cinése

Indice

Lessico

agg. e sm.

1) Agg., proprio della Cina, relativo alla Cina; filosofia cinese, ombre cinesi; occhi cinesi, alla cinese, a mandorla (come li hanno i Cinesi); padiglione alla cinese, chiosco a forma di pagoda; vela cinese, vela al terzo, di forma trapezoidale ellittica, munita sull'intera altezza di numerose stecche trasversali e sul lato superiore di numerosi anelli di cima per l'inferitura. Tipica vela delle giunche cinesi, si va diffondendo sulle imbarcazioni da diporto per la sua buona manovrabilità. Per estensione, comunista cinese, seguace della linea politica ispirata alle idee di Mao Tse-tung; spregiativo, estremista (anche sm.: un cinese). Fig., strano, incomprensibile: una grafia cinese. 2) Sm., abitante o nativo della Cina; la lingua ivi parlata.

Linguistica

Il cinese è la lingua del continente asiatico che conta il maggior numero di parlanti e vanta un'illustre e antica tradizione letteraria; ha affinità con il birmano, il tibetano e il siamese. Nel cinese si distinguono la lingua classica o lingua scritta e la lingua volgare o lingua parlata. La prima (wen-yen) è la lingua dei testi sacri del confucianesimo e la lingua dotta dell'antica letteratura; non ha subito grandi cambiamenti nel corso dei secoli e fino a un'epoca recente veniva usata ancora come lingua ufficiale dei documenti pubblici e amministrativi, mentre è stata attualmente sostituita dalla lingua parlata. La stessa Costituzione della Repubblica Popolare Cinese è redatta in lingua parlata. Anche questa lingua ha una sua letteratura e si presenta naturalmente differenziata in numerosi dialetti. L'area dialettalmente più omogenea è quella che comprende tutta la Cina settentrionale e centrale, mentre nella regione costiera sudorientale si trovano dialetti molto diversi: i dialetti di Wu a S di Shanghai, i dialetti di Min o di Fukien nella regione omonima e i dialetti della regione di Canton. Tra tutti i dialetti della lingua parlata il più importante è il cosiddetto mandarino (kuan-hua), cioè la lingua dei funzionari dell'antica amministrazione imperiale, largamente diffuso in tutta la Cina centro-settentrionale. È su questo dialetto, nella pronuncia standard di Pechino, che si va formando una lingua parlata comune (prima detta kuo-yü, idioma nazionale, ora p'nt'ong-hua, lingua comune) che la scuola, la stampa e i grandi mezzi di comunicazione sociale tendono a diffondere in tutta la Cina. Le differenze tra i vari dialetti cinesi sono soprattutto di ordine fonetico, cioè riguardano essenzialmente la pronuncia: così il nome della Cina a Pechino è Ciong-kuo, a Canton Ciung-kuak, a Foochow Tüng-kuok. In altri casi però le differenze sono anche di ordine lessicale e grammaticale e rendono praticamente impossibile la comprensione tra i vari dialetti. Caratteristica fondamentale della lingua cinese è che la parola, nella sua forma elementare, è costituita da un monosillabo che, nell'attuale pronuncia di Pechino, è formato da un elemento vocalico che può essere o meno preceduto da una consonante e seguito da una consonante di tipo nasale (n, ng). Un altro elemento fondamentale del cinese è rappresentato dai diversi toni o inflessioni musicali della voce che intervengono nella pronuncia delle parole: il dialetto di Pechino ha quattro toni (piano, ascendente, circonflesso, discendente), ma altri dialetti ne hanno anche un numero maggiore. Il tono assume in cinese un'importanza decisiva ai fini della distinzione semantica perché spesso è l'unico elemento differenziatore di parole altrimenti omofone: così mai, comprare, e mai, vendere, si distinguono solo per il tono. L'unità base fondamentale cinese non è solo monosillabica, ma è anche invariabile, cioè il vocabolo non varia a seconda che esprima un singolare o un plurale, un maschile o un femminile ecc. A volte basta la sola posizione della parola nella frase a determinarla grammaticalmente: kao šan, l'alto monte, šan kao, il monte è alto. Altre volte si ricorre a termini ausiliari che vengono giustapposti alla parola che si vuole determinare: così, per esprimere il plurale si aggiunge il termine men (žen, uomo, žen-men, uomini; wo, io, wo-men, noi); per esprimere il femminile si premette il termine nhiu (femmina) o mu (madre): nhiu žen, donna, rispetto a žen, uomo; per esprimere il rapporto di genitivo si aggiunge il termine ti, che sembra essere la forma moderna dell'antico dimostrativo, alla parola che deve sempre precedere quella determinata (žen ti ma, il cavallo dell'uomo). La forma che funge da aggettivo, se ripetuta, può spesso assumere un valore avverbiale: man (lento), man man (lentamente). La parola che funge da verbo non ha forme distinte per le diverse persone: quindi lai può valere vengo, vieni, viene, veniamo, venite, vengono, bastando il pronome o il soggetto a differenziare le persone. Le forme verbali si formano o con elementi equivalenti agli avverbi o ai verbi ausiliari (per esempio con yao, volere, si forma il futuro, come in inglese lo stesso tempo si forma con will; con leao, terminare, finire, si forma il passato).§ Le prime attestazioni della scrittura cinese risalgono all'incirca al sec. XIV a. C.; essa è nelle sue origini una scrittura di tipo pittografico e ideografico, che tende cioè a rappresentare in modo visivo ciò che si vuole esprimere. Ciò comporta naturalmente un numero notevolissimo di ideogrammi (secondo il dizionario K'ang-hsi ammontano a 47.021, anche se quelli di uso più comune sono 5000-6000), anche se viene utilizzato uno stesso segno per indicare le parole omofone ma con diverso significato. Per evitare le possibili confusioni nell'interpretazione di un segno unico per più parole di ugual suono, si usa un carattere distintivo (chiave) che indica la categoria o la classe cui appartiene l'oggetto o la nozione che si vuole esprimere. Così, per esempio, la parola mei, albero delle prugne, viene scritta con lo stesso segno di mei, ciascuno, ma con la “chiave” che indica la categoria “albero”. La necessità di una precisa notazione del numero dei segni che compongono i caratteri cinesi e di una loro perfetta esecuzione spiega l'importanza che in Cina si attribuisce alla calligrafia, che viene considerata una forma d'arte come la pittura. I caratteri sono normalmente disposti in linee verticali dall'alto in basso, e le linee si susseguono da destra a sinistra, cosicché in una pagina o in un foglio la prima parola è in alto a destra e l'ultima in basso a sinistra. Per semplificare questo sistema di scrittura sono stati fatti tentativi, anche in epoca recente, e non sono mancati neppure progetti ancora più radicali di trascrivere foneticamente il cinese in caratteri latini (per esempio il sistema pinyin). Allo stato attuale, tutti i Cinesi, anche se parlano dialetti completamente diversi, sono in grado di capire lo stesso testo pur leggendolo diversamente secondo il proprio dialetto: perciò giornali, libri di scuola, documenti ufficiali possono essere letti e compresi in tutta la Cina.

