drammatico è tutto nell'animo della protagonista, in cui le ragioni del cuore e della passione si scontrano con la lucidità delle analisi e delle risoluzioni.
Ippolito
Lo studio della psicologia femminile domina anche l'Ippolito incentrato sulla figura di Fedra, moglie di Teseo, re di Atene, e matrigna di Ippolito. Per volontà di Afrodite, offesa dal comportamento di Ippolito, Fedra viene presa dalla passione per il figliastro. Sconvolta da questo amore incestuoso, Fedra decide di uccidersi, ma lascia uno scritto in cui, per desiderio di vendetta, o forse per affermare (almeno nella finzione) quanto ha desiderato in realtà con tutte le forze, dice di essere stata violentata dal giovane. Teseo viene a conoscenza del suicidio della sposa, della sua clamorosa accusa nei confronti del figlio, che egli maledice ritenendolo colpevole. Ippolito muore, travolto dai suoi cavalli imbizzarriti e Teseo, compresa troppo tardi la verità per rivelazione di Artemide, piange con amaro pentimento la scomparsa del figlio. Nell'Ippolito, le divinità sono presenti solo all'inizio e alla fine del dramma: ma non sono altro che immagini-simbolo di valori immanenti nella vita dell'uomo: la forza dell'eros (Afrodite) e l'ideale della purezza (Artemide), sono considerati di per sé validi ma entrambi insufficienti, se vissuti con sterile esclusività.