emarginazióne
sf. [sec. XIX; da emarginare]. La condizione di coloro che sono esclusi, in misura considerevole, dalle risorse fondamentali che le società industriali contemporanee assicurano alla grande maggioranza dei propri membri: partecipazione a pieno titolo al processo produttivo; livelli di reddito sufficienti per la soddisfazione dei bisogni primari e di una certa quota di quelli secondari; accesso all'istruzione, quanto meno fino alla prima adolescenza; rispettabilità sociale, quale è valutata secondo i canoni correnti. La specificità di tale condizione non si presta a essere adeguatamente definita tramite il ricorso a categorie concettuali eccessivamente ampie, quali quelle che evocano senza ulteriori articolazioni il mondo degli “sfruttati”, degli “oppressi”, dei “poveri”. Gli emarginati costituiscono invece strati sociali minoritari e si caratterizzano per la loro pressoché assoluta estraniazione dall'apparato produttivo centrale e dai modelli di consumo dominanti. Giova, in particolare, mettere l'accento sulle differenze che giustappongono la loro condizione rispetto a quella proletaria. Il proletariato in senso marxiano è soggetto a forme di sfruttamento, di alienazione, di dominio autoritario, ma si trova collocato nel cuore del processo produttivo, e da questa “centralità” è in grado di ricavare, almeno virtualmente, un non trascurabile potere sindacale e politico. L'esercizio di un siffatto potere resta precluso, viceversa, alle frange sociali ora in questione: quelle proiettate al di fuori o alla periferia dello sviluppo. A esse si adatta piuttosto, non del tutto impropriamente, un'ulteriore categoria marxiana, quella di “sottoproletariato”: nozione, questa, che richiederebbe di venire riformulata in funzione delle nuove caratteristiche della fase matura del capitalismo. Nell'ambito di tale fase si è progressivamente ampliata l'area delle prerogative garantite dagli ordinamenti giuridici alla generalità dei cittadini: non più solo i diritti politici e civili, ma anche quelli economici e sociali. Ma dall'esercizio di questi ultimi diritti restano estromessi alcuni gruppi e singoli: quelli per cui è stato coniato il termine “emarginati”. In parte si tratta di eccezioni che gli stessi ordinamenti giuridici stabiliscono e disciplinano, a fini di difesa della società, da deviazioni pericolose o ritenute tali: è il caso della reclusione per i criminali o dell'internamento nei manicomi per i malati di mente. In parte, invece, ci si trova di fronte alla contraddizione fra i principi affermati in sede normativa e le dinamiche poste in essere nei fatti dal sistema economico e sociale, nell'ambito del quale le aggregazioni di interessi più potenti fanno sì che alcuni gruppi sociali vengano sacrificati nella distribuzione delle risorse collettive. Alcuni studiosi sociali, da Goffman a Foucault, tendono peraltro a negare o ad attenuare la distinzione fra l'emarginazione di origine legale e quella riconducibile a fattori economici. L'isolamento fisico dei delinquenti e dei malati di mente, la concentrazione in quartieri-ghetto dei sottoproletari, la stessa inferiorità sociale che colpisce i portatori di certe anomalie fisiche o di altre caratteristiche fuori della norma costituiscono – secondo questo filone interpretativo – i molteplici risvolti di un unico fenomeno: vale a dire il processo attraverso il quale la società consolida la propria coesione intorno alla sua scala di valori e alle sue regole del gioco. Altre analisi mettono l'accento sulle determinanti economiche dell'emarginazione. Il sistema capitalistico, alla luce di tali analisi, è strutturalmente incapace di garantire uno sviluppo immune da profondi squilibri economici e sociali. Fra i temi relativi all'emarginazione, uno fra i più discussi è quello delle discriminazioni che colpiscono la donna. Per lo più i movimenti femministi tendono a considerare le masse femminili in genere quali titolari di un ruolo marginale nel mondo del lavoro, della cultura, nelle altre dimensioni della società. Le crisi economiche comportano un considerevole ampliamento numerico degli strati emarginati. Nel caso italiano, in particolare, si è aggravato non soltanto il fenomeno della disoccupazione in senso stretto, ma anche quello dell'occupazione precaria e della disoccupazione “scoraggiata”. Con quest'ultimo termine taluni economisti designano la situazione di coloro che non figurano tra i disoccupati calcolati dalle statistiche ufficiali, in quanto non premono attivamente sul mercato del lavoro, ma che presumibilmente rimuoverebbero questo atteggiamento di rinuncia se le possibilità occupazionali diventassero più ampie (studenti che usano la scuola come “area di parcheggio” permanente, casalinghe, ecc.). Tra le forme di occupazione precaria si è venuta diffondendo soprattutto quella del lavoro a domicilio. Ma i processi di emarginazione più evidenti sono quelli che colpiscono gran parte delle masse giovanili, sottoposte all'estrema difficoltà di trovare la prima occupazione. La portata dei fenomeni indicati appare tale da alimentare pericoli di disgregazione sociale. È al dilagare dell'emarginazione, infatti, che vengono da più parti fatte risalire le forme di ribellismo disperato e senza sbocchi, di violenza individuale e collettiva, di ricorso alla droga; vedi anche marginalità.