utilitarìsmo
sm. [sec. XIX; da utilitario]. In filosofia, nome dato a quelle dottrine che identificano il bene con l'utile. Nell'antichità, utilitaristi furono Epicuro e la sua scuola; oggi il termine però esprime un determinato indirizzo del pensiero etico, politico, economico e sociale inglese che fiorì nei sec. XVIII e XIX ed ebbe a maggiori rappresentanti, in campo etico e politico, J. Bentham (1748-1832) e J. Stuart Mill (1806-1873) e, in campo economico sociale, R. Malthus (1766-1834) e D. Ricardo (1772-1823). L'utilitarismo si propose di fare dell'etica una vera e propria scienza della condotta e del comportamento umano. A questo scopo sostituì allo studio dei fini quello dei moventi dell'agire umano e lo identificò nel piacere. Un piacere però che per essere l'unico autentico movente dell'agire umano deve coincidere col piacere e la felicità del maggior numero possibile di persone. Il piacere viene così inteso dagli utilitaristi come coincidente con l'utilità e con il bene pubblico. Secondo Mill l'uomo desidera anche la felicità altrui, perché la sa strettamente connessa con la propria: il benessere degli altri e della comunità nella quale l'individuo è inserito propizia e aiuta anche il suo benessere. Veniva così modificata e trasformata da individualistica in sociale la concezione edonistica che vedeva nel piacere egoistico del singolo il movente delle azioni umane. Strutturato in modo scientifico, l'utilitarismo si pone accanto al positivismo moderno e contemporaneo, mentre per le sue preoccupazioni e istanze sociali rientra invece nell'ambito del liberalismo. In campo politico e sociale l'utilitarismo fu animato da un notevole spirito riformatore. Elaborando le loro teorie gli esponenti dell'utilitarismo si lasciarono guidare dall'ottimismo progressista dei sec. XVIII e XIX, nella speranza di riuscire a produrre benessere e felicità per tutti. Ma la realtà politica e sociale del loro tempo non era ancora pronta a recepire il loro messaggio.