Sotto questa denominazione comune sono ricordati i missionari e i fedeli, cinesi o no, che durante i vari periodi di persecuzione sacrificarono la loro vita in testimonianza della fede cristiana. Di questi, 19 furono beatificati da papa Leone XIII nel 1889, 1893 e 1900; 14 da Pio X nel 1909 e 29 da Pio XII nel 1946 (questi ultimi vittime della rivolta dei Boxers nel 1900). Primo martire è Francesco Fernández de Capillas (1607-1648).

Atti di culto che i Cinesi tributavano da tempo immemorabile a Confucio, alla famiglia dell'imperatore e ai loro antenati. I gesuiti, fin dal loro arrivo in Cina, avevano compreso che sostanzialmente si trattava di onoranze civili senza un preciso significato religioso, anche se nella forma esteriore assumevano l'apparenza di un rito, e ne permisero la pratica ai nuovi cristiani (1603, 1605). Domenicani e francescani, giunti in Cina nel 1633 e nel 1635, li vietarono. Sorse un grave contrasto, che venne portato davanti a papa Alessandro VIII. La controversia si trascinò fino al 1742 con la proibizione di tali pratiche da parte di Benedetto XIV. Solo nel 1935 la Congregazione De Propaganda Fide ne ammise il carattere di mere onoranze civili e li permise, pur raccomandando le necessarie precauzioni per non ingenerare confusione tra i fedeli.

Per la lingua

G. Margouliès, La langue et l'écriture chinoises, Parigi, 1943; J. De Francis, Nationalism and Language Reform in China, Princeton, 1950; M. Abbiati, Corso introduttivo di lingua cinese moderna, Venezia, 1981; S. R. Ramsey, The languages of China, Princeton, 1987.

Per la grammatica

B. Karlgren, The Chinese Language, New York, 1949; R. A. D. Forrest, The Chinese Language, Londra, 1965; V. Alleton, La grammatica del cinese, Roma, 1976; M. Scarpari, Lingua cinese classica, Venezia, 1981.

Per la scrittura

B. Tchang Tcheng-Ming, L'écriture chinoise et le geste humain, Shanghai-Parigi, 1937; L. Wieger, Chinese Characters, New York, 1965; Ho Yung-yi, Analisi degli ideogrammi, Milano, 1970.

Dizionari

R. H. Mathews, Chinese-English Dictionary, Cambridge (Massachusetts), 1960; S. Couvreur, Dictionnaire classique de la langue chinoise, Taichung, 1966; B. Karlgren, Analytic Dictionary of Chinese and Sino-Japanese, New York, 1974; Dizionario italiano-cinese e cinese-italiano, a cura dell'Istituto delle lingue estere di Pechino, 1985.

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