Una funzione attiva dell'investimento coerente con lo spirito della teoria keynesiana è quella proposta dall'economista statunitense James Tobin e nota come teoria della q. Punto di partenza di tale teoria può essere considerato un limite evidente del modello neoclassico di Jorgenson menzionato in questo capitolo: il costo di aggiustamento della quantità di capitale (espresso dal parametro a) risulta estraneo alle scelte delle imprese, le quali infatti determinano lo stock desiderato di capitale, K(it, Qt), senza tenerne conto. In questo senso l'investimento non costituisce oggetto di scelta in sé, ma consegue da una decisione logicamente precedente sulla quantità di capitale che l'impresa desidera detenere. L'esplicita inclusione di tale costo nella scelta ottimale dell'impresa genera una funzione attiva dell'investimento, che ha come oggetto la variazione della quantità di capitale e la riconduce appunto alla cosiddetta “q di Tobin": quest'ultima è definita come il rapporto tra la il valore attribuito dal mercato al capitale addizionale acquisito dall'impresa - sulla base delle sue prospettive future - e il costo di rimpiazzo del capitale stesso. Secondo questa impostazione, un valore di q maggiore dell'unità spingerà l'impresa ad acquisire nuovi beni strumentali, poiché il mercato (tramite i corsi azionari) offre di tali beni, una volta installati, una valutazione superiore al costo che l'impresa deve sostenere per entrarne in possesso. I tentativi di sottoporre la teoria della q a verifica empirica hanno peraltro generato risultati ambigui, a causa soprattutto della difficoltà di stimare correttamente il valore di q. Esiste in particolare la possibilità che i corsi azionari riflettano non tanto le prospettive future dell'impresa (e quindi il valore attribuito dal mercato al suo capitale), quanto piuttosto moventi speculativi